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Autore: Soul Mancini    01/10/2020    4 recensioni
Ives è un bambino sveglio e vivace, non si tira certo indietro quando c'è da giocare qualche scherzo a insegnanti e compagni insieme ai suoi compagni di bravate, Diego e Gordon.
In una tiepida giornata di ottobre però i suoi amici decidono di prendere di mira Lisbeth, la secchiona della classe, costante bersaglio di prese in giro e pettegolezzi da parte degli altri alunni. Ives non vorrebbe passare per guastafeste, ma non se la sente proprio di prendersela con quella bambina troppo timida e dolce, che non riesce nemmeno a difendersi dalla cattiveria altrui.
Tutti in classe la vedono come una sfigata, ma ai suoi occhi è solo una bimba un po' particolare.
- TERZA CLASSIFICATA al contest "Seasons Die One After Another II Edizione" indetto da Laila_Dahl sul forum di EFP.
Genere: Commedia, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Kidfic | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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Ives
Not like the others
 
 
 
 
Richiusi la porta dell’ufficio del preside, poi mi voltai verso i miei compagni di classe e presi a ridacchiare.
“Anche questa volta ce la siamo cavata” esultò Diego, dando il cinque prima a me e poi a Gordon.
“Però forse è meglio smetterla con questi scherzi. Non avete sentito cos’ha detto il preside? La prossima volta che la maestra Watson si lamenterà di noi, chiamerà i nostri genitori… mio padre mi uccide!” sussurrò Gordon mentre ci incamminavamo verso la nostra aula.
“E dai, non succederà niente! E poi è troppo divertente far andare fuori di testa la maestra, avete visto come ha strillato oggi?” lo rassicurò Diego, mollandogli una forte pacca sulla schiena e sorridendoci divertito.
“La prossima volta, al posto di metterla sulla sedia, la gomma da masticare possiamo lanciargliela nei capelli!” suggerii io.
“Grande, Ives!” esultò Diego, mostrandomi il pollice all’insù.
“Tanto ormai li sta perdendo, non sarà così grave se li dovrà tagliare” aggiunsi.
Gordon si strinse nelle spalle. “È troppo esaurita, secondo me è per quello che le stanno cadendo.”
Scoppiammo a ridere.
Mi guardai attorno per assicurarmi che i corridoi fossero deserti, poi mi voltai verso i miei due compagni e scoccai loro un sorriso complice. “Facciamo una gara? A chi arriva prima in classe!”
Gordon annuì.
“Ci sto!” accettò Diego con entusiasmo.
“Okay, allora, pronti sulla linea di partenza! Uno… due… tre…” contai, mettendomi in posizione e concentrandomi.
“Via!” gridò Gordon, cogliendoci alla sprovvista e scattando in avanti.
“Non vale, lo dovevo dire io! Sei partito prima!” protestai, prendendo a correre a mia volta.
Nonostante il suo vantaggio arrivai alla porta della nostra classe per primo, perché tra i tre ero il più veloce e l’avevo sorpassato senza troppa fatica; quando rientrammo nell’aula, avevamo il fiatone, il volto arrossato per la corsa e non riuscivamo a smettere di ridere.
La maestra Watson ci trucidò con lo sguardo, tra il brusio generale dei nostri compagni. “Cosa stavate combinando là fuori?”
“Niente” risposi subito, mettendo su il mio miglior sorriso innocente.
“Siamo sudati perché, anche se è autunno, fa ancora molto caldo” improvvisò Diego.
“Va bene, andate a posto, mi avete fatto perdere già troppo tempo oggi” ci liquidò in fretta in tono rassegnato, tornando a posare lo sguardo sulla lavagna dove stava scribacchiando qualcosa. Sembrava quasi infastidita dalla nostra presenza, ma del resto non aveva tutti i torti; da quando era cominciato l’anno scolastico, gliene avevamo combinato di tutti i colori.
Presi posto al mio banco insieme a Diego, mentre Gordon si sedette in quello subito dietro il nostro, come al solito.
“Allora, dove eravamo rimasti? Ah già: esistevano diversi tipi di dinosauri, alcuni si spostavano sulla terraferma, mentre altri vivevano in acqua e altri ancora si spostavano in volo. Mi raccomando, bambini, prendete appunti: ora vi elencherò alcune tra le specie di dinosauri più diffuse e le loro caratteristiche…”
Mentre gran parte degli alunni apriva il proprio quaderno, io poggiai la testa sul banco con fare annoiato e smisi di ascoltare la spiegazione della maestra. Avevo solamente voglia di uscire e godermi le ultime briciole d’estate che presto il freddo avrebbe portato via.
