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Autore: wanderingheath    08/10/2020    0 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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 CAPITOLO 10. (III)*

Mousetrap
«Did you think we’d been fine?
Still got scars on my back from your knife
So don’t think it’s in the past,
These kind of wounds they last
and they last now.
(...)
And time can heal
but this won’t.»
 
 
 
10: 47 p.m. – 12, Redham Road
 
 
 
 


Le foglie scricchiolavano sotto alle ballerine.
Era buio, di un buio meno fitto rispetto a prima – quando avevano percorso in auto, con i lameggianti a fendere l’ignoto, i famosi dieci minuti per arrivare sul posto – ma pur sempre un’oscurità che la turbava.
Avrebbe voluto uccidere Alyssa, per averla spinta in un luogo simile, facendo passare la bravata per “una storia da raccontare”. Dello stesso parere Logan, che l’aveva incoraggiata a cogliere l’occasione.
«Ti lamenti che non accade mai nulla di interessante nella tua vita», le aveva ricordato con una dose di cattiveria. «Questo sembra interessante.»
Certo, scagliare uova contro una casa abbandonata la notte di Halloween era proprio il genere di storia che avrebbe voluto raccontare alla sua progenie. Già poteva immaginarsi, con un balzo avanti negli anni, raggomitolata sulla poltrona a narrare ai suoi nipotini quanto stridulo le fosse giunto il grido di qualche gufo.
Perché era tutto ciò su cui riusciva a concentrarsi, al momento: quello e lo sfrigolio delle chiome degli alberi insidiati dal vento.
Ogni tanto incontrava dei mucchi di foglie secche e ci affondava con uno scroscio, mettendo a dura prova l’equilibrio. Una traversata interminabile: aveva contato i passi dal punto in cui avevano abbandonato l’auto – praticamente sul ciglio della strada – ma arrivata a duecento aveva rinunciato. Dovevano aver camminato per più di cinque minuti, ad ogni modo.
Daphne allacciò le mani alle spalle seminude con un brivido. L’alcool aveva obnubilato quel minimo senso di logica che le avrebbe suggerito di portarsi dietro il giaccone; soltanto ora gli effetti cominciavano a svanire, lasciandola più lucida e più incazzata. La temperatura era scesa a 12 gradi e in quel punto in cui arrivava appena il riverbero della luna il freddo le mordeva la pelle.
Adorava i chiari di luna, le peripezie, l’imprevedibile avventura, ma solo nei libri. Nei romanzi era facile: se un ingranaggio s’inceppava, bastava scorrere le pagine e saltare alla conclusione, a scoprire nel finale come si sbrogliasse la matassa. Ma lì, in quel posto inghiottito dal buio e dimenticato da Dio, non si poteva saltare ad alcuna conclusione.
Doveva viverla, goccia dopo goccia, minuto dopo minuto, con il cuore sballottato nel petto.
Il luogo che cercavano sorgeva al centro di uno spiazzo aperto, eppure stavano affondando sempre più nella boscaglia e non accennava a diradarsi. Non un’anima viva a cui chiedere indicazioni – e chi si sarebbe avventurato su quella strada chiusa dagli alberi in piena notte? – né una maledetta segnaletica che le potesse guidare.
Daphne schivò delle sterpaglie che tentavano di intrappolarle la veste.
Dei corvi gracchiarono sopra la sua testa, facendola sussultare. Tra il gomitolo di rami cercò con lo sguardo gli indiziati, ma non riuscì a scorgere nulla.
Ma quanto mancava ancora?
Vedeva le spalle di Melanie, qualche metro più avanti, ondeggiare, la testa bassa e incassata, in balìa del navigatore.
Non poté fare a meno di pensare che era sempre stato così, da quando ne aveva memoria: Mel avanti e lei qualche spanna più indietro, ad arrancare, ad affannarsi come una disperata.
Non avevano scambiato neppure mezza parola da quando era montata in auto con lei.
Forse, si era detta, era meglio così. La carica esplosiva di alcune ore prima ribolliva ancora sottopelle.
Daphne si rimise in moto, ma qualche metro dopo si presentò un rumore di tutt’altra natura che le congelò il sangue nelle vene.
Un ululato.
Stridulo, aspro e raschiante come artigli su una parete rocciosa.
Daphne si bloccò. L’abbandonò la forza di parlare, di spostarsi o anche solo di muovere un muscolo facciale.  
Si fece forza e in un bisbiglio: «Hai sentito?»
