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Autore: Gaia Bessie    05/10/2020    4 recensioni
«Manterrai il tuo corpo, Luke Castellan» concluse Ade, chinandosi al fianco del ragazzo. «Ma non la tua memoria».
Sulla riva del fiumiciattolo del Campo Mezzosangue, Luke siede ogni mattina in una pozza di luce che lo inzuppa fin dentro le ossa. Ogni medesima mattina, Percy lo osserva, arrampicato su una roccia umida con le gambe a penzoloni.
«Mi chiamo Luke Castellan, ho ventidue anni» mormora, senza tono e senza emozione. «Sono figlio del Dio Ermes e di May Castellan».
[Luke/Annabeth, Annabeth/Percy | Questa storia partecipa al contest “Overly Specific Writing Prompts” indetto da fantaysytrash sul forum di EFP]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Luke/Annabeth, Percy Jackson, Percy/Annabeth
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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«Possiamo prendere dell’ambrosia» disse Grover. «Possiamo…».
«Grover» singhiozzò Luke. «Sei il satiro più coraggioso che abbia mai conosciuto. Ma no. Non esiste cura…».
Passi s’infransero nella mente e nel dolore di Luke, costringendolo a voltarsi a fatica verso chi li aveva provocati: il divino Ade avanzava, scocciato e irritato, a grandi passi verso di lui, seguito dal recalcitrante Ermes.
«Beh, nipote» disse il Dio dei morti, infarcendo del proprio pieno disprezzo quella singola parola. «Se permetti, sono io a decidere queste cose».
Tutti istantaneamente si volsero verso Ade, turbati da quell’affermazione: per un frammento di secondo, il cuore di Percy s’infranse in una decina di battiti accelerati, costringendolo a sfiorarsi il petto con la punta delle dita. Si disse, silenziosamente, che era impossibile – salvare Luke – persino quella volta.
Che la fine dei traditori è una soltanto e, il figlio di Ermes, non sarebbe stato diverso: non sarebbe scampato a una decisione delle Parche, quello no, e allora perché suo padre sembrava così luminoso di speranza?
«N-Non…» tossì Luke, gli occhi semichiusi di fronte al viso preoccupato del padre. «Come?».
Ermes gli dedicò un sorrisetto furbo, il medesimo che lui aveva ereditato. «Hai mai sentito parlare» domandò. «Della metempsicosi?».
Percy non capì immediatamente cosa stessero tramando i due Dei ma, vedendo l’espressione sconvolta di Annabeth, ne dedusse che non dovesse essere niente di buono. Perché la figlia di Atena si avvicinò, coraggiosamente, ad Ade – aveva occhi grandi come scodelle, pieni di lacrime.
«Divino Ade» pigolò. «Non intende trasformarlo in un cigno, o qualcosa del genere?»,
«Certo che no» rispose il Dio dei morti, annoiato. «Gli animali mi hanno stancato, ho passato secoli a trasformare i morti in adorabili cigni, uccellini e perfino adorabili coniglietti».
Percy si dovette trattenere dal domandare a chi fosse toccata, la sorte di dover vivere una seconda vita come un tenero coniglio.
«Manterrai il tuo corpo, Luke Castellan» concluse Ade, chinandosi al fianco del ragazzo. «Ma non la tua memoria, almeno inizialmente».
Mentre i semidei e Grover consideravano le implicazioni di quella concessione, Ermes si voltò, lanciando un’occhiata piena di profonda speranza a Percy.
«Percy Jackson» lo chiamò, investendolo con il proprio sguardo. «Ti affido Luke».
Annabeth parve sul punto di dire qualcosa ma, alla fine, chinò il capo disorientata.
 
 
 
Metempsychosis {Take me home}
 
I'm standing on the bridge
I'm waiting in the dark
I thought that you'd be here by now
There's nothing but the rain
(…)
Isn't anyone trying to find me
Won't somebody come take me home
It's a damn cold night
Trying to figure out this life
 
