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Autore: Tenar80    29/09/2020    2 recensioni
2032
Victor e Yuuri gestiscono un'accademia di pattinaggio in Giappone.
Otabek e Yurio si sono da poco accasati in Inghilterra.
La vita scorre, non sempre sui binari che erano stati progettati.
Questa storia conclude la serie "Stagioni".
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Eccoci qui, alla fine.
I nostri "pattinini" li voglio lasciare così, due coppie affiatate, protese verso il futuro e nuove sfide.

Vi lascio con un extra particolare che ci porta a vedere le cose dal punto di vista della mamma di Otabek.
Questo racconto è un po' speciale. È dedicato a tutti quei genitori i cui figli prendono strade impreviste. Che si trovano nipoti inaspettati, con tratti diversi dai propri, in cui non possono specchiarsi, frutto di scelte magari difficili da capire per i loro coetanei e il loro tessuto culturale. A volte diventano diventano dei nonni-leone quando si trovano a dover difendere i loro nipoti atipici dalle chiacchiere e dalgi sguardi malevoli.


 

    SOGNI DI MADRE

 

    I sogni delle madri sono senza fantasia.

    Per un neonato si preparano culle dai bordi alti e morbidi, lettini con le sbarre e box recitati. Si appronta tutto un piccolo mondo di gabbie accoglienti, che finiscono per crescere, dentro la testa di una madre, senza sparire mai del tutto.

    Per il proprio primogenito, sui suoi primi passi ostinati, lui che fin da subito non aveva voluto mani a sorreggerlo, il visetto paffuto già chiuso in un’espressione di sfida, Aiday aveva ricamato orsetti su bavaglioli e progetti nella propria mente. Lo immaginava architetto, come suo marito, o ingegnere, in uno studio dalle vetrate ampie, da cui si vedessero le montagne, con una casa in uno dei nuovi quartieri di Almaty, a meno di un quarto d’ora dalla loro abitazione.

    Con un sospiro. Aiday guardò la terra lontana, oltre il finestrino dell’aereo. Il monitor, sul sedile di fronte, le diceva che era la Francia. Non era la prima volta che prendeva l’aereo, ma era la prima volta che lo faceva da sola. La prima volta che poteva concentrarsi su se stessa e ciò che aveva intorno e non su chi accompagnava. Non l’aveva vista, le altre volte, la Francia. Non così, tanto verde e spopolata. Ma entro un quarto d’ora, sempre a detta del monitor, sarebbero passati a fianco di Parigi e forse avrebbe visto il sole riflesso sulla Tour Eiffel. Non l’aveva mai vista, se non nei film, la Tour Eiffel. 

 

    A disagio, improvvisamente più consapevole della propria solitudine, si strinse le mani una con l’altra. Erano magre, con le vene in rilevo e qualche macchia sulla pelle, ma non tremavano più, come avevano fatto al check-in, quando aveva mostrato i documenti alla hostess per il controllo.

    – Parente dell’atleta? – aveva chiesto la donna.

    Il Kazakistan non aveva abbastanza medaglie olimpiche da permettersi di dimenticare i propri eroi, anche a distanza di anni. Lei aveva fatto un sorriso, senza confermare né negare, e aveva proseguito. Chissà se anche quella donna, che aveva all’incirca l’età di Otabek, si era innamorata di lui, seguendone le gare in televisione?