Vide la nuvola di condensa prodotta dal suo respiro fluttuarle davanti.
Anche Melanie si era voltata e scrutava il cuore del boschetto alle loro spalle. Annuì, piano.
«Cosa può essere? Un lupo?»
«Non ci sono lupi nel Connecticut.»
Poi, di nuovo quel richiamo. Questa volta trovò risposta in altri tre latrati, provenienti da un punto indefinito alla loro sinistra. A Daphne venne la pelle d’oca, ma stavolta non per il freddo.
«Quella era un’abbaiata.»
«Sono coyote», disse Melanie. «Credo.»
«Coyote?!»
La ragazza assentì con estrema serietà. «Meglio che ci muoviamo. Vorrei evitare di incontrarli.»


*    *    *


Correva.
Correva in mezzo a tutti gli altri, un agnellino in mezzo ad un branco di lupi. Con i muscoli in fiamme, i tendini che tiravano e la vista annebbiata dal vento.
Isaac continuò a correre per altri duecento metri, poi svoltò in una strada a senso unico, individuò la Toyota metallizzata ad attenderlo con gli sportelli spalancati e saltò sul sedile del passeggero.
I battiti continuavano a incalzarlo, simili alla raffica di una mitragliatrice. Si premette una mano sul petto, in alto a sinistra, all’altezza del cuore, per assicurarsi di essere ancora intero.
La Toyota era già ripartita e divorava metri d’asfalto come un bulldozer, lanciata sulle strade del Westside. Unica destinazione: Lowhood.
Isaac tirò rumorosamente su con il naso e si schiarì la gola.
Il tipo con la boccia, presentatosi come Felix, sbracato sui sedili posteriori, piantò entrambe le mani sugli anteriori e vi sporse il mento esibendo un ghigno soddisfatto. Una risata gorgogliò dalla gola.
Oliver gli chiese come fosse andata, mantenendo lo sguardo sulla guida.
«Benone. Il rampollo del Westside è una vera chicca.»
Smokes, il ragazzotto schiacciato contro il finestrino, concordò con lui, accendendosi una sigaretta.
Oliver se ne inorgoglì: «Ve l’ho detto che sarebbe tornato utile».
«Ci fidiamo di te, Ol. Il fatto è che, a vederlo così, tutto striminzito e slavato,» Felix gli strizzò una spalla, raggrinzando la stoffa della felpa, «non gli daresti uno sputo d’incoraggiamento.»
Cosa significasse, Isaac non lo sapeva. Quel che sapeva con certezza, invece, era che il sangue pulsava con troppo vigore nelle vene e il busto si stava irrigidendo.
Frugò nella tasca alla ricerca dell’inalatore. L’aveva preso, era certo di averlo preso. Ma allora dove l’aveva messo?
Felix si stava congratulando con Oliver. Il piano era andato secondo il previsto.
Si erano diretti alla casa dove abitava una delle innumerevoli coppie facoltose del quartiere; non avevano incontrato alcuna resistenza da parte della serratura principale e, una volta scattata quella, erano riusciti facilmente ad aprire le altre due, come si aspettavano. Merito di Two Fingers, il loro scassinatore di fiducia.
Poi, si erano introdotti nell’abitazione, muniti di passamontagna. Le telecamere frontali erano state già manomesse da Verano, che dal retro aveva fatto saltare il circuito.
Se avevano potuto lavorare con quella sicurezza e tutto il tempo del mondo a loro disposizione, dovevano ringraziare Isaac e altri due scagnozzi: Ryan – “Hawk” per i membri del gruppo – e Slimmer.
Mentre gli altri due stavano di guardia su retro e ingresso principale, Isaac aveva fatto da palo all’entrata del giardino, nel punto in cui la staccionata di legno bianco s’interrompeva, lasciando spazio al cancellino.
Felix e gli altri impegnati all’interno avevano faticato più di quanto avessero immaginato nello scovare il diadema.
Il momento cruciale era stato alla comparsa di una coppia d’anziani, probabilmente dei vicini di casa, che si erano fermati sul marciapiede a guardare i ragazzini del circondario fare dolcetto o scherzetto.
«Lo scricciolo gli si è parato davanti», raccontò Felix con foga, «e ha finto di conoscerli. Ha bloccato la visuale sulla casa e quelli ci sono cascati con tutte le scarpe.»
Oliver si concesse un mezzo sorriso.
«Fregati come dei bambini», concordò Smokes.