D’improvviso un gridolino si levò dall’estremità opposta dell’aula, facendomi sobbalzare e interrompendo la cantilena della maestra Watson; sollevai la testa e mi accorsi che Lisbeth, una mia compagna, era saltata in piedi e fissava con occhi sgranati la finestra accanto a cui sedeva di solito.
“Lisbeth, che c’è?” le domandò la maestra confusa, sovrastando il borbottio che si era diffuso nella stanza; qualcuno si era addirittura alzato dalla sua sedia per accostarsi al vetro.
La bambina, con le guance rosse per la vergogna, abbassò lo sguardo. “È che… che lì fuori c’è una cavalletta e io ho paura” balbettò, facendo qualche altro passo indietro.
“La finestra è chiusa, mica la cavalletta ti salta addosso!” la prese in giro Matt, picchiettando sul vetro e poi voltandosi verso di lei con un sorrisetto ironico.
“Tornate ai vostri posti! Lisbeth, anche tu!” Il tono della maestra Watson si addolcì un po’ quando si rivolse alla bambina; Lisbeth era una delle alunne più brave, attente e tranquille della classe, gli insegnanti non la rimproveravano mai.
“Ma maestra, ho troppa paura!” ribatté, sistemandosi nervosamente gli occhialini dalla montatura verde che le stavano scivolando sul naso.
“Che sfigata” borbottò Diego, mentre un’espressione divertita si dipingeva sul suo viso tondo.
“Lo fa solo per attirare l’attenzione” sussurrò Gordon a sua volta in tono tagliente.
La Watson sospirò. “Qualcuno può scambiarsi di posto con lei? Almeno se sta lontana dalla finestra, non vede la cavalletta.”
“Io!” si offrì subito Richard, uno dei bambini che stava al primo banco.
Mentre facevano a cambio, Lisbeth lo ringraziò timidamente e lui nemmeno le rispose; sapevo bene che le aveva fatto quel favore solo perché voleva stare nell’ultima fila e non per gentilezza. Nessuno era mai carino con Lisbeth.
Io sinceramente non capivo cosa avessero tutti contro di lei: certo, era una tipa un po’ strana e timida, stava sempre per i fatti suoi e non aveva amici, ma non dava mai fastidio a nessuno.
“Bene, adesso che tutti i problemi si sono risolti, fate silenzio e prendete la penna in mano: vi devo dettare alcune date importanti che dovrete imparare a memoria” riprese la parola la maestra.
Dopo aver assistito a tutta la scena in silenzio, posai nuovamente la testa sul banco e chiusi gli occhi.
“E così quella cretina di Lisbeth ha paura delle cavallette” sentii bisbigliare a Gordon in tono cospiratorio, segno che gli era venuta in mente qualche idea.
“Allora possiamo usare questa cosa per farle qualche scherzo” rispose subito Diego con lo stesso fare complice. “Ives, hai sentito? Apri gli occhi, ci serve il tuo aiuto!”
Spalancai le palpebre e lanciai un’occhiata di sbieco ai miei compagni di scorribande. “Perché io?”
“Perché tu sei il più veloce, il più piccoletto e il più bravo a non farti scoprire. Sentite, facciamo così: ci procuriamo una cavalletta e poi all’ora di ginnastica, quando tutti lasciano gli zaini negli spogliatoi, la infiliamo tra le sue cose. Così Lisbeth si ritroverà una bella sorpresa! Che ne dite?” propose Diego col suo solito sorrisetto furbo, forse anche un po’ cattivo.
Lanciai un’occhiata a Lisbeth che, al primo banco, prendeva appunti e teneva sempre lo sguardo basso. La verità era che non mi andava di farle uno scherzo. Finché si trattava della maestra, dei bidelli o di qualche altro compagno con cui andavamo d’accordo, non avevo nessun problema a combinarne di tutti i colori; però non volevo prendermela proprio con lei, che era troppo timida anche solo per chiacchierare con noi, che non sapeva mai difendersi e aveva sempre le guance rosse per l’imbarazzo. Non era mia amica, ma non volevo comunque trattarla male.
“Ives, ti abbiamo fatto una domanda” mi riportò alla realtà Gordon, sporgendosi appena verso di me e dandomi un colpetto sulla spalla.