    Aiday l’aveva sempre odiato il pattinaggio. Lei aveva iscritto Otabek a ginnastica, quando aveva cinque anni, per far muovere un po’ un bambino di città e rafforzarne la muscolatura. Con intenti semplici, senza fantasia. Voleva che si divertisse, non che scoprisse una vocazione. Le madri, pensò, diffidano per istinto dalle vocazioni dei figli. Non aveva previsto che nel giro di due anni lui le sarebbe stato rapito a favore di un sport più freddo e scomodo, solo perché il comune voleva promuovere un nuovo impianto. Aveva odiato accompagnarlo alle gare, rimanere a gelare seduta sugli spalti di cemento, con la pelle delle mani che si screpolava e il naso che iniziava a colare. Aveva sperato con tutta se stessa che se ne stancasse. Che i compagni di scuola lo prendessero in giro per i volteggi che doveva provare e riprovare. Che semplicemente capisse che non ne valeva la pena. Ma lei era ostinata e tutti i suoi figli, ciascuno a suo modo, lo erano. Senza capire come, si era trovata ad accompagnare Otabek all’aeroporto non per una trasferta di pochi giorni, ma per un arrivederci lungo anni interi. Un quindicenne con tutto il suo bagaglio in uno zaino e in un trolley, e lei sapeva di averlo perso per sempre. Anche se quattro anni dopo era tornato e per qualche anno aveva vissuto con loro, non era più stato suo. C’è un momento preciso in cui un ragazzo si trasforma in un uomo e lei l’aveva perso. Aveva perso, insieme ad esso, la capacità di leggere nei suoi occhi scuri, nelle sue labbra perennemente serrate, nella fronte corrucciata a mezzo. Dei suoi figli era l’unico che potesse guardarla negli occhi e mentirle. Non che gli altri non ci provassero, ovviamente. Rustam lo faceva continuamente, di fatto ogni volta che andava a trovarli, quasi sempre per chiedere soldi. Ma Otabek le sfuggiva. Poteva sorriderle quando in realtà stava soffrendo, o mostrarsi serio quando esultava e lei non avrebbe mai potuto capirlo. Questo non l’aveva mai portata a fidarsi meno di lui, o ad amarlo di meno. Otabek era sfuggito dalla gabbia di sicurezza che lei aveva intessuto per lui, volava in luoghi di cui lei non aveva neppure sospettato l’esistenza. Non aveva più bisogno della sua famiglia, era piuttosto il contrario. E tuttavia continuava a tornare. Fino alla videochiamata della settimana precedente.

 

 

    – Come sarebbe a dire che non torni per Natale? – aveva ripetuto lei, incredula.

    Il Natale non significava nulla per loro, erano mussulmani. Ma, dal momento che Otabek viveva in Inghilterra, era il periodo dell’anno in cui aveva le ferie. Ed era per certi versi più bello averlo per casa in quello che per loro era un tempo ordinario, senza orde di parenti in visita, senza la necessità di presenziare alle feste. Aiday si illudeva che per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato a tornare a casa per Natale.

    – Come sarebbe a dire che non torni?

    – Non è una frase complicata. Mi spiace. Non riesco a tornare per Natale.

    Aiday aveva scosso il capo, toccandosi con un gesto automatico la crocchia di capelli ormai ingrigiti.

    – Non ha importanza se non arrivi per il venticinque…

    – No, mi spiace – Otabek aveva il solito cipiglio serio. 

    A trentasette anni era, a ben vedere, una versione autentica del se stesso adolescente, stessi capelli corti, stessi maglioni grigi o neri. Se allora, Aiday lo sapeva, Otabek aveva immaginato se stesso come un giovane soldato pronto alla battaglia, ora era un solido ufficiale, le cui parole a spesso peccavano per omissione, ma il cui senso era sempre univoco. Se le avesse dato retta almeno una volta, il suo aspetto sarebbe stato diverso. Lo sguardo deciso di Otabek era quello di un uomo che a volte aveva sbagliato, ma non aveva mai tradito se stesso.

    – Per qualche mese potrò lasciare l’Inghilterra solo per emergenze – aggiunse l’uomo.

    – Non stai bene? Non sta bene…

    – No, mamma, tranquilla

    Aiday lo vide esitare.

    Suo figlio esitava pochissimo. Ancora più raramente lo lasciava trasparire. Di solito questo accadeva quando sapeva che le sue scelte li avrebbero feriti e non sapeva se condividerle o meno. L’ultima volta, quando aveva annunciato di aver chiesto la cittadinanza inglese. Suo padre non gli aveva parlato per un mese. Quindi era qualcosa di davvero serio. Si era convertito a qualche strana religione? Era diventato vegano, quella perversione occidentale in cui non si mangiava nessun tipo di derivato animale, neppure l’agnello? Peggio, aveva deciso di investire tutti i propri risparmi nell’allevamento suino?

    – Ti ho detto che sto ospitando una bambina… – iniziò Otabek.

    – Me ne hai accennato mesi fa. non era una cosa temporanea? – chiese. – Pensavo che se ne fosse andata…

    Riteneva suo figlio in grado di compiere quasi qualsiasi impresa, ma non ti relazionarsi con dei bambini.