Era riuscito a distogliere completamente l’attenzione dall’abitazione scassinata, impegnandoli in discorsi su Halloween, i bambini e le vacanze, richiamando ad una memoria già precaria l’incontro di diversi anni prima, durante una crociera nell’Atlantico.
«E il diadema dov’era?»
«Ol, non ci crederai mai» Felix sistemò ancor meglio il didietro sul proprio sedile. «Nella cuccia del cane.»
«Assurdo.»
Smokes rilasciò una boccata di fumo, scuotendo il capo: «Già. Scommetto che glielo fanno pure mettere».
«In tal caso, si sono meritati la rapina», decretò il biondo. «Isaac, va tutto bene?»
Isaac aveva rivoltato tutte le tasche degli indumenti, affannandosi in cerca dell’inalatore. La tosse secca si era presentata puntuale all’appuntamento con il Caso. Lo stesso Caso che aveva voluto far scivolare l’inalatore sul pavimento dell’automobile, tra il sedile e lo sportello.
Il ragazzo aveva afferrato il sedile da entrambi i lati adesso e lo stringeva come se si fosse trattato dell’ultimo scoglio a cui aggrapparsi durante una tempesta. E lui si sentiva un po’ come un naufrago, in effetti, senza punti di riferimento su come procedere di fronte all’ineluttabile.
Sarebbe morto, lo sentiva. Lo sentiva.
Le vie aeree si restringevano sempre più e respirare era impossibile. Una scalata, altro che naufragio: era esattamente come una scalata e mano a mano che si avvicinava alla cima della montagna, l’aria diveniva sempre più rarefatta e la scorta nei polmoni meno consistente.
Isaac si raggomitolò su se stesso, in preda agli spasmi.
«Ehi, ma che sta succedendo?»
«Ti senti bene, scricciolo?»
Oliver gli lanciò un’occhiata rapida, allarmata, mentre l’automobile rallentava sotto i suoi comandi, fermandosi al semaforo rosso. Si sporse verso il più giovane, nonostante i movimenti ristretti dalla cintura, e riuscì a scorgere il profilo familiare dell’inalatore. «Sta lì! Prendi quell’affare, Felix.»
«Cosa? Ma cosa?»
«L’inalatore! Dagli il cazzo di inalatore!»
Oliver indicava in modo spasmodico lo sportello. Il suo compagno impiegò una manciata di secondi ad individuarlo. Lo recuperò con la mano grassoccia, schiacciando una guancia contro il coprisedile.
«Sbrigati, cazzo!»
«Eccolo, eccolo!»
Isaac si ritrovò il salvavita tra le mani come un portafortuna. Se lo portò alla bocca e premette il pulsante di rilascio, risucchiando aria con disperazione. Lasciò trascorrere trenta secondi, prima di riattaccarvisi.
«Ecco, così», Felix gli assestò una pacca. «Respira, scricciolo.»
Anche Smokes si era sporto tra i due sedili, sistemandosi sul naso gli occhialetti a mezzaluna dalle lenti scure. «Va meglio?»
Dal momento che Isaac stava annuendo, sebbene ancora sentisse la gola arida e i polmoni come raschiati dall’interno, si rilassarono tutti.
Prima di ripartire, Oliver abbassò il finestrino e, sottratta a Smokes la sua adorata sigaretta, la gettò in strada.
«E butta ‘sta cazzo di sigaretta.»
 
 
 
*      *      *
 

L’abitazione sorgeva al centro di uno spiazzo erboso, dove le uniche sentinelle erano un albero da frutto alla sinistra e il garage sul lato destro.
Classica, strutturata su due piani, tetto spiovente in ardesia, piccolo porticato frontale, l’abitazione sembrava tenuta in condizioni persino decenti. O forse era il chiaro di luna, da lì perfettamente visibile, a romanticizzare il quadretto.
Vi erano approdate per miracolo, con il navigatore che aveva ricalcolato il percorso un paio di volte e la certezza di essersi perse ormai tra gli alberi. Finalmente era apparsa la luce in fondo al tunnel: un punto in cui le chiome pesantissime si sfoltivano e dai tronchi più scheletrici si passava ad un campo aperto.
Melanie, deposta sul prato la borsa a tracolla, aprì la confezione che le avevano dato.
C’erano dodici uova intatte.