“Io… io… non lo so” bofonchiai, per poi abbassare lo sguardo.
“E dai, sarà divertentissimo!” tentò di convincermi Diego con un sorrisone.
“Mancini, Carter e Suarez! Di nuovo voi? Volete fare una seconda gita dal preside?” tuonò la maestra Watson.
Io, Diego e Gordon ci voltammo di scatto e io misi su il mio solito sorriso innocente.
“Non se la prenda, stavo… io e Diego stavamo chiedendo a Gordon un paio di quei dinosauri che ha detto lei prima, perché ce li siamo persi” inventai, giusto per provare a porre rimedio.
“Se foste stati attenti per tutta la lezione, non ve li sareste persi! E adesso esigo silenzio assoluto, altrimenti sarò io stessa a convocare i vostri genitori!”
Mi trattenni dallo sbuffare e incrociai le braccia al petto, socchiudendo gli occhi.
 
 
“Ci serve il tuo aiuto perché tu, tra noi tre, sei quello che potrebbe riuscirci meglio! Tra l’altro ottieni quello che vuoi con quel faccino da angioletto, nessuno sospetta mai di te!”
Io, Gordon e Diego ci trovavamo nel cortile della scuola per l’intervallo; come al solito, avevamo preso posto sul bordo di un’aiuola piena di erbacce e ci facevamo scaldare dal sole tiepido di ottobre. Attorno a noi volavano le risate dei nostri compagni di scuola insieme alle prime foglie rosse e arancioni che si erano staccate dagli alberi.
Io tenevo lo sguardo basso e cercavo qualcosa di intelligente da dire. Ero sempre meno convinto; non mi andava proprio di essere cattivo con Lisbeth, ma non volevo nemmeno fare la figura del guastafeste con i miei amici. Non potevo tirarmi indietro, altrimenti Diego e Gordon mi avrebbero preso in giro.
“Io… ci devo pensare. Nemmeno a me stanno molto simpatiche le cavallette” inventai.
“E dai, Ives! Non vedo l’ora di vedere la faccia di quella smorfiosa quando si ritroverà quella bestiaccia nello zaino!” strepitò Diego, scoppiando a ridere e battendosi un paio di volte la mano sul petto ampio.
“Strillerà così forte che la sentiranno fino a New York!” ghignò Gordon, e la sua espressione cattiva affilò ancora di più il suo viso magro e spigoloso.
“No, fino a Londra!”
“Fino in Australia!”
I due bambini risero soddisfatti.
Lanciai un’occhiata di sfuggita a Lisbeth: si trovava a qualche metro da noi, in piedi all’ombra di un albero, e teneva lo sguardo basso mentre sgranocchiava la sua solita ciambella alla marmellata. Da sola, ovviamente. Indossava una maglia a maniche lunghe color panna un po’ troppo larga per lei, dei pantaloni verdi sbiaditi e delle scarpe da ginnastica beige, abbinate al suo zaino.
“Come mai la odiate così tanto?” chiesi d’istinto ai miei amici.
Tutti la odiano, Ives” spiegò subito Diego.
“Perché è una sfigata. Hai visto come si veste?” commentò Gordon.
Abbassai lo sguardo sulla mia t-shirt stropicciata che un tempo era stata nera, ma ormai era passata al grigio; nemmeno io mi vestivo bene, zia Maura non aveva tantissimi soldi e li doveva dividere tra me e Maggie, ma nessuno mi prendeva in giro per quel motivo.
Forse anche i genitori di Lisbeth erano poveri e non potevano comprarle dei vestiti più belli.
“Ma non è solo questo!” aggiunse Diego con enfasi, mettendosi addirittura in piedi. “È anche per come si comporta. Non vedi che sta sempre per i fatti suoi e non gioca mai con le altre bambine? E sai perché lo fa?”
Scossi il capo.
“Perché è snob. È antipatica e nessuno vuole stare con una tipa come lei. Ed è anche la preferita di tutte le maestre!”
“Magari è solo un po’ timida” osservai.
“Chi se ne importa! Allora, possiamo contare su di te per lo scherzo?” cambiò discorso Gordon, scoccandomi un’occhiata complice.
“Beh, io…” Presi a fissare le punte delle mie scarpe, immerse tra le foglie secche, e in quel momento sarei voluto essere una di loro per poter volare via alla prima folata di vento. Non sapevo più cosa inventarmi per restare fuori da quell’idea troppo cattiva.