    – Non così tanto temporanea. Il giudice mi ha dato l’affido, ma i documenti per ora non mi permettono di portarla all’estero.

    Aiday si rese conto di aver tenuto la bocca spalancata. La richiuse di scatto.

    – Un giudice ha affidato una bambina a te?

    – Ho vinto una medaglia alle olimpiadi. Ho laurea e dottorato. Insegno all’università. In generale si ritiene che questo faccia di me una persona affidabile.

    Aiday trattenne uno sbuffo che minacciava di trasformarsi in risata, mentre l’espressione di suo figlio si stava facendo ostile.

    – Quale disgrazia le è capitata perché un giudice l’abbia affidata a te?… No… Aspetta… Da quanto vive da te? Quanti anni ha?

    – Kamalika ha sette anni…

    – Kamache? Un nome normale no?

    Suo figlio incrociò le braccia.

    – Pensi che Otabek qui sia comune?

    – Sempre meglio di Kamacosa.

    – Kamalika. È indiano.

    – Indiana? No… Aspetta… L’hai vinta alla lotteria? O in Inghilterra estraggono a caso chi si deve occupare dei bambini?

    Aiday si rendeva conto che non era il modo abituale con cui si rivolgeva a suo figlio. Ma se le avesse detto che stava ospitando un alieno, forse la cosa le sarebbe sembrata più ovvia, più naturale.

    – Una volta alla settimana faccio fare sport ai bambini, ti ricordi che te ne ho parlato?

    – Quella roba benefica in cui eri stato tirato dentro con i bambini dei quartieri disagiati. Te ne eri lamentato, sì.

    – Ok. Kamalika è una di quei bambini. Non ha la mamma. E suo padre ha avuto guai con la giustizia…

    – Guai? Che guai?

    – Abbastanza per tenerlo dentro per i prossimi vent’anni, a quanto pare.

    – È la figlia di un delinquente? Tu hai in casa una piccola delinquente?

    Adesso Otabek la guardava con disapprovazione. Solo Otabek, tra tutti i suoi figli, era in grado di guardare lei con disapprovazione. Anche quella, sentirsi mal giudicata dal proprio figlio, era una cosa innaturale.

    – Suo padre ha dei guai con la giustizia. Lei è una bambina di sette anni – replicò Otabek.

    Usava quel tono particolare. Ogni parola era una porta sbattuta in faccia.

    – Beh, mai conosciuto uno figlio di un delinquente che non lo sia diventato a sua volta.

    Anche lei aveva incrociato le braccia. Era suo figlio e non aveva intenzione di lasciarsi intimidire.

    – Rustam è stato tre mesi ai domiciliari. Questo fa di tutti noi dei delinquenti?

    – Tre mesi ai domiciliari non sono vent’anni di galera – sbuffò Aiday.

    Aveva spacciato erba per ripagare dei debiti. Il suo terzo figlio era un idiota, più che un delinquente.

    – Chi viene da certi ambienti è segnato a vita – puntualizzò.

    – Chi viene da certi ambienti non te lo viene a dire per evitare proprio questo tipo di reazione.

    – Non lo dicono perché non ci sono. Stanno tutti in galera.

    – Victor. L’allenatore.

    – Victor cosa?

    Lo aveva visto di persona durante le poche gare del figlio a cui aveva assistito. L’allenatore di Yuri, da cui Otabek andava ogni estate. Un uomo così distinto e a modo che, beh, quando aveva scoperto che conviveva con un uomo aveva pensato che fosse davvero una cosa immorale. Forse, però, per motivi diversi da quelli che avrebbe elencato un imam.

    – Suo padre è stato dentro e fuori di galera e anche lui è stato in affido – spiegò Otabek.

    Era già pentito di aver parlato. Suo figlio era il confidente ideale, perché si sarebbe buttato nel fuoco piuttosto che rivelare un segreto. Il fatto che le avesse rivelato quella che era evidentemente una confidenza le diede, più di ogni altra cosa, la misura di quanto seria fosse la questione.

    – Beh, qualche strascico l’avrà lasciato. Sarà per quello che è diventato…

    – Mamma! Ne abbiamo già discusso. Non è una malattia.

    Ecco un altro argomento intoccabile.