Sciuparle in quel modo le faceva montare una rabbia incandescente; magari per tutti gli altri studenti dell’Arcadian sarebbe stata una perdita da niente, ma lo spreco di cibo in casa sua assumeva tutt’altro sapore. Qualcosa, un lumicino di irrazionalità proveniente dal fondo dello stomaco, le suggeriva che il disegno di Alyssa non era stato così casuale come voleva far credere.
No, stava volando con la fantasia. Alyssa non sapeva un bel niente di lei.
Magari l’aveva conosciuta superficialmente in passato, ma in così pochi anni le carte in tavola erano state rovesciate.
Alyssa non poteva sapere con quanta considerazione trattassero il cibo i Prescott, né immaginava il senso di colpa e rabbia introflessa che provava nel sollevare il coperchio di quella sciocca confezione.
Afferrò il primo uovo, rivolgendosi verso la compagna. «Allora? Facciamo questa stronzata, così rendiamo felici i tuoi amichetti e torniamo ciascuna alla propria vita?»
A Daphne non sfuggì il tono prepotente con cui aveva pronunciato quelle poche parole, ma finse di ignorarlo. Estrasse il cellulare dalla borsetta e si posizionò ad alcuni metri di distanza dall’altra, sistemando l’inquadratura così da riprendere sia Melanie che la casa.
«Vai», e premette il pulsante rosso.
Melanie si era messa in posa come una lanciatrice incallita del baseball. Portò l’uovo accanto alla tempia, chiuse un occhio, mentre con l’altro calcolava con precisione la distanza da coprire; poi, flesse il braccio all’indietro e scagliò la sua pallottola d’un bianco ovatta contro la facciata. Vi si spalmò con un suono liquido, gocciolando lungo il cornicione di una finestra.
Daphne rimase ad osservare il misto di albume e tuorlo che andava a dipingere un unico occhio giallastro sul rivestimento in mattoni.
Le ricordò un occhio piangente, quello di un animale morente – una vacca al macello fu l’immagine che la colpì all’istante – e avvertì un accartocciamento a livello addominale.
Prima che potesse aprire bocca, però, un altro uovo colpì la casa, stavolta in basso a destra, proprio accanto all’entrata del garage. E poi un altro e un altro e un altro ancora.
In breve una raffica di tuorli si riversò sulla casa senza vita, schegge di gusci infilzarono il prato.
Nessuna delle due stava ridendo o anche solo sorridendo, davanti all’insudiciamento immotivato.
Melanie era divenuta una catapulta: tirava uova rispondendo ad una logica esterna incomprensibile, come seguendo dei comandi preimpostati, fino ad esaurimento scorte.
Daphne si voltò a guardarla con un senso di compassione.
«Melanie, penso sia sufficiente.»
«No.»
Quella la invitò a risollevare lo schermo del telefono. «Finiamo la dozzina.»
Daphne preferì spostare lo sguardo altrove.
Non si spiegava come Melanie potesse assolvere al suo obbligo in maniera automatica, davvero meccanica.
In qualità di unica difesa trovò il profilo della luna – piena come annunciato da James – e si sforzò di concentrarsi solo su quello. I contorni vacillarono, sfumarono nel tempo e rivide se stessa, bambina di appena otto anni, seduta sul portico in legno di casa Prescott.
La prima luna piena a cui avesse assistito.
Ricordava il profumo nauseabondo del chewing-gum alla fragola, con cui lei e Mel erano entrate in fissa – a dire il vero, era la fissa dei trequarti della scuola – tenendone sempre due pacchetti di scorta in tasca. Rimaneva attaccato ai vestiti per giorni, facendo disperare Emma Barnett ogni volta che doveva lavare la biancheria della figlia. Quella sera, però, il chewing-gum era stato surclassato.
Un odore più forte, quello di mele e zucchero a velo, le aveva impregnato le narici. Proveniva dalla cucina, dal forno dei Prescott in cui stava lievitando qualcosa di speziato.
Melanie l’aveva raggiunta in veranda, sedendosi accanto a lei con le gambe acciambellate. Con la massima serietà le aveva consegnato un quaderno simile ad un block-notes, tempestato di sticker luccicanti. Lei l’aveva aperto alla pagina indicata, passando oltre i vari schizzi a pastello; tutto lo spazio disponibile era stato occupato dal disegno di un cassettone a più scomparti, munito di specchietti laterali e con un sedile retrattile. Un bozzetto innocuo, o almeno questo avrebbero pensato gli adulti, se fosse finito nelle mani sbagliate.