Presi fiato e aprii bocca, pronto a rispondere che li avrei aiutati e che ci stavo, quando qualcuno alla mia destra si schiarì la gola e chiamò il mio nome con un filo di voce.
Tutti e tre ci voltammo: Lisbeth si trovava proprio accanto a noi, con lo sguardo basso, le guance in fiamme e un quadernetto blu stretto tra le mani tremanti.
Le sorrisi. “Ehi.”
“Ives, ti è… ti è caduto questo. L’ho trovato per terra, in classe, e c’è scritto il tuo nome” mormorò, porgendomi l’oggetto.
Mi misi in piedi, lo afferrai e lo esaminai per qualche secondo. “Sì, è il mio. Grazie per avermelo restituito!”
“Di niente.”
Per un attimo riuscii a incrociare i suoi occhioni verdi, ma lei subito arrossì e distolse lo sguardo per poi fuggire via, facendo oscillare sulle spalle la sua disordinata coda di cavallo.
Osservai per un attimo il quaderno che Lisbeth mi aveva restituito; era stata così gentile con me, ed era così tenera quando arrossiva e non riusciva a guardare negli occhi le persone con cui parlava. Come potevano pensare che fosse snob?
Nel mentre Gordon e Diego avevano preso a sghignazzare e borbottare tra di loro, ripetendo ancora una volta quanto sarebbe stato divertente infilarle la cavalletta nello zaino e che dovevano trovarne una bella grande per farla spaventare ancora di più.
“Sentite, io… non ce la faccio” sbottai all’improvviso. Non sapevo cosa mi fosse preso, ma non ero proprio riuscito a trattenermi.
I miei amici smisero di parlare tra loro e mi lanciarono un’occhiata stranita.
“È… che… non voglio fare questo scherzo a Lisbeth. Lei non è cattiva e non si sa difendere, ci resterebbe troppo male.”
“Ma è quello il bello dello scherzo!” mi contraddisse Diego, sgranando i suoi grandi occhi scuri come se avessi parlato in cinese.
In effetti non era da me dire di no, ero sempre il primo a entusiasmarsi quando pensavamo a qualche nuovo scherzo.
Ma stavolta era diverso.
“Gli scherzi sono divertenti quando alla fine ridono tutti” mormorai.
“Ma infatti rideremo tutti” mi fece notare Gordon.
“Io non capisco proprio dove sta il problema!” sbottò Diego, incrociando le braccia al petto con fare offeso.
“Non lo voglio fare e basta!” ribattei, stringendo più forte il quaderno tra le mani. Ormai avevo preso la mia decisione.
“Va bene, sai che ti dico?” si arrese Gordon, voltandosi verso Diego. “Non fa niente, ci penseremo noi a sistemare quella strega di Lisbeth. Se Ives non lo vuole fare, peggio per lui: si perderà tutto il divertimento!”
“Hai ragione, peggio per lui! E comunque, Ives, sei una femminuccia!”
Mi sedetti di nuovo sul gradino e presi a sfogliare le pagine piene di scarabocchi e qualche appunto di matematica, senza davvero fermarmi a leggere; avevo le guance in fiamme, un po’ mi vergognavo di essermi tirato indietro e di aver fatto la figura dello stupido. Però ero così, certe volte non riuscivo a stare zitto davanti a quelle che consideravo ingiustizie.
Speravo almeno di aver fatto la scelta giusta.
 
 
Lanciai un’occhiata complice a Richard e calciai la palla nella sua direzione; lui subito la bloccò col piede e prese a correre verso la porta avversaria, mentre Michael gli stava alle calcagna e cercava di rubargliela.
Sorrisi soddisfatto e mi passai una mano tra i capelli corvini e sudati, cercando di scacciarli dalla fronte; tutti mi dicevano che ero il centrocampista più bravo della classe, e in effetti era vero. Mi piaceva un sacco giocare a calcetto con i miei compagni all’ora di ginnastica.
Sollevai gli occhi al cielo grigio e coperto di nuvole, poi mi guardai attorno: in un angolo del campetto le bambine saltavano la corda, mentre qualche altro nostro compagno si era seduto in panchina.
Non mi sfuggirono Gordon e Diego che borbottavano e ridacchiavano tra loro con fare cospiratorio e allora mi tornò in mente lo scherzo di cui avevano parlato qualche giorno prima. Me ne ero completamente dimenticato!