 
Sulla riva del fiumiciattolo del Campo Mezzosangue, Luke siede ogni mattina in una pozza di luce che lo inzuppa fin dentro le ossa. Ogni medesima mattina, Percy lo osserva, arrampicato su una roccia umida con le gambe a penzoloni.
«Mi chiamo Luke Castellan, ho ventidue anni» mormora, senza tono e senza emozione. «Sono figlio del Dio Ermes e di May Castellan».
Si ferma lì, al cospetto dei nomi dei propri genitori, senza sapere bene come continuare: Percy lo guarda e vorrebbe spazientirsi ma vive nella consapevolezza che, colui che gli siede davanti, non è altro che il guscio vuoto e inutile di Luke. L’ha compreso anche Annabeth, che s’è rinchiusa in un’armatura di mutismo e malumore, e persino Grover.
«Ho combattuto una guerra, ho perso» continua il figlio di Ermes, piano. «Avrei dovuto morire».
Percy – ed è sciocco e codardo, ma come potrebbe sentire altrimenti? – non lo contraddice mai, quando Luke pronuncia quelle parole: in una parte di sé che non è nemmeno remota o insondabile, ne è pienamente convinto, che riportare Luke tra i vivi sia stato il peggior errore di sempre. E che lui non potrà mai aiutarlo a riguadagnare la memoria, non senza alterarla – come dirgli che amano la stessa persona?
«Sono qui, come centoventi mattine prima di questa» mormora Luke, osservando il docile corso d’acqua che gli sfiora i piedi nudi. «Per cercare di ricordare chi sono».
E chi sei, vorrebbe domandargli Percy, che da centoventi mattine è stanco di cercare di ricostruirgli i ricordi. Che da centoventi mattine omette, modifica e plasma la memoria di Luke come fosse solamente l’ennesimo corso d’acqua pronto a piegarsi di fronte al suo tocco.
Qualcuno ha detto che l’acqua sia in grado di piegarsi a ogni recipiente che possa contenerla e, nella medesima maniera, la memoria di Luke risulta essere duttile: potrebbe cancellare per sempre, Percy, alcuni elementi fastidiosi e inutili del figlio di Ermes, migliorandolo. Ma non ne ha il coraggio, non fino in fondo.
«Vivo con i miei fratelli» mormora Luke, concentrati. «Ma non li conosco».
Perché è vulnerabile, il figlio di Ermes, se lui desse un colpetto in qualunque punto della sua mente, essa si accartoccerebbe sotto la pressione delle sue dita, rimanendo deformata da un semplice tocco. Ma, dopo centoventi mattine di amnesia e dimenticanza, Percy è ancora inquieto: perché Luke termina il proprio monologo nella medesima maniera, ogni singolo giorno, e lo guarda dritto negli occhi come se s’aspettasse una risposta che lui sceglie di non fornirgli. E, in un certo senso, è esattamente quel che accade.
«Amo una ragazza di cui non ricordo il nome, o il volto» mormora Luke, rivolto al fiume. «Tu sai chi è?».
 