In realtà era il progetto di un macchinario potentissimo, il mezzo che avrebbe permesso loro di scivolare in un universo parallelo. Lo sapevano entrambe che era un gioco, ma solo per metà; l’altra metà voleva convincersi dell’impossibile e verificarlo.
Daphne ricordava di aver pensato con orgoglio che quella era la sua migliore amica, che proprio il suo cervello aveva partorito un piano geniale. E lei l’’avrebbe seguita ovunque, anche in un altro mondo.
Un colpo.
Qualcosa l’aveva colpita alle spalle, tra collo e scapola.
Un liquido tiepido iniziò a sgocciolare lungo l’avambraccio, in parte assorbito dalla spallina del vestito.
Daphne si voltò lentamente, ancora frastornata dal suo viaggio temporale, ma giusto in tempo per cogliere la smorfia di finta contrizione sul volto dell’altra.
«Ops, bersaglio mancato.»
Provò a liberarsi dal pastrocchio alla bell’e meglio. Che fosse un errore di distrazione o meno, mancavano solo due oggetti da tirare, dopodiché ognuna sarebbe andata per la propria strada. Tanto valeva resistere per qualche minuto ancora.
«Riprova.» Si sistemò di nuovo in posizione. «E vedi di prendere meglio la mira, stavolta.»
«Certo.»
Melanie ripeté meticolosamente i gesti di prima, roteando però il busto verso la compagna.
Te la do io la mira, Barnett.
Caricò il lancio e scagliò la penultima munizione, centrando il suo obiettivo. Dritto su una guancia, questa volta. Assaporare l’esatto momento in cui il guscio esplodeva e il fluido inondava la parrucca angelica di Daphne non ebbe prezzo. Chi diceva che la vendetta andava servita fredda?
Probabilmente qualcuno che non l’aveva ancora sperimentata.
E l’urletto di sorpresa fu ancora più appagante.
«Ma lo fai apposta?»
Mentre Daphne asciugava via i residui di albume, aiutandosi con la veste carnevalesca, Melanie le si avvicinò di qualche passo. «E se così fosse?»
L’altra rimase interdetta, poi la stanchezza ebbe la meglio e la invitò a terminare il suo compitino. Faceva un freddo cane e non aveva la minima intenzione di beccarsi un raffreddore a causa delle sue sbruffonate.
«Vorrei vedere te al mio posto. Ah, no, aspetta,» Melanie indicò se stessa, «tocca a me, come sempre. Tu non ci saresti mai finita in una situazione del genere, giusto? Va contro i tuoi valori.»
Daphne le lanciò un’occhiata dardeggiante. «Io non avrei mai accettato un obbligo simile.»
«Stronzate.»
Melanie sembrava in vena di grandi performance attoriali, quella sera; adesso faceva avanti e indietro, disegnando dei cerchi immaginari sul prato, come se finita in un loop. O come un cane che scavi la buca.
«Stronzate?» ripeté Daphne, accigliandosi.
«Fai tutto ciò che ti dice Alyssa. Se ti avesse ordinato di risalire a nuoto il Niagara, di mangiare merda o… Che ne so? Di spararmi, avresti ubbidito senza fiatare.»
Il telefono venne abbassato, la registrazione interrotta. Aveva ottenuto la sua piena attenzione.
Eppure Daphne appariva davvero provata, con delle fosse al posto delle occhiaie e una colata di trucco misto a uovo crudo sul viso. «Okay, chiaramente hai un problema con me. Pensavo ne avessimo già discusso a sufficienza.»
«Quale problema? Tutto nella norma. Sei tu a gridare al lupo, perché ti metto davanti ai fatti», disse assestandosi uno schiaffo sul palmo opposto.
Daphne sgranò gli occhi, allargando le braccia: «Questo non è un problema, per te?»
L’altra scosse il capo, impassibile, mimando un “no” con le labbra.
«Allora hai solo una mira di merda
Melanie finse di scandalizzarsi, spalancando la bocca in una comica imitazione di se stessa – o più probabilmente di Alyssa. Si strizzò le guance tra le mani.
«Oh, Gesù. Daphne Barnett ha detto una parolaccia! Santo cielo.»
«Sì, sì, sfogati pure», replicò lei raccogliendo l’ultimo uovo rimasto. «Almeno con questo abbiamo finito.»
«Com’è stato possibile? La nostra figlioletta perfetta… Oh, ma guardati. Non riesci nemmeno a colpire una stupida finestra. Sei proprio una brava ragazza.»