Li osservai per qualche secondo: Gordon lanciò un’ultima occhiata complice a Diego prima di avvicinarsi al maestro Strike, che era intento a seguire la nostra partita; parlò con lui per qualche secondo e, anche se non potevo sentire cosa si dicevano, capii che stava cercando di ottenere il permesso per andare negli spogliatoi. Infatti poco dopo il bambino biondiccio corse via con fare soddisfatto.
“Parata!” strillò all’improvviso Matt, facendomi sobbalzare e cominciando a saltellarmi accanto.
Tornai a concentrarmi sul campo: Simon, il nostro portiere, teneva la palla tra le mani con un sorrisone dipinto sul viso, mentre i nostri avversari sbuffavano e si lamentavano.
“Sei il migliore, Simon!” esultò Richard, accostandosi al suo migliore amico per dargli il cinque.
“Ives, ma tu stavi guardando? Ti sei perso una parata favolosa! La palla era altissima ed era praticamente già nella rete, ma Simon ha fatto un salto enorme e l’ha presa con due dita!” raccontò Matt entusiasta.
Gli sorrisi appena, ma in realtà avevo la testa altrove. “Non l’ho visto.”
“Dai, dobbiamo ricominciare” disse Simon, lanciandomi il pallone.
Lo afferrai e lo posizionai sul cemento sbiadito. “Palla al centro!”
Dovevo concentrarmi sul gioco, ma di tanto in tanto mi tornava in mente la scena di Gordon che correva verso gli spogliatoi e non riuscivo a stare tranquillo. Se lui e Diego avevano davvero deciso di giocare quel brutto scherzo a Lisbeth, presto sarebbe scoppiato il finimondo e tutti l’avrebbero presa in giro ancora di più.
Ci pensavo e ci ripensavo mentre correvo e calciavo il pallone, stavo perdendo la concentrazione: al posto di tenere gli occhi fissi sul campo, li spostavo sempre su Lisbeth che saltava la corda insieme alle altre bambine e mi sentivo in colpa.
Era meglio stare zitto o fare qualcosa?
“Ehi, che cavolo fai? Ives! La palla ti è passata praticamente a un centimetro dai piedi e non l’hai presa, ma dove hai la testa?” mi sbraitò contro Matt, quando mi lasciai sfuggire l’ennesimo passaggio perfetto.
“S-sì… scusa, ma… ragazzi, sentite: io non gioco più, devo andare a… fare una cosa” me ne uscii mentre indietreggiavo verso il bordo del campo.
Ma cosa accidenti stavo combinando? Alla fine non ero riuscito a trattenermi e come al solito avevo seguito l’istinto. Non ce la facevo più a stare lì e far finta di niente.
“Ma cosa stai dicendo, Ives? E ci lasci così, in mezzo alla partita? Avremo un giocatore in meno!” ribatté Simon, fulminandomi con lo sguardo.
“È urgente. Buona fortuna!” conclusi, correndo via e dirigendomi negli spogliatoi senza nemmeno chiedere il permesso al maestro. Dovevo fare in fretta: l’ora di ginnastica stava per finire e presto tutti gli alunni sarebbero rientrati negli spogliatoi per recuperare la loro roba.
Mi fiondai nello stanzino delle femmine – non poteva nemmeno definirsi spogliatoio, era una specie di sgabuzzino buio e pieno di attrezzature da palestra malconce – e cercai con lo sguardo lo zaino beige di Lisbeth: era abbandonato a terra in un angolo. Mi accovacciai davanti a esso e trovai la zip chiusa solo per metà, segno che non era stata la sua proprietaria a toccarlo per ultima; LIsbeth era troppo ordinata e attenta per lasciarla mezza aperta.
Cominciai a frugare all’interno della borsa e dopo alcuni secondi trovai proprio quello che cercavo: una cavalletta enorme, talmente grande che dovetti usare entrambe le mani per intrappolarla.
Ormai ce l’avevo quasi fatta, dovevo solo trovare il modo per richiudere lo zaino di Lisbeth e sgattaiolare via…
Proprio in quel momento la porta si spalancò e quattro bambine, tra cui Lisbeth, fecero il loro ingresso nello stanzino.
Ero fregato.
“Ives! Che cosa ci fai nello spogliatoio delle femmine? Vattene subito!” sbottò Tracy indignata.