***
 
La sera, Luke sparisce in una nuvoletta di dimenticanza: nessuno lo cerca – chi potrebbe – e, se solamente ci provassero, trovarlo sarebbe facile. Su un minuscolo ponte di legno, che interrompe il lieve scorrere del fiume del Campo, Luke si specchia in quelle acque limpide.
Forse, sul fondale cerca una soluzione che non trova mai, a quella domanda che pone e pone senza ricevere risposta. E come potrebbe, Percy Jackson, rispondere a qualcosa che conosce solamente lui, si domanda silenziosamente mentre l’acqua gli restituisce il proprio riflesso.
Non la può conoscere, Percy, quella fiammella che lo riscalda ogni notte, quella scintilla di speranza che gli consente di non pensare ch’è tutto perso, tutto da buttare, che una nuova vita è solamente l’ennesimo tentativo di riscatto inutile e doloroso. Non la può conoscere, questo sì, ma non la conosce nemmeno Luke.
Non ricorda, nella piena frangibilità della propria mente, se avesse i capelli scuri o biondi, o come fossero i suoi occhi. Se un fiume placido o un mare in tempesta, cosa le aveva illuminato lo sguardo?
«Mi chiamo Luke Castellan, ho ventidue anni» mormora. «Sono figlio del Dio Ermes e di May Castellan».
Ma, alla luce nuda della luna, che lo spoglia delle poche convinzioni acquisite durante il giorno, tutto questo non basta. Perché Luke lo osserva, quell’astro minuscolo e inutile, e vorrebbe domandargli d’illuminarlo in quella valle d’oblio in cui l’hanno lasciato a perdersi.
Ma non può.
Perché lui –  «Ho combattuto una guerra, ho perso»: e ha perso ricordi, la ragazza che amava, la sua famiglia. E cosa gli rimane, se non una tacita e inossidabile convinzione: «Avrei dovuto morire».
E lui è lì, come centoventi giorni prima, a cercare di scavarsi mente e cuore per riportare a galla un nome, un volto. Degli occhi che lui ricorda, ricorda le cicatrici di quello sguardo sulla pelle – sono ancora incise lì, da qualche parte che non sa – ma che non trova più. Che s’è perso, nella mappa infinita di altre cicatrici che le hanno rese solamente l’ennesima incrinatura dell’epidermide.
«Ma non sei morto» una voce s’infrange nei suoi pensieri, scuotendolo. «Qualcosa dovrà pur significare».
Degli occhi grigi lo guardano, con un’ansia inspiegabile. La ragazza sorride e china il capo, di fronte all’espressione perplessa che lui le dona. «Annabeth Chase» si presenta. «Noi eravamo…».
Una famiglia, vorrebbe dirgli, forse inspiegabilmente qualcosa in più. Ma Luke è morto e risorto davanti i suoi occhi e lei, quell’estraneo non lo riconosce.
«Amici» dice, invece. «Sono una dei figli di Atena».
Luke annuisce, non vuole dire che non preserva memoria di tutto quello ch’era prima: così la guarda, appigliandosi a quel volto, disorientato.
«Certo, non ricordi» mormora Annabeth, piano. «Percy me lo aveva detto, ma io speravo che…».
S’appiglia a quella parola come se potesse davvero ricostruirgli la memoria solamente con la speranza e Luke, in un momento imprecisato dei propri pensieri, sente un senso di colpa che l’attanaglia, deformandogli la mente.
«Che con la speranza non si ottiene niente» s’interrompe la ragazza, tornando a guardarlo negli occhi. «E tu non puoi ricordare».
Perché Luke Castellan è morto come i propri ricordi e, per quanto Percy possa fingere di sforzarsi per ricostruirglieli, essi rimarranno sempre distrutti, prima, e alterati in seguito. E, per quanto lei possa nutrirsi di sogni e cieca speranza, Luke non recupererà mai del tutto la propria personalità, che s’è annacquata in un fiumiciattolo scarno e disperato.
«Sto migliorando» risponde Luke, dispiaciuto. «Ma… come può Percy rispondere a tutte le mie domande? Ci sono cose che non sa, di me».
Certo che no, vorrebbe urlare lei. Le so io. Ogni fibra di Annabeth si tende, verso quelle tre parole, potrebbe persino pronunciarle se non fosse sinceramente terrorizzata dal poter sconvolgere la mente di Luke. L’hanno reso fragile, l’ennesimo bambino che deve imparare il funzionamento dei propri ricordi.
«Tu le sai» risponde, invece, dura. «Io lo so, che tu sei in grado di ricordare, Luke».
Di ricordarmi, vorrebbe dirgli, ma le manca il coraggio e allora rimane a guardarlo, speranzosa. Ma, sotto la luce della luna, Luke appare solamente confuso e disorientato.
«Mi dispiace» mormora il figlio di Ermes. «Proverò a ricordarmi anche di te».
Per una frazione di secondo, Annabeth pensa che potrebbe persino toccarla, sfiorandole una ciocca di capelli come sarebbe in grado di sfiorarle l’anima nuda. Ma, poi, Luke non ci riesce: che abbia la percezione che, urtandole l’anima in un semplice incontro tra pensieri e pelle, nella sua mente s’infrangerebbe un’ondata di ricordi?
Lei si costringe a voltargli le spalle, prima che si accorga che è nuovamente sulla soglia delle lacrime.
«Non importa» mormora, ferita. «Non ero nessuno di così importante, per te».
Luke la guarda, dispiaciuto. Fuori dal Campo ha cominciato a piovere.
 