In effetti, il lancio non era andato a buon fine. Dopo aver disegnato una parabola ascendente, l’uovo era precipitato a terra, per attaccarsi alla ghiaia del viale d’ingresso.
Melanie superò l’altra di qualche falcata, per raccogliere da terra un sasso di modeste dimensioni. Lo soppesò qualche istante, sfidando la ragazza. «Vuoi vedere qualcosa di davvero forte?»
«No, non mi interessa niente del tuo rancore. Voglio solo tornarmene a casa.»
«Che c’è? Mamma e papà stanno in pensiero?»
Daphne ricontrollò di aver salvato il video nella galleria. Scorse le foto pre-party insieme ad Alyssa e qualche scatto alle decorazioni del maniero, fino al file di dimensioni più grandi.
L’anteprima, su cui lampeggiava il bottone di riproduzione, era un quadrato nero.
Avevano contato sul fatto che il lampioncino – a pochi metri dall’abitazione – supplisse alla scarsa illuminazione della scena, ma si erano sbagliate. Sperò che si vedesse quantomeno l’essenziale.
Il rumore del vetro della finestra che andava in frantumi le strappò appena un sussulto. Daphne trasse un respiro profondo, mentre cercava di inviare il file al numero di Logan.
«Senti, ho capito. Hai diciassette anni, sei un sacco incazzata con il mondo. Ti senti alternativa perché prendi a pugni la gente, sfondi specchi e finestre. Scaricando negatività su di me, non risolverai comunque i tuoi problemi.»
Melanie aggrottò la fronte.
Il tono di superiorità con cui osava parlarle. Quell’aria di disinteresse che le corrucciava il viso, mentre controllava il suo stupido I-Phone di ultima generazione. Era diventata come Alyssa.
Lei era Alyssa.
Fu questione di attimi. In poche mosse le aveva strappato il telefono dalle mani, scaraventato a terra e schiacciato sotto la suola della scarpa. Non emise neppure un ultimo “bip” morente.
«Ma ti ha dato di volta il cervello?»
Daphne la spintonò. All’inizio lo fece piano, sfiorando appena la felpa marrone che indossava; poi, fu un crescendo. Melanie replicò la spinta, senza applicare eccessiva pressione.
«Spiegami,» scandì la prima, «cosa diamine vuoi.»
«Lo vuoi sapere?»
Daphne arretrò di qualche passo davanti al grido animalesco con cui l’aveva investita.
«Il problema è che sei un buco nero, Daphne. Risucchi tutti nelle tue fauci, li fagociti e te ne liberi come se niente fosse», sputò. «Sei un buco nero!»
«Detto da una disonesta come te, c’è da crederti sulla parola.»
Stavano urlando entrambe, ormai. Alle spinte, Melanie sostituì una manciata di terriccio e fili d’erba, da riversarle addosso, spalmandolo sul vestito non più lindo. L’altra rispose con un vortice di graffi, fino ad avventarsi direttamente sull’opponente.
Per Melanie fu uno scherzetto scaraventarla sul prato. La schiena impattò con il suolo, strappandole un colpo di tosse secco, mentre l’altra la inchiodava a terra. Le sembrava di essere tornata all’Arcadian, al giorno in cui sotto al peso del proprio corpo aveva schiacciato Cindy Butler.
Il corpo di Daphne era più robusto, ma non per questo difficile da bloccare. Con le ginocchia piantate nei fianchi, le impediva di liberarsi dalla presa; riusciva anche a fermarle un polso, mentre con l’altra mano premeva all’altezza dello sterno.
«Cosa farai quando Alyssa non ti servirà più, eh? La scaricherai nel cesso? O forse questa è la sorte che toccherà a Logan? O a James?»
«Dipende.» Fu un suono strozzato. «Credo che nessuno di loro abbia fatto del cyberbullismo.»
«E nemmeno un outing forzato se è per questo», abbaiò Mel.
Incassò una ginocchiata al ventre da parte dell’altra. Daphne, raccogliendo a propria volta una manciata di terriccio, lo spalmò sul viso della ragazza. «Non ti ho mai fatto alcun outing.»
«Eri l’unica a saperlo.»
«E tu eri l’unica ad avere quelle cose su Elijah!»
Alla fine, arrivò.
Sentendosi mordere il polso della mano destra, Mel le assestò un pugno dritto al labbro. Un piccolo fiore di sangue sbocciò dove le nocche avevano lasciato il segno. Daphne incurvò la schiena e reclinò il capo, in un gemito dolorante.