Ma non feci nemmeno caso a lei, troppo concentrato a osservare Lisbeth: trovandomi in ginocchio davanti al suo zaino aperto – avevo cercato di alzarmi con uno scatto, ma non ci ero riuscito –, era sbiancata e aveva spalancato occhi e bocca. “Ives! Cosa stai facendo con le mani nel mio zaino? Mi stavi rubando qualcosa!” mi accusò subito, facendo un passo in avanti. Nei suoi occhi però non c’era rabbia, sembrava solo terrorizzata e imbarazzata.
“Ascolta, io… Lisbeth, volevano farti uno scherzo! Guarda cosa ti hanno messo dentro lo zaino! Io volevo solamente toglierla!” mi affrettai a spiegare, balzando in piedi e andandole incontro. Schiusi leggermente le mani per farle vedere la cavalletta, ma non appena capì di cosa si trattava, si lasciò sfuggire un grido e scappò nuovamente all’esterno.
Uscii a mia volta, liberai la cavalletta dove capitava e la seguii; dovevo assolutamente spiegarle come erano andate le cose, non volevo che pensasse che fosse colpa mia. Io non c’entravo niente, volevo solo darle una mano, e invece ora mi odiava perché credeva fosse stata una mia idea.
La trovai in un angolo nascosto agli occhi del maestro e dei nostri compagni, poggiata contro una parete, con le guance rigate di lacrime.
“Lisbeth, ascolta…”
“Non mi interessa! Volevi mettermi quel mostro orribile nello zaino, vero?” sbottò tra i singhiozzi.
Mi poggiai al muro accanto a lei, ma Lisbeth si staccò e si allontanò.
“Io non c’entro niente! Sono stati Diego e Gordon, te lo giuro, li ho… li ho sentiti mentre ne parlavano e mi sono preoccupato e allora… non volevo che tu trovassi la cavalletta e sono andato a toglierla…” tentai di spiegare, ma man mano che parlavo sul volto della mia compagna si dipingeva una smorfia dubbiosa.
“E come faccio a sapere che è vero? Perché dovrei credere a te? Tu sei cattivo, Ives! Fai sempre scherzi a tutti, sei sempre con quegli altri due! Eravate tutti d’accordo, vero?” Lisbeth tentava di gridare e sembrare arrabbiata, ma non ce la faceva; ai miei occhi appariva solo molto triste e delusa, mentre si sfilava gli occhiali e si asciugava le lacrime con la manica della maglietta.
“Io non te lo posso dimostrare, però te lo giuro… non volevo che ti spaventassi…” mormorai, abbassando lo sguardo e sentendo le guance che andavano a fuoco. Non sarei mai riuscito a convincerla.
“Non ti credo.” Tirò su col naso, si passò una mano sugli occhi e si rimise gli occhiali. “Ma stai tranquillo, non dirò niente al maestro. Non sono una spia.”
Detto questo, se ne andò a testa bassa.
La osservai con un nodo in gola e gli occhi lucidi. Come avevo fatto a cacciarmi in questa situazione? Ogni volta che cercavo di fare qualcosa di buono, mi andava sempre male.
Forse aveva ragione lei a dire che ero un bambino cattivo. Non riuscivo a essere buono nemmeno se mi sforzavo.
Tirai su col naso.
 
 
Lisbeth era intenta a scarabocchiare qualcosa su un foglio: il suo banco era sommerso di penne, matite e pennarelli di tutti i colori. Qualche volta avevo visto di sfuggita i quaderni con i suoi appunti: erano tutti colorati e ordinati, pieni di schemi che facevano sembrare più interessanti gli argomenti da studiare.
Il suo volto magro e delicato era corrucciato per la concentrazione: aveva le labbra sottili leggermente piegate all’interno, gli occhialini dalla montatura verde che le scivolavano sul naso ogni tanto e le sopracciglia sottili erano aggrottate. I capelli ondulati color miele erano raccolti in una coda di cavallo grazie a un elastico lilla.
Tutti in classe dicevano che era brutta, che aveva la faccia da arpia e la prendevano in giro perché portava gli occhiali, ma in realtà era molto carina.
Era solo un po’ particolare.
Quel giorno – come succedeva spesso – quando era cominciato l’intervallo non si era mossa dal suo banco, non era uscita in cortile; aveva portato fuori un foglio e si era messa a disegnare, ignorando tutto e tutti. Soprattutto me: da quando era capitato il malinteso della cavalletta, qualche giorno prima, non mi aveva più guardato nemmeno per sbaglio. Doveva essere molto offesa.