    – Va bene, va bene. Quindi fammi capire. Ha un papà in galera. E tu saresti?

    – Il genitore affidatario.

    Genitore. Al netto dell’aggettivo, sembrava una cosa destinata a durare. Con cui fare i conti.

    – Un altro padre? Non avrebbero dovuto trovarle una madre, piuttosto? Che cos’hanno in testa questi giudici, segatura? Come verrà su, adesso, questa creatura?

    L’espressione del figlio si fece un po’ meno ingessata.

    – Sarebbe stata meglio una madre – ammise. – Ma non pare ci sia la fila di aspiranti genitori affidatari. Per quanto improbabile possa sembrarti, pare fossi il meglio sulla piazza. Quindi verrà su tra la matematica e il palaghiaccio, così come io sono cresciuto tra i progetti di papà e i tuoi piatti d’agnello.

    – Comunque, insomma, è una cosa temporanea. Non è che è tua figlia davvero.

    Stava cercando di prendere a tentoni la misura della novità, cercando di capire quanto spazio dovesse concedere nei suoi pensieri quella creatura dal nome impronunciabile. 

    – È una cosa… – la voce di Otabek era di colpo incerta, come se neppure lui volesse sbilanciarsi a parlare. – Come possiamo dire… Sotto monitoraggio costante. Potrei non risultare più adatto. O lei a un certo punto potrebbe non volerne più sapere… Tuttavia, in assenza di un parente che se possa prendere cura, esiste la possibilità che si fermi a lungo. Nel caso, quando sarà maggiorenne,  forse anche prima, potrebbe esserci un’adozione vera e propria. Kamalika Altin.

    Kamalika Altin. La figlia di un tizio che si era beccato vent’anni di galera. Quindi un omicida o poco meno. Affidata da un giudice irrimediabilmente idiota a un uomo che non aveva nessuna intenzione di recuperarle una madre.

    – Ho capito. Vorrà dire che vengo io in Inghilterra.

    Ebbe la soddisfazione di vedere suo figlio allibito.

    – Tu che vieni a casa mia? E papà?

    Suo marito non aveva più l’età e la salute per viaggiare. E, anche se avesse avuto entrambe, lo stile di vita occidentalizzato del figlio sarebbe bastato a ucciderlo. La loro relazione andava avanti ormai da quasi vent’anni sul non chiedere e il non spiegare. E, c’era da dire, funzionava molto meglio di altri rapporti padri-figli. 

    – Tua sorella ha un minimo di sale in zucca e viene a trovarci con quell’idiota di suo marito. Papà starò con loro e la famiglia di Bolat.

    – Ti rendi conto che in casa scoppierà la guerra mondiale? – chiese Otabek.

    Bolat era un perfetto figlio, se non di Aiday, del nuovo Kazakistan islamizzato. Avrebbe esposto con orgoglio i suoi bambini devoti. Ogni volta che venivano a casa loro, la donna si chiedeva se la moglie fosse davvero soddisfatta di essere la sottomessa sposa di un predicatore di una noia mortale o se almeno si fosse presa qualche soddisfazione e quei figli dagli occhi chiari fossero di qualcun altro. Sotto sotto, Aiday guardava con simpatia a quella seconda possibilità. Aiman, invece, aveva studiato all’estero e si occupava di cose schifose, malattie infettive, con un marito buono a nulla che le dava corda invece di farle capire che ormai era ora di allargare la famiglia.

    – Scoppierà in ogni caso – disse, sincera. – Tanto vale scappare.

 

    

    Aiday riaprì gli occhi, rendendosi conto di essersi assopita.

    Non aveva visto la Tour Eiffel, anche ammesso che fosse possibile vederla. Così, pensò, è la vita, il continuo rischiare di passare a fianco di cose importanti senza vederle. O volerle vedere. Scegliendo sempre la tranquillità alla novità. Era questo che aveva augurato ai suoi figli. Lei che era scappata di casa a sedici anni con un mussulmano di origine turca e che aveva riabbracciato sua madre solo dieci anni dopo, quando suo padre era morto. Ai suoi figli aveva augurato di non dover provare mai il dolore di quelle scelte. Né, di conseguenza, la gioia di percorrere la propria strada.