«Oh, cazzo. Scusami…»
In quel momento, un urlo colse di sorpresa entrambe, paralizzandole nella strana forma plastica cui avevano dato vita.
La porta principale era spalancata. Una luce di un bianco caldo rischiarava una fetta del porticato. A gridare un uomo sulla settantina, in ciabatte e con una vestaglia a scacchi per metà aperta sul pigiama azzurro. Il suo sguardo saettava da loro due alla meravigliosa tavolozza in cui era stata trasformata la sua abitazione; si posò sulla fessura aperta nel vetro della camera da letto, dove lui e sua moglie erano stati svegliati.
Pronunciò solo tre parole, ma furono sufficienti: «Io vi ammazzo».
Schizzate in piedi, le due ragazze iniziarono ad arretrare. Mentre Mel recuperava le borse e l’I-Phone a pezzi, Daphne provò a patteggiare, mostrandosi disarmata.
«Ci scusi, non sapevamo che la casa fosse abitata.»
«Ma quali scuse, io vi ammazzo», gracchiò quello.
Un’altra voce si aggiunse dall’interno, a cui il proprietario diede ordine di slegare il cane.
«Davvero, la risarciremo. Le pagheremo i danni», continuava Daphne. «Credevamo fosse abbandonata da un ventennio.»
«Daphne, corri.»
Lei si voltò verso la compagna con spaesamento e terrore al tempo stesso. «Cosa?»
Come cassa di risonanza vi fu un ringhio. La bestia fece capolino dalla soglia di casa solo con il muso e le zampe anteriori. La padrona lo teneva al guinzaglio, incerta sul da farsi: era legale sciogliergli la museruola e lanciarlo contro due intruse?
Per il marito, legale o meno, era divenuta una priorità, a giudicare dal modo in cui le sbraitava di liberarlo.
Daphne indietreggiò di qualche centimetro ancora, gli occhi spalancati conficcati sulla scena di fronte. Melanie la riscosse, tirandola per un gomito. «Ha un Rottweiler. Corri!»
Il ringhio crebbe come il rombo di un motore in accensione. Fu allora che Daphne riuscì a voltare le spalle alla casa illuminata e a correre, non senza inciampare nei suoi stessi piedi.
«Blitz, attacca!»
Il Rottweiler, schizzato fuori dal portico come un elastico, prese ad abbaiare contro di loro.
Melanie la precedeva di diversi metri, proiettata verso un punto indefinito all’orizzonte, oltre il melo. Lei la stava seguendo per inerzia, incapace di ragionare lucidamente. Sentiva l’adrenalina infiammarle gambe, braccia, torace, collo. Si stavano allontanando dal bosco.
«Melanie! La macchina è dall’altra parte!»
Ottenne in risposta solo silenzio.
Non aveva la più pallida idea di dove fosse diretta, né se ci fosse un piano, ma era certa che fosse la direzione sbagliata. Daphne, deglutendo a fatica, si ripeté nella mente il vecchio mantra: seguirla ovunque, anche in un altro mondo. Adesso le avrebbe fatto comodo una goccia di quella cieca fiducia.
Davanti a loro si srotolava un interminabile tappeto di erba e sterpaglie. Melanie notò il proprio battito accelerare, ma non schizzare alle stelle: sapeva fino a che punto si poteva spingere.
Se c’era una cosa che aveva appreso in quegli anni di allenamenti, tra lividi su polsi e ginocchia, maglie impregnate di sudore, tendini al benzene e addominali inossidabili, era stato come calibrare il proprio corpo. Lo trattava con rispetto, con la stessa reverenza di un monaco buddista davanti alla statua nel tempio. Magari non le importava curarsi sotto altri profili, ma resistenza e controllo rimanevano delle priorità.
«Mel, ci sta raggiungendo.»
Con uno scatto leprino, Melanie aumentò la velocità.
Dovevano trovare un riparo il prima possibile.
Sulla sinistra, il paesaggio cominciava a mutare. I pali della luce si confondevano di nuovo a mucchi di alberi e foglie appassite.
Daphne non sentiva più le gambe ed era ancora in piedi per un miracolo. Se fossero uscite fuori sane e salve da quella storia, avrebbe bandito le ballerine dal proprio guardaroba per il resto della vita.
Riusciva a sentire il ringhio di Blitz farsi sempre più vicino, corredato da quegli occhi famelici e dalla bava che gli spumeggiava tra le fauci.