Presi un respiro profondo mentre scacciavo alcune ciocche corvine dagli occhi, poi afferrai la bustina bianca che avevo posato sul mio banco e mi avvicinai a lei.
Lei non parve accorgersi del mio arrivo.
“Ciao Lisbeth” la salutai, leggermente nervoso. Non era da me, in genere ero così disinvolto, ma questa volta era un caso particolare.
Lei mi rivolse una breve occhiata, ma non mi rispose e continuò a disegnare tante foglie colorate: rosse, gialle, arancioni, marroni. Sembrava voler imprigionare l’autunno sul suo foglio.
Mi sedetti nel posto vuoto accanto al suo, che in genere era occupato da Millie. “Che fai?” le chiesi, sporgendomi appena verso di lei.
“Ives, per favore… mi lasci da sola?” mormorò, ma non c’era cattiveria nella sua voce; sembrava solo molto imbarazzata.
“In realtà sono venuto qui per darti una cosa” annunciai con un sorrisone.
Lisbeth sollevò finalmente il capo e mi rivolse un’occhiata confusa e interrogativa.
Le porsi la bustina che avevo in mano. “Tieni.”
Lei la afferrò sospettosa ed esitò qualche secondo prima di aprirla.
Ridacchiai. “Non c’è una cavalletta dentro, stai tranquilla!” la rassicurai, ma lei non sembrò apprezzare la mia battuta e storse il naso con fare schifato.
Ma la sua espressione cambiò quando lanciò un’occhiata dentro il contenitore di carta bianca; con gli occhi sgranati, estrasse la ciambella alla marmellata che avevo comprato apposta per lei. Non avevo tanti soldi, infatti avevo dovuto rinunciare alla mia merenda quel giorno, ma non importava: dovevo assolutamente fare qualcosa per farmi perdonare da Lisbeth.
“Le ciambelle alla marmellata sono il mio dolce preferito” mormorò, mentre le guance si facevano sempre più rosse.
“Lo so. Ti ho visto mangiarle all’intervallo un sacco di volte e ho pensato che potesse farti piacere” ammisi con un sorriso, piegando appena la testa di lato.
Lei poggiò la bustina sul banco e sbatté un paio di volte le palpebre. “Perché l’hai fatto?”
“Perché tu non mi credi quando ti dico che non sono stato io a farti quello scherzo, pensi che io sia cattivo. Non voglio che tu sia arrabbiata con me.” Abbassai lo sguardo per un attimo, pieno di vergogna.
“Io vorrei crederti, ma non ci riesco. Gordon e Diego sono i tuoi migliori amici, organizzate sempre un sacco di scherzi a tutti, fate tutto insieme… e quando tutti mi prendono in giro, ridi anche tu. Sei come Gordon, Diego, Matt e tutti gli altri.” Mentre parlava, aveva abbassato sempre più il tono della voce e aveva preso a giocare nervosamente con la bustina della ciambella.
“Ma io questa volta non ero d’accordo!” ribattei con convinzione. “Non è bello spaventare così le persone. Lo so bene, io! E lo sai perché?” Mi sporsi appena verso di lei e le lanciai un’occhiata complice.
Lei scosse il capo. “Perché?”
“Anche io ho una grande paura!” svelai.
I suoi occhioni verdi si illuminarono di curiosità. “Che cos’è?”
“Ho paura delle bambole e dei bambolotti. E anche dei peluche. Di tutti quei giocattoli che sembrano persone e animali. Hanno gli occhi, ti possono spiare!” spiegai in tono cospiratorio e un brivido mi corse lungo la schiena.
Lisbeth ridacchiò. “Ma le bambole non fanno male, sono solo oggetti!”
“E se prendessero vita tutte insieme e ti aggredissero durante la notte?”
Lei rise ancora più forte.
“Non fa ridere! È spaventosissimo!” ribattei, ma alla fine mi lasciai contagiare. “E mia sorella Maggie ha un sacco di bambole in casa… invece sai una cosa?”
Lei mi sorrise appena e si mise in ascolto, piegando la testa di lato.
“Adesso fa ancora caldo perché siamo a ottobre, ma quando arriverà l’inverno le cavallette se ne andranno tutte e tu non dovrai più avere paura. E nessuno potrà più farti brutti scherzi!” la rassicurai, regalandole un enorme sorriso.
“Grazie, Ives” mormorò raggiante, per poi aprire la bustina e portare fuori la ciambella alla marmellata.