    Alcune cose di suo figlio, pensò mentre l’aereo iniziava la discesa, non le avrebbe mai capite. Come i suoi genitori, leninisti della vecchia scuola, con un nonno ufficiale dell’Armata Rossa, non avevano mai capito la sua conversione all’Islam. Il sollievo di avere Qualcuno a cui pregare. O contro cui inveire. Fosse stato per sua madre, avrebbe continuato gli studi, sarebbe diventata agronoma come lei. Forse non sarebbe stata una brutta vita. Ma non sarebbe stata la sua. Difficilmente avrebbe sfiorato la Tour Eiffel per andare a conoscere una bimbetta indiana, figlia di un delinquente, che rischiava di trovarsi addosso per caso quel cognome che lei aveva lottato così tanto per portare.

 

    La aspettavano all’aeroporto, appena oltre il controllo documenti.

    La bimbetta, pensò Aiday, mentre si avvicinava, aveva proprio quell’aspetto spaurito da foto di associazione umanitaria in cerca di fondi. Magrissima, suo figlio era evidentemente incapace di nutrirla  a dovere, scurissima, con la pelle che contrastava con la terribile giacca a vento rosa, e gli occhioni enormi e spaventati. Otabek la teneva per mano, portava il cappotto nero aperto. Sotto, la felpa nera mostrava la stampa di un disegno infantile. C’era una lontra con un cucciolo che giocava tra le sue zampe e la scritta «Daddy Otterbek». La firma poteva essere Kamaqualcosa.

    Suo figlio, l’uomo più serio del creato, si era fatto stampare sulla felpa un disegno della bimbetta. E se la metteva per andare in giro.

    Sono fottuta, pensò.

    Quando si avvicinò, la bimbetta tirò fuori da dietro la schiena tre rose bianche, le sue preferite.

    – Signora… – iniziò, incerta.

    – Nonna. Come altro diavolo vuoi chiamarmi?




Quindi questa è la fine? Beh, è la fine di "Stagioni". Non ho idea di come sarà il mondo nel 2032 e ho un po' paura a buttare lo sguardo troppo avanti.
Spero che vi sia piaciuto il viaggio, che vi piaccia immaginare le mie due famigliole, quella in in Inghilterra, alla presa con una bimbetta a cui non manca in carattere e quella giapponese, tutta presa tra atleti e nipoti.
Victor, Yuuri, Yurio e Otabek rimarranno sempre parte di me e non escludo che tornirno a raccontarmi qualcosa, magari sotto altre forme.
In effetti qualcosa mi hanno già raccontato.
In un'oziosa sera d'inverno, a un certo punto sul gruppo wa "Più Otabek per tutti" abbiamo iniziato a giocare alle AU. Abbiamo iniziato a passarci immagini ed è emerso uno Yurio in tenuta militare con due grandi ali nere a cui ha fatto seguito un Otabek in abiti vittoriani. Ed è stato subito steampunk... Solo che nel dare forma alla storia i personaggi per lo più hanno cambiato nome, Victor ha cambiato sesso (probabilmente la risultante, Victoria, è più virile, mi commentano i personaggi). Sono persino cambiati i rapporti di età. Insomma è diventata talmente AU da non avere più molto dell'originale. Quindi alla fine i racconti che ne sono nati li sto accasando tra le originali, qui. Se qualcuno volesse darci un'occhiata, credo che conoscendo la derivazioni alcune cose si notino (nel primo racconto abbiamo una Victoria e un Chris, per dire, e il cognome di Victoria è stato scelto con molta cura per ricalcare il significato dell'originale).

Niente, è proprio il momento dei ringraziamenti e dei saluti.
Queste storie non esisterebbero senza Elina e Thalia. Senza Lele, che non passa di qui, ma è la più grande fan di Otabek che si possa immaginare. Non avrei scritto una parola senza il sostegno costante di Nicola, che non vuole passare di qui, ma si assicura che io lo faccia. 
Syila mi ha tenuto per mano dalla prima all'ultima parola e per questo le sono infinitamente grata. Sono grata a tutti coloro che hanno regalato parte del loro tempo a leggere queste storie, a chi ha recensito, ha chi pa inserito le mie storie tra le seguite, le ricordate e le preferite.
GRAZIE A TUTTI VOI CHE SIETE ARRIVATI FIN QUI



 

    

   
 
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