«Lì!»
Il braccio di Melanie si distese come una stanga verso sinistra.
Subito dopo, le ragazze fecero una deviazione, uscendo dal sentiero tracciato nell’erba. Gli sterpi graffiarono le ginocchia, un ramoscello secco riuscì perfino a squarciarle la veste e ad aprirle una ferita lungo la coscia. Daphne trattenne un lamento, mordendosi il labbro già sanguinante.
Una recinzione.
Dritta, maestosa, copriva tutta l’altezza dell’elettrodotto. Una rete metallica a maglie strette divideva il sentiero da un pendio ripido, ricoperto da rovi e boscaglia.
Mel vi si issò, facendo leva con il piede sul palo in legno. Non era elettrificata. Una volta arrivata in cima, scavalcò e si calò dall’altra parte con agilità. Con un ultimo salto, atterrò sul prato.
«Che diamine aspetti? Scavalca!»
Daphne scosse il capo con gli occhi brillanti di lacrime. «Non posso.»
«Questa è la più grande cazzata che hai detto finora.»
Ma la ragazza scuoteva ancora la testa vigorosamente, gettando occhiate affannose alle proprie spalle.
«Daphne, Daphne. Stammi a sentire.»
Non c’era tempo per indugi.
Melanie aveva appoggiato mani e fronte alla rete. Le parlava con tono comprensivo, ma fermo.
L’aveva ereditato dal padre, quel modo di fare risoluto. 
«Ho appena scavalcato. Puoi farlo anche tu, okay? Aiutati con il tronco dell’albero.»
«No, no, no. Melanie, io non ce la faccio
Stava piangendo adesso.
I muscoli delle braccia non l’avrebbero mai retta durante la scalata; il suo fisico non era temprato come quello di Mel. Lei era un batuffolo d’ovatta intriso di catrame. Anzi, un buco nero. Il cuore le premeva nel petto, i singulti si comprimevano nella gola, impossibilitati ad uscire.
«Okay, allora corri. Non ti fermare, forza. Corri, corri, corri!»
E detto ciò, fu Melanie a ricominciare la propria corsa per la vita, come se il cane ce l’avesse lei alle calcagna. Fece cenno all’altra di seguirla. Daphne la imitò e al limite della disperazione si trascinò lungo il perimetro tracciato dalla rete. Ulteriori rami tentarono di appropriarsi delle sue caviglie.
«Più veloce, Daphne. Più veloce.»
Daphne scacciò le lacrime. Ci sarebbe stata una fine a quell’incubo ad occhi aperti? Avrebbe tanto voluto essere un personaggio in un libro, che, per quanto tempestato dalle avversità, già sappia che alla fine approderà alla salvezza.
Lanciò un’occhiata al cielo stellato. Nessun deus ex machina in suo soccorso.
Radici. Braccia spettrali di alberi. Radici più spesse.
Il sangue le martellava nelle orecchie. L’aria gelida le sferzava il viso, le scalfiva brutalmente le guance, mentre avanzava a grandi falcate. Il cuore traballava nella cassa toracica, un grumo di mosche impazzite ad agitarsi tra le sue ossa. Cercava con tutta se stessa di non fermarsi, di non pensare, e il corpo parve assecondarla in quella scarica d’adrenalina che scottava le gambe, pizzicava i polsi.
Arbusti. Erba alta. Una buca.
Ancora rami che la avvinghiavano.
Melanie teneva un palmo premuto contro la rete, a metri di distanza da lei. 
«Qui! Coraggio, ci sei quasi.»
Concentrò tutte le proprie energie in quell’ultimo sforzo.
Nel punto in cui Melanie l’attendeva, la rete era accartocciata su se stessa; un passaggio, che l’altra ragazza stava provando ad allargare ulteriormente. Daphne si accovacciò a terra e spinse le maglie metalliche all’insù, facendosi strada dall’altra parte. Era come attraversare un tunnel claustrofobico, di cui il soffitto gravava sulla nuca e le pareti scorticavano le braccia.
Rimessasi in piedi, fece appena in tempo ad udire il latrato del Rottweiler e si precipitò assieme a Melanie verso il pendio, stavolta davvero ingurgitate dal buio totale.
Dieci, undici passi e il terreno si dematerializzò da sotto le loro scarpe. Un acuto spaccatimpani accompagnò la caduta nel vuoto.
 
   
 
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