Solo allora mi accorsi che non era più imbronciata come al solito, anzi, aveva cominciato a sorridere e a chiacchierare come tutte le altre bambine. Non era affatto antipatica, ma forse nessuno l’aveva mai conosciuta abbastanza per riuscire a capirlo.
“Ne vuoi un pezzetto?” mi chiese con gentilezza, porgendomi il suo dolce.
“No, quella l’ho presa tutta per te! E poi a me non piace tanto la marmellata.”
“E che cosa ti piace?”
“Il cocco e il cioccolato.”
“Anche a me piace il cioccolato!” si entusiasmò.
“Evviva, abbiamo una cosa in comune!” Sorrisi e la osservai mentre mangiucchiava la sua ciambella, si sporcava le dita di marmellata e la maglietta di briciole.
“Quindi tu non mi odi come tutti i nostri compagni?” chiese a un certo punto, distogliendo lo sguardo.
Scossi il capo con decisione. “No, per niente. Anzi, mi piaci un sacco: sei simpatica e, anche se sei un po’ timida e non ti piace stare con le altre bambine, hai un sacco di cose da raccontare. E poi sei… tutta colorata” conclusi con una risatina.
Lisbeth diceva pochissimo a parole, ma esprimeva tantissimo con il suo modo di essere, di vestirsi, di disegnare e con la curiosità con cui si guardava attorno.
La bambina arrossì fino alla punta dei capelli e prese a fissarsi le mani. “Adesso ti credo, Ives.”
Mi illuminai e per poco non saltai in piedi. “Quindi mi perdoni?”
“Certo. Tu non hai fatto niente, mi volevi solo aiutare.”
Lanciai un gridolino vittorioso e mi sporsi ancora di più verso di lei, spalancando le braccia. “Grazie Lis! Dammi un abbraccio!”
Lei rise e, nonostante l’imbarazzo che le arrossava le guance, lasciò la ciambella sul banco e mi abbracciò. Le sue dita sporche di marmellata mi impiastricciarono un po’ la maglietta, ma non mi importava.
Ero felicissimo e adesso sapevo di aver fatto la scelta giusta a non lasciarmi condizionare da Gordon e Diego: mi ero fatto una nuova amica.
E poi Lisbeth quando rideva sembrava ancora più carina.
 
 
 
 
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Questa storia è stata un parto plurigemellare con complicazioni durante la gravidanza… e il risultato poteva anche essere migliore MA! CHI SE NE IMPORTA, potevo forse lasciarmi sfuggire l’occasione di mostrare il lato più pandoroso e dolcioso del mio piccolo bambino? *________*
Perché è vero che Ives, soprattutto da piccolo, si lasciava influenzare dagli altri ragazzini e non si tirava indietro quando c’era da fare qualche bravata, ma non dimentichiamo la sua grande sensibilità e il suo modo di fare impulsivo! Avrà tutti i difetti di questo mondo, ma almeno ha dei buoni valori, IL MIO TESORO DOLCE!!!!
Sì, ok, mi riprendo…
Spero che il personaggio di Lisbeth vi sia piaciuto! Io mi sono già innamorata di questa bambina :3 forse perché somiglia a me quando avevo la sua età, anche se io ero molto più arpia e antipatica AHAHAHAH XD
Per quanto riguarda i chiarimenti per la giudice: la storia (così come l’intera serie di cui fa parte) è ambientata a Los Angeles, in un quartiere povero e disagiato – motivo per cui ho descritto una scuola abbastanza degradata. Temporalmente si può collocare negli anni Settanta, dal momento che il protagonista è del ’68.
La famiglia di Ives è particolare: nei suoi pensieri nomina zia Maura, che è appunto sua zia (sorella della madre), perché è lei a prendersi cura di lui come se fosse un figlio – non faccio ulteriori spoiler su che fine abbia fatto la madre per chi non conosce la serie XD
Maggie è la figlia di Maura, ha sei anni in più di Ives ed è appunto sua cugina, ma lui la definisce sorella perché, essendo cresciuto con lei e vivendoci insieme, la vede come una vera e propria sorella maggiore.
Dovrebbe essere tutto!
Grazie a chiunque sia giunto (sano e salvo) alla fine di questa shot e a chi segue assiduamente la serie! Davvero, per me è una gioia IMMENSA raccontarvi di questi personaggi e ancora di più lo è vedere che vengono apprezzati *________*
Alla prossima!!! ♥
 
 
   
 
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