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Autore: paige95    11/10/2020    5 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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Brezza gelida dal passato






 
Los Angeles – St. Vincent Medical Center, 12 settembre 2018
 
Delilah aveva cercato il padre ovunque, la camera nella quale era stato collocato si presentava spoglia e silenziosa, come se non avesse ospitato fino a pochi minuti prima alcun paziente; erano però presenti e ordinati gli effetti personali del direttore Clark, segno che l’uomo non aveva avuto alcun ripensamento circa la delicata operazione che avrebbe dovuto a breve affrontare. Daniel si era reso irreperibile proprio nell’ultima mezz’ora che separava padre e figlia dall’intervento, esattamente come era solito fare da sempre, con l’unica differenza che stavolta la sua salute era a repentaglio. 
Prima di raggiungere la cappella dell’ospedale, la dottoressa aveva attraversato gli interminabili corridoi dei reparti, respirando l’aria sterile impregnata di disinfettante e sofferenza; era accompagnata dal suo inseparabile stetoscopio – una seconda pelle per un cardiologo –, il camice candido svolazzava con risolutezza, era l’antitesi del tremore che scorreva nella sua anima. Aveva salutato colleghi e pazienti cercando di celare il turbamento, una sofferenza che solo poche anime a lei conosciute sarebbero state in grado di interpretare, ma suo fratello dall’Afghanistan e sua cognata immersa nell’angoscia non erano disponibili a confidenze. Aveva, infine, intravisto una figura longilinea e slanciata, le cui spalle erano rivolte nella direzione della donna; era deperito nel fisico come non lo era mai stato in vita sua. Daniel teneva un piede fuori e l’altro dentro la cappella; a pochi metri di distanza, il medico scorse lo sguardo del padre rivolto al protettore degli infermi, a cui quel luogo era dedicato. Se l’uomo non avesse stretto tra le mani la sua agenda beige da lavoro, Delilah avrebbe avuto difficoltà a riconoscerlo; era affranto e impotente, avvilito e convinto di vivere i momenti precedenti all’intervento in piena solitudine. Sentiva di non meritare alcun genere di conforto. Aveva modificato le sue abitudini dal momento della diagnosi, la malattia lo aveva intimorito; i soliti sigari non erano più così dolci, prediligeva il caffé amaro e in numero limitato. Il lavoro era rimasto frenetico, eppure cercava di affrontarlo senza l'ausilio di nicotina e caffeina, ci provava per sé, ma anche per Delilah che si stava prodigando per aiutarlo e ciò era innegabile.
Agli occhi della figlia non gli si addicevano le vesti del malato, possedeva il suo consueto portamento da uomo d’affari, con un leggero pallore sul volto e abiti poco consoni per un infermo ricoverato; a lui non importava del luogo in cui si trovasse, le energie non gli erano mai mancate, ne strabordava, sul lavoro era sempre in prima linea, lo stesso approccio che in fondo aveva richiesto al secondogenito. Si destreggiava tra l’agenda e il cellulare in cerca di una normalità che iniziava a rimpiangere persino la dottoressa e che nel qui ed ora lo aiutava a non crollare del tutto sotto il peso del destino. Era intento a riordinare le ultime questioni prima di un intervento delicato; il luogo in cui Delilah lo aveva ritrovato comunicava l’intensa irrequietezza del direttore. Qualunque buon medico avrebbe provato a consolare e a rassicurare un paziente malato di cuore, qualunque cardiochirurgo che non fosse in preda al timore di fallire e quindi anch’ella in dubbio sulla riuscita dell’intervento.
«Ehi. Pensi che mi libererò di te così facilmente? Rimanda qualcosa a più tardi, non serve affannarsi ora»
La voce di Delilah tremava in modo impercettibile di ansia e paura: paura di perderlo e sentirsi davvero orfana di quel padre così snaturato e per questo così fragile. Lo affiancò rivolgendo un saluto religioso alla medesima statua del santo protettore; la donna si avvicinò ai cerini, ne afferrò uno spento e lo congiunse ad uno già accesso per catturare la fiamma viva. Le vetrate colorate producevano un gioco di luci affascinante, Delilah non se ne era mai accorta, prima di allora non aveva avvertito la necessità di soffermarsi in preghiera in quel remoto anfratto dell’ospedale; sapeva fosse il rifugio di molte madri e molti figli in angoscia per le sorti dei parenti, anime in pena, associava solo questo a quel silenzioso angolo. Lei non si era mai trovata nella scomoda posizione di doversi affidare al cielo, ma nelle sue mani umane iniziava ad avere poca fiducia, esattamente da quando rivestiva il ruolo sia di medico che di  figlia indossando il camice bianco.