***
 
La mattina successiva, Luke è inquieto: Percy se ne accorge immediatamente, che pronuncia ogni parola con meno convinzione, quasi come vi fosse qualche terribile dubbio in grado d’oscurargli la mente.
«Mi chiamo Luke Castellan, ho ventidue anni» mormora, guardando quel corso d’acqua che gli bagna l’orlo dei pantaloni. «Forse».
Percy lo guarda e, per la prima volta in quei centoventidue giorni, ha perso le parole: perché Luke lo guarda e sembra deluso, forse ferito, e mette in dubbio persino il proprio nome. Ha l’anima inzuppata come le sue caviglie, di stanchezza ed esasperazione e – in quel momento è chiaro in maniera quasi dolorosa – vuole risposte.
«Forse?» domanda Percy, guardandolo dritto negli occhi. «Ti sembra improbabile?».
Luke lo guarda, e ogni respiro è d’un rumore intollerabile, gli tremano le mani come se stesse provando ad afferrare l’acqua in un pugno. «Tu lo sai» lo accusa. «Chi è lei».
Percy scuote il capo, costringendosi a un sorriso. «Non me lo hai mai detto» mente. «Non… non sei mai stato il tipo che dichiarazioni pubbliche, ma…».
Luke lo guarda ed è così pieno di fiducia che, per un istante, Percy si ritrova a considerare l’idea di confessargli la parola. Ma, poi, i capelli di Annabeth illuminano i suoi pensieri di dorato, che s’agitano come l’ennesima marina in tempesta. E, allora, la bugia gli scivola dolcemente fuori dalle labbra.
«Ho sempre pensato che tra te e Talia vi fosse qualcosa» esala. «Eravate molto vicini».
Luke spalanca gli occhi, come un bimbo cui viene offerta una fetta di dolce. «Chi è?» domanda. «Vive qui?».
Percy lo guarda, con un’espressione di scuse – scusa per cosa, Percy? – dipinta in viso. «Non più» spiega. «Lei… si è unita alle Cacciatrici, da qualche tempo».
Il figlio di Ermes abbassa il capo, dispiaciuto, ma non commenta. «Lei…» mormora, incerto. «Talia è bionda?».
Percy sente quella domanda e rabbrividisce, ridendo nervosamente. «Oh, no» risponde. «Ha i capelli neri».
Luke lo guarda e scuote lentamente il capo. «Non è lei» risponde, serafico. «Non può essere lei».
 
***
 
Di notte, Luke Castellan vaga per tutto il Campo Mezzosangue, alla ricerca dei propri ricordi: lo vedono tutti, passeggiare lungo l’argine del fiumiciattolo, scambiandosi qualche tacito sorriso con le ninfe che lo popolano. D’altronde, la mancanza di memoria non l’ha reso meno bello o meno affascinante. E, probabilmente, è questo che Percy Jackson teme di lui: che possa affascinarla, Annabeth, che tramuti un no in un sì e la porti via nell’ennesima nube di polvere.
Perché l’ha accarezzato – no, l’ha colpito come uno schiaffo in piena faccia – l’idea che la figlia di Atena possa aver mentito. Perché Annabeth s’era guardata intorno, aveva incontrato lo sguardo di Grover, il suo, e candidamente aveva detto no. O, forse, silenziosamente aveva gridato , sì portami con te, non mi lasciare, non di nuovo.
Sì perché, ne è sicuro di una certezza annichilente, Annabeth sta cercando Luke. Lo sta cercando in frammenti di esistenza e nei propri ricordi: se potesse cederglieli, lo farebbe, tutto pur di farlo tornare indietro – e lo cerca senza trovarlo mai.
Perché Annabeth non lo sa, ma Luke si sveglia di notte e di notte si siede sulla sponda del fiume, come centoventidue notti prima, domandando agli Dei di illuminarlo o farlo morire. Ma, come tutte le volte in cui ha pregato, persino nella propria viva passata, nessuno risponde.
E non vi sono ricordi, sul fondale del fiume, né chiarimenti, né vi è dipinto il volto di quella ragazza che Luke ricorda di aver amato.
«Sei ancora sveglio» Annabeth si siede di fianco a lui, immergendo i piedi nudi nell’acqua gelida. «Non dovresti, se poi ti sveglierai sempre all’alba».
Perché Luke ha cerchi orribilmente scuri sotto gli occhi e si fa ogni giorno più stanco e sfiduciato.
«Lo so» ammette lui, guardandola. «Ma non riesco a dormire, io… vorrei imparare più velocemente».
Perché il figlio di Ermes i ricordi li impara, gli vengono inseriti in quella mente che è solamente un contenitore vuoto, dove ogni pensiero rimbomba orribilmente. Annabeth si domanda, in un pensiero orribilmente incoerente, se Luke potrà mai reimparare ad amarla come aveva fatto, silenziosamente, nel lato sbagliato del mondo.
«Vorrei poterti insegnare» risponde Annabeth, dolcemente. «Ma non penso di essere la persona più adatta a farlo».
Lui la guarda e ha un alone di dolorosa consapevolezza dipinto negli occhi azzurri: vorrebbe dire qualcosa ma, messo a nudo dalla luce della luna, non ha abbastanza parole per farlo. Così lei assiste impotente al suo silenzio, incerta.
«E non puoi» mormora Luke, come se qualcosa nella sua mente si fosse sbloccata. «È perché sei tu».
Lei non capisce subito, ma istintivamente pensa che dovrebbe rispondere affermativamente. D’altronde Luke la guarda con una tale disastrosa speranza che è abbastanza forte da farle perdere l’equilibrio.
«Io?» domanda, piano. «Puoi spiegarmi?».
«Cerco una persona» mormora lui, osservandola come potesse rispondere alla sua domanda. «Lei… non so chi sia, so solamente che… che l’amavo».
Pazzamente, meravigliosamente. Ma, questo, ad Annabeth non ha il coraggio di dirglielo: d’infrangere le proprie speranze in un turbine di frammenti taglienti e insensati, e dover cominciare di nuovo quella ricerca, tra gli angoli bui della sua mente.
Ma, d’altro canto, Luke è dolorosamente sicuro che sia lei. Che nasconda qualcosa in quegli occhi bui, in quel sorriso forzato.
«Non posso essere io» risponde, invece, lei. «Tu mi consideravi di più come una sorella, non… non mi amavi».
Lui la guarda e, per un momento soltanto, un lampo di comprensione lo avvolge, illuminandolo dolcemente. Mormora una parola, così piano che Annabeth non lo sente, ma immagina: famiglia.
«Luke» lo chiama, piano. «Guardami».
Ma lui ha gli occhi spalancati e ricolmi di lacrime, e cerca di ricordare qualcosa che gli sfugge via come semplice acqua di scolo.
Famiglia.
 
***
 
La centoventireesima mattina, Luke non si siede sulla sponda del fiume, né si sofferma a scrutare il proprio riflesso impresso tra le acque. Il corso d’acqua scorre placidamente ma, dentro di sé, Luke è agitato e tempestoso.
Percy lo nota e, dentro di sé, è agitato anch’egli: la sensazione che il suo rivale di sempre sia vicino alla soluzione del puzzle che lo riguarda, segretamente lo terrorizza. Non gli permetterà di portar via Annabeth, non di nuovo.
Perché ha assistito impotente a quante lacrime Luke le abbia tirato via, con la forza, come l’abbia privata dei sogni e, sebbene lei non l’abbia mai confessato, persino della speranza. Non vuole scoperchiare quella paura, che sicuramente Annabeth cova ancora dentro di sé, ma non vuole nemmeno permettere a Luke di convincerla di essere cambiato – può aver perso i ricordi, ma la sua essenza non è forse la medesima?
«Mi chiamo Luke Castellan, ho ventidue anni» borbotta Luke, concentrato. «Sono figlio del Dio Ermes e di May Castellan. Ma non sono loro la mia famiglia».
Percy lo guarda. Gli si è ghiacciato il cuore, insieme alle parole, così che rimane a guardarlo, disorientato.
«Come, scusami?» domanda, cercando di convincersi di aver sentito male. «Certo che sono la tua famiglia».
«Ho combattuto una guerra e ho perso» risponde Luke, scrollando le spalle. «E la guerra la stavo combattendo contro di loro».
Guarda Percy e ha un’emozione nuova scolpita nell’iride: delusione. Perché Luke lo guarda ed è deluso almeno tanto quanto doveva esserlo stato Percy, nello scoprire il tradimento del figlio favorito di Ermes.
«E tu lo sapevi» completa. «Io non so perché, ma so che devi saperlo, devi ricordarti che lei era…».
Percy scuote il capo, è come paralizzato. Perché non è solamente delusione, è che Luke respira a fatica come se l’avessero infilzato con una spada lì, in mezzo al torace – e ha gli occhi umidi di lacrime, come se davvero sentisse quel dolore, quella pugnalata.
«Casa mia» sussurra. «La mia famiglia. E che io l’amavo».
«Non ricordi nemmeno chi è, Luke» risponde Percy, laconicamente. «Come fai a dire tutto questo?».
A Luke brillano gli occhi, abbassa la voce come se stesse per rivelargli un segreto. «Perché io so chi è».
A Percy si gela il sangue nelle vene. «E chi è?» domanda, pregando per un nome. «Talia?».
Ma Luke sorride e non dice una parola.
 
***
 
«Annabeth».
Non è difficile sorprenderla seduta lungo la sponda del fiume, a guardare la luna che s’infrange nel proprio mare di luce in un cielo limpido di stelle. Non è difficile, ma lei lo guarda e tace, e deve forzarsi per non alzarsi di scatto e correre via.
«Luke, ciao» commenta lei, osservandosi i piedi. «Ti serve qualcosa?».
«Perché mi eviti?» le chiede, scrollando le spalle. «Io… ti ho fatto qualcosa?».
Annabeth respira profondamente, prima di guardarlo dritto negli occhi. «Solamente una guerra e… sei quasi morto, Luke» sibila. «Tu… io non ci posso credere, che tu abbia pensato fosse una buona idea, di lasciare tutto quanto…».
La figlia di Atena ha sensibilmente alzato il proprio tono di voce. «Che fosse una buona idea lasciare me» l’ultima parola la urla, stravolta. «Pensando che magari ti avrei persino seguito, se proprio non avessi voluto aspettarti».
Si ferma a guardarlo e, per un terribile momento, nel suo sguardo Luke legge persino dell’odio, nei propri confronti. Vorrebbe replicare, dirle che non è vero, che ha frainteso… ma il suo passato è bruciato e da ricostruire, cosa potrebbe offrirle se non un pugno di cenere?
«E l’avrei fatto!» urla Annabeth, ormai completamente fuori di sé. «Mi perdonino gli Dei, ma l’avrei fatto… se solamente tu mi avessi detto che avevi bisogno di me».
La ragazza prese un profondo respiro, cercando di calmarsi. Ma – Luke lo notò con orrore – aveva il viso rigato di lacrime.
«Ti avrei protetto» sussurra. «Non ti avrei lasciato solo, ma tu… hai smesso di confidarti con me».
«Ho sbagliato» mormorò Luke, piano. «Io… in qualche modo, mi avresti protetto. Io non lo ricordo ma è come… come se sapessi che sei la parte migliore di me».
A lei si è bloccato il cuore, così che non riesce a non rimanere immobile, con la bocca aperta, totalmente incapace di rispondergli.
«Vorrei convincerti a rimanere con me» sussurra. «A essere la mia famiglia. Ma io… io so di Percy».
Luke sospira, come se quelle parole fossero in grado di trapassargli la gola in un solo, dolorosissimo, colpo. «Tu lo ami?» prosegue. «Non… sii sincera».
Annabeth lo guarda e, per un momento, le sembra quasi di rivederlo a terra, ferito a morte. Sarà in grado di ferirlo una seconda volta, pur di non infrangere quell’equilibrio sottilissimo su cui s’è ricostruito il mondo?
Ma Luke la guarda e, per un attimo, le hai ancora undici anni ed è innamorata dell’unico ragazzo che abbia mai realmente notato. Per un momento solamente, Annabeth sente di poter dire che non le interessa dell’equilibrio mondiale, che è disposta a lasciarlo andare pur di rimanere con lui. Se solamente potesse: non si tratta di volere, è il potere che la vincola a guardarlo, con le lacrime agli occhi, e a scuotere il capo.
«Io… non posso risponderti in maniera sincera» sussurra. «Penso sempre di sapere tante cose ma, quando serve, non ne so mai abbastanza. Non sapevo abbastanza di te, altrimenti sarei riuscita a fermarti».
«Non avresti potuto» cerca di rassicurarla lui, sfiorandole appena la mano. «Non te l’avrei permesso».
«Io… pensavo di amarti abbastanza da riuscirci» confessa Annabeth, chinando il cap. «La cosa peggiore è che non ho nemmeno tentato, a tirarti via di lì. Io… pensavo di essere quella in grado di proteggere le persone che ama, ma non sono stata in grado di proteggere te».
Luke piange, in silenzio, di fronte alla disperazione con cui Annabeth parla di un passato che, per lui, è perduto per sempre. Vorrebbe tenderle la mano ma, ormai ne è quasi sicuro, lei non potrebbe mai volerla prendere.
«Tu non puoi ricordartelo» continua la figlia di Atena, incerta. «Ma, quando stavi per morire, mi hai fatto una domanda. Mi hai chiesto se io…».
«Se tu mi amassi» completa Luke, semplicemente guardandola negli occhi. I suoi li socchiude, come se la luce della luna fosse divenuta accecante. «E tu hai detto di no».
Ad Annabeth scappa un singhiozzo e non riesce a rispondere. Ma Luke la guarda come se, in tasca, avesse già ogni risposta possibile.
 
***
 
La centoventicinquesima mattina, Luke si siede sulla sponda del fiumiciattolo nel Campo Mezzosangue e aspetta, domandandosi se Percy Jackson troverà il coraggio e la faccia tosta di presentarsi al loro appuntamento – e ovviamente la trova.
Luke lo guarda ed è così disperato che Percy si ritrova a tendergli una mano, quasi come volesse toccarlo e tirarlo via da qualunque tormento gli azzanni la coscienza. Ma il figlio di Ermes sorride, ed è più un ghigno che gli deforma la faccia in una seconda e orribile cicatrice, e si allontana di mezzo passo.
«Tuo padre è Poseidone» constata, con ovvietà. «Forse, puoi aiutarmi».
«A fare cosa?» domanda Percy, guardigno. «Cosa stai pianificando, Luke?».
«Vorrei andare al Brooklyn Bridge» risponde Luke, sereno. «Tu potresti accompagnarmi, per te sarà facile arrivarci. O sbaglio?».
Percy annuisce ma, qualcosa dentro di lui, trema. «Luke» lo chiama, mentre il figlio di Ermes si sta già allontanando. «Stai bene?».
Il ragazzo lo guarda e sorride. «Certo» risponde. «Io… sto benissimo, grazie per avermelo chiesto».
Ma qualcosa, dentro Percy, sta battendo i denti.
 
***
 
Fa freddo, sul ponte.
Luke sente lo sguardo di Percy che gli buca la schiena, mentre passeggia nella notte deserta, con l’East River che rumoreggia sotto i suoi piedi.
«Sai, Percy» si convince a dirgli, infine. «Volevo dirti una cosa, io…».
Il figlio di Poseidone lo guarda con curiosità, lanciandogli uno sguardo incoraggiante e sopprimendone uno di immensa preoccupazione. Perché Luke guarda quell’acqua come fosse in grado di abbracciarlo, togliendolo da un mondo a suoni e colori che lo confonde.
«Mi chiamo Luke Castellan, ho ventidue anni» inizia. «Sono figlio del Dio Ermes e di May Castellan, ma non sono loro la mia famiglia».
Percy lo guarda, paralizzato, mentre il viso di Luke si illumina di una luce strana e innaturale.
«Ho combattuto una guerra contro di loro, ho perso» mormora. «E sono quasi morto. Ma prima, prima…».
«Luke» lo richiama Percy, allungando una mano per sfiorargli il braccio. «Andiamo, amico. Stai parlando di una ragazza, non… al Campo tutte erano innamorate di te».
«Annabeth è la mia famiglia» conclude Luke, lo sguardo fisso sulle acque nere. «Casa mia».
«Lo sarà ancora» cerca di rassicurarlo il figlio di Poseidone. «Non… non puoi lasciarla andare così».
Ma Luke ride. «Hai fatto un buon lavoro, Percy Jackson» commenta. «Ora ricordo».
È un salto nel vuoto e un urlo nella notte – il divino Ermes avrà avvertito distintamente il proprio cuore spezzarsi.
 
 
'Cause nothing's going right
And everything's a mess
And no one likes to be alone
(Avril Lavigne – I’m with you)
 
Ciao tutti coloro che sono arrivati (coraggiosamente) fin qui.
Prima di lasciarvi alla vostra merenda/pranzo/cena, vorrei chiarire alcune cose. In primo luogo sì, secondo me ci sta dell'OOC silenziosamente annidato nei personaggi, ma non ne sono nemmeno così sicura, quindi fatemelo sapere che vi leggo sempre volentieri.
Seconda cosa, la metempsicosi non è una mia invenzione e, mentre i coniglietti sì, gli uccelli e i cigni sono episodi mitologici veramente raccontati. Per saperne di più, click qui.
In più le prime due righe provengono ovviamente dallo Scontro finale e non sono quindi farina del mio sacco.
Non sono presenti altre citazioni, ma ci tenevo a ringraziare fantaysytrash per il prompt così adatto a me, ha avuto un sesto senso epico.
Infine, preciso anche che la prima parte è un flashback, per questo è scritta in un tempo verbale diverso.
Grazie a tutti e un bacino.

Gaia
   
 
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