Daniel non ricordava di essersi mai soffermato così a lungo sull’immagine della primogenita; i suoi movimenti erano aggraziati, rivide in quelle movenze – oltre il gesto particolare – la bambina che non aveva avuto l’opportunità di crescere ed educare. Non era stato per Delilah una figura costante, l’aveva reso padre, ma la loro lontananza fisica - la mancata condivisione della quotidianità - non gli aveva consentito di diventare l’esempio che la figlia avrebbe meritato; non possedevano lo stesso animo, forse era considerata una fortuna da parte di Delilah. La vedeva per la prima volta, non avevano mai spartito così tanto tempo senza battibeccare – senza che lei provocasse e lui si sentisse punto nell’orgoglio. In una rara occasione si era soffermato sui dettagli di cui non conosceva neppure l'esistenza, era sempre troppo preso dal loro disaccordo ogni qualvolta condividessero lo stesso spazio vitale; la dottoressa che portava il suo cognome era cresciuta diventando una donna bella e delicata, una donna in carriera di cui qualunque padre sarebbe stato fiero. Era assurdo, l’ansia stava catturando entrambi, eppure non si erano mai sentiti così in pace l’uno con l’altra, uniti nella medesima preoccupazione - ad eccezione della pena per Samuel solo in parte dichiarata da Daniel. Il direttore incrociò le braccia al petto, reggendo il cellulare e l’agenda in un’unica mano; accantonò per un momento la frenetica quotidianità da affrontare in redazione che aveva sminuito gli affetti più prossimi, la malattia lo aveva costretto a fermarsi e a riflettere. Affiancò la figlia con pacatezza, insieme alla debolezza si fece strada l’idea di non essere mai stato in grado di starle accanto, nei piccoli e nei grandi dolori. Daniel non riusciva a capire se Delilah stesse soffrendo per il quadro clinico del genitore, i loro sguardi si incrociavano e respingevano nello stesso frangente, consapevoli entrambi dell’eccezionalità dell’evento che stavano vivendo, del tempo di amara e nostalgica serenità che in compagnia l’uno dell’altra stavano trascorrendo. Sul volto della dottoressa si dipinse un mezzo sorriso, il suo tono di voce si addolcì, come era accaduto poche volte al cospetto del padre, nei confronti del quale negli anni aveva maturato una buona dose di diffidenza.
«Tua moglie non è qui?»
Daniel rivolse un’espressione sfinita verso il pavimento lucido e si passò un palmo sul viso pallido; si stropicciò gli occhi, prese tempo, non aveva alcuna risposta pronta, solo una magra scusa da accampare. La reazione remissiva del padre paralizzò Delilah, le stava mostrando e svelando un volto inedito. Era il clima giusto per parlare: avrebbero dovuto pregare, invece la quiete prima della tempesta che era calata tra loro ispirava confidenze, con il rischio che sarebbero potute essere le ultime.
«Credo arrivi più tardi. Senti, ogni volta che mi chiami papà, quelle rare volte che lo fai, mi sputi addosso odio e ...»
«Io non ti …»
«… ed hai ragione»
Il direttore del Los Angeles Times non era rinomato per la sua delicatezza; sentire dichiarare fallimento dalla sua voce profonda, colorita da anni trascorsi al comando di una famosa testata giornalistica, equivaleva ad un presagio di morte e il pessimismo non era un aiuto per la figlia. L’aveva pregata di non interromperlo con un gesto flebile della mano; fissava punti immaginari ai lati della donna, ma non riusciva a proclamarsi sconfitto incrociando gli occhi che appartenevano alla madre di sua figlia e che un tempo aveva amato, avrebbe avvertito una doppia dolorosa accusa, non sopportabile nelle sue condizioni di degenza.
«Così non riesco ad operarti. Perché me lo dici solo ora?!»
Il fiato di Delilah era spezzato, rimbombò a tratti nella piccola cappella ritornando amplificato all’udito dell’uomo. Non era in grado di rispondere alla domanda della figlia, ma ebbe la triste conferma di non saper parlarle senza ferirla, così come aveva osato fare a proposito del marito di lei pochi mesi prima; non era sua intenzione insinuare che lei avesse colpa per la fine del suo matrimonio, eppure lo aveva fatto e non era in grado di rimediare a quell'errore, agli sbagli e alle innumerevoli mancanze di anni.
«Perché sono pessimo, Delilah, e non so in quale altro modo amarti»
«E ciò ti giustifica? Hai l’alibi, vero? Io non sono Nathan, non sono un avvocato, non mi devi fornire ragioni valide per difenderti e salvarti da una condanna. Sono solo la stupida dottoressa che proverà a salvarti la vita dopo averti messo in guardia sui rischi a cui saresti andato incontro con il passare degli anni. Sono la cretina che ti vuole bene nonostante tutto! Papà, io non riesco a condannarti per il male che mi hai fatto, non meriti di soffrire»
Avrebbe voluto chiederle di ripetere, non gli dedicava simili parole da quando era solo una bambina; anche se aveva gridato arrabbiata, la sua furia era stata melodiosa, così diversa. Anche quella donna gli stava dimostrando affetto in un modo del tutto anticonvenzionale, eppure era piacevole sentirsi urlare addosso pensieri così sinceri e carichi di considerazione. Non avrebbero mai potuto cancellare il passato, esso era un fiume in piena che avrebbe continuato a travolgerli; solo insieme avrebbero potuto fermare l'onda anomala dei ricordi, trovare una terra di mezzo asciutta sulle cui sponde creare nuove radici. Era tutto un'incognita, navigavano a vista sotto un cielo ancora minaccioso, tra le onde di un mare in tormenta e l'illusione della sopravvivenza.
«Credevo sarebbe stato più semplice togliere il disturbo»
«Lo credevo anche io»
Era stata così tremendamente onesta, non si era affatto smentita, non aveva temuto di ferire il suo vecchio; il rancore che la accompagnava riusciva ad evadere dalla sua anima e brillare attraverso crepe che il padre aveva aperto nel corso degli anni. Il cuore di Daniel iniziò a pompare più sangue, quando le dita della figlia scivolarono tra le sue e lei tentò di rimediare con un goffo approccio fisico; anche Delilah tremava al loro contatto, ancor più quando l'uomo azzardò e fece una leggera pressione sulla mano della dottoressa; il direttore sfiorò la pelle ambrata con un'unica carezza difficile da interpretare per un uomo d'altri tempi, non era scontato fosse affetto o solo costrizione. Erano separati da pochi passi, lei li colmò con apparente pacatezza, eppure fremeva di abbracciarlo, stringerlo, trattenerlo proprio quando la vita minacciava di abbandonarlo. Anche il muscolo involontario della donna si era trasformato in un vulcano. Daniel non oppose alcuna resistenza, lentamente sciolse le braccia ancora raccolte contro il petto, lasciò che Delilah gli cingesse la vita e avvolgesse la schiena con il suo calore e la sua apprensione; seguì i gesti come se la vedesse compiere quel passo per la prima volta ed era effettivamente così da diverso tempo. La mano e le braccia della figlia erano inedite, sentiva un affetto immeritato; il cuore debole percepiva nuove corde che non aveva mai provato o forse non aveva mai ascoltato oppure, nel caso meno estremo, solo dimenticato. La sorpresa rallentò la reazione dell’uomo, nei gesti di Daniel non vi era entusiasmo, finché non venisse invocato con dolore. 
«P-papà»
Le lacrime con cui la dottoressa inondava gli abiti del direttore provocarono una stretta più ferrea su di lei. I loro sguardi non si incrociarono, in quel caso le confidenze sarebbero state più faticose. 
«Non lasciarmi ancora. Ho bisogno di mio padre»
Mesi trascorsi ad accumulare eventi funesti vennero riversati sull’artefice di buona parte della sua sofferenza. Più la stringeva più il suo cuore risentiva i colpi dell’agitazione; Daniel camuffò il malessere, Delilah però si trovava in prossimità dell’organo che curava per professione, il cui funzionamento conosceva particolarmente bene. Posò il palmo sul petto dell'uomo, sentì il battito irregolare. Era ancora tra le sue braccia, i loro cuori si sfioravano, eppure esprimevano diversamente l'emozione che stavano provando, il direttore non sembrava nelle condizioni migliori per viverla con gioia e serenità. 
«Papà, ti ho raccomandato di stare calmo. Ricordi?»
«M-mi dispiace, Delilah … per tutto»
Il tono dell’uomo si era indebolito, stava sciogliendo l’abbraccio contro la sua volontà. Stava succedendo ciò che lei si era impegnata a scongiurare da quando i risultati degli esami avevano restituito un esito preoccupante. Lo condusse verso una panca di legno, lo sorresse e lo invitò a sedersi, mise in atto ogni strategia possibile per tenerlo sveglio; stava riscoprendo una lucidità che non avrebbe mai creduto possibile con la prospettiva della morte del padre. La donna prese posto accanto a lui, tolse qualsiasi oggetto inutile si trovasse nelle mani di lui. Sapere di non essere solo, sapere che proprio lei ci fosse nel dolore fu un conforto; era certo fossero i suoi ultimi respiri, la gabbia toracica si stava squarciando e sotto le dita della figlia ardeva, insieme agli arti superiore. Il respiro mancava, temeva che a breve non avrebbe avuto più il fiato necessario per comunicare il disagio fisico e psichico di cui soffriva. 
«D-Delilah, credo sia un infarto. Mi fa male …»
«Direttore, ognuno ha il proprio mestiere. Cerca di rimanere sveglio»
La dottoressa Clark catturò gli occhi del malato, simulando sicurezza, la situazione doveva essere sotto controllo, Daniel aveva bisogno di tranquillità per superare indenne la fase più critica senza antidolorifici; recuperò la radiolina dal taschino del camice per poter comunicare con il resto del personale medico. Delilah aveva avviato la comunicazione, non si accertò che dall'altra parte qualcuno la stesse ascoltando, aveva solo urgenza e l'estrema necessità di un aiuto tempestivo. 
«Ho bisogno di una barella in cappella e di un codice rosso in sala operatoria»
Tastò il polso, monitorò i battiti, erano deboli e radi. Si sentì impotente, Daniel soffriva in silenzio per non angustiarla e lei senza un bisturi o un defibrillatore non era in grado di aiutarlo. Le guance della dottoressa erano purpuree, rabbia e tristezza si sfogavano sulla sua superficie cutanea.
«Papà, resta con me. Stanno arrivando i soccorsi»
Non era professionale, eppure fiumi di lacrime scorrevano sulle guance olivastre della donna, la vista era sfocata, offuscata dal timore; nelle condizioni in cui si trovava il cuore di suo padre, temeva che l’arresto cardiaco giungesse presto. Daniel provò ad allungare un braccio per raccogliere il dolore che Delilah stava riversando nella chiesetta attraverso persistenti scie salmastre. I battiti stavano diventando sempre più irregolari e nessuno era ancora giunto per prestare loro aiuto.
«Papà! Non ti azzardare a morire!»
Aveva urlato con l’intento esplicito di mantenerlo legato alla realtà; nonostante il suono amplificato tra le mura solenni, le palpebre di Daniel stavano diventando pesanti. Non doveva farle anche questo, la razionalità della dottoressa venne lasciata da parte, non poteva fallire e lasciarla, non di nuovo.
«D-Delilah, non è colpa tua. Qualsiasi cosa accada … non è tua la colpa»
La dottoressa udì scorrere le rotelle del lettino alle sue spalle, l’intenso rumore aveva rintoccato l’ultimo battito di Daniel.
«Papà»
Lo invocò sfinita dal dolore, ma non si arrese, era certa che il suo cuore avrebbe ricominciato a battere. L’uomo aveva colto la dolce supplica della figlia, ma ciò non bastò, come avrebbe desiderato, a salvarlo.

 
Quartier generale degli alleati – Kabul, 12 settembre 2018
 
Il cielo continuava ad essere testimone delle peggiori atrocità e delle più incerte prospettive. Christian non scorse le sfumature turchesi dell’oceano nella volta celeste - il solo rifugio al quale potesse ambire -, lampi impetuosi e sommessi dominavano il paesaggio devastato da decine di strati di macerie; la mente ribolliva a causa della rabbia, non era mai stato più in disaccordo con il generale Flores. Il tenente non era un codardo, lui non scappava, lottava, talvolta era dedito al sacrificio – spesso per mantenere integra la sua coscienza e per portare in salvo i commilitoni. Non era maturata alcuna sintonia tra Christian e il superiore, non erano riusciti ad oltrepassare le formalità, a riscoprirsi nella loro umanità. Non era sufficiente minacciare il capitano per preservarlo dal pericolo, intimorirlo interpellando Katherine non era abbastanza convincente. Nel corso della loro ultima discussione, il generale aveva concluso dicendo Capitano, non sarò io a comunicare il decesso del marito alla signora Richardson e su quelle parole la questione era caduta.
Mancava una manciata di ore al tramonto, i talebani avrebbero avuto il favore delle tenebre per radere al suolo la base americana. Flores non capiva – o forse si ostinava a rifiutare l’idea – che ogni forza in campo li avrebbe preservati dalla disfatta; il comandante aveva deciso di sollevarlo dall’impresa e di non contemplarlo nel novero dei soldati volontari che si sarebbero prodigati a difendere la loro base. Asseriva che Christian e Gwendoline avessero un compito da portare a termine e senza di loro la conta delle vittime tra civili e militari sarebbe stata più lunga. Il generale dal cuore d’acciaio aveva deciso di sacrificarsi, non aveva serbato alcun dubbio a riguardo da quando il colonnello Keller lo aveva informato dell’imminente pericolo. All’annuncio del piano d’azione, Flores non aveva sorpreso i suoi uomini, nessuno lo aveva mai giudicato un vigliacco, ma aveva seminato una buona dose di apprensione. Era stato ordinato a Christian e Gwen di lasciare la base prima del tramonto. Il seal indugiava, il soldato Ward era stata l’unica ragione valida per non mandare al diavolo seduta stante gli ordini del superiore; lei doveva essere portata al sicuro, non si reggeva ancora in piedi in autonomia e, per quanto rischiasse di essere accusato di maschilismo, lui non avrebbe mai smesso di proteggerla.
«Capitano Richardson, è ancora qui?»
Christian riconobbe l’accento tedesco che nelle ultime ore aveva imparato a distinguere da quello americano dei connazionali o da quello degli altri alleati europei. Il colonnello Keller, a differenza di Flores, era un uomo diplomatico, propenso all’ascolto; aveva notato il passo nervoso e preoccupato del seal mentre si congedava dalla riunione straordinaria indetta dalle massime autorità degli eserciti cobelligeranti. Mark aveva lasciato che il tenente soddisfacesse il suo bisogno di solitudine, il cognato invece si era sentito in dovere di seguirlo; zoppicando lo aveva raggiunto dopo qualche secondo, Christian era più giovane e sano di lui, ma ciò non gli impedì di confortarlo.
«Deve esserci un’altra soluzione per evitare che la base cada nelle loro mani»
Keller, al suo fianco, gettò uno sguardo al prossimo tramonto che stava avanzando nella loro direzione, dipingendo l'orizzonte ma anche l'aria circostante di tonalità calde, infuocate; non replicò, si limitò ad allungargli una fiaschetta - recuperata dalle tasche interne della divisa in parte slacciata - che aveva tutto tranne l’aria di contenere acqua fresca.
«Coraggio, capitano, nessuno rifiuta il whisky tedesco senza pentirsi»
Era stato frainteso, ubriacarsi per evadere dall’incresciosa situazione in cui si trovavano era il suo più grande desiderio, ma allontanò presto la tentazione, non era il  genere di uomo che ovviava ai problemi affongandoli nell'alcol. Il seal fissò la fiaschetta senza realmente scrutarla; la sua vista era attraversata da pensieri più che da immagini.
«Perché il generale Flores avrebbe preso una decisione simile? La base può essere ricostruita, ma gli uomini non possono essere sostituiti»
Lo chiese al colonnello senza la pretesa di ricevere in cambio una risposta, era un'amara constatazione, una velata forma di ammirazione nei confronti di un uomo che li stava guidando nel mezzo di una carneficina; Christian non era a conoscenza del passato che i due condividevano, non sapeva che aveva domandato chiarimenti ad un amico, ad un compagno di gioie e di dolori, Mark per Keller era un fratello.
«Perché ha smesso di vivere anni fa. La morte di mia sorella lo tormenta. Se si fermasse, se non combattesse e si arrendesse, cederebbe ai sensi di colpa»
«È morta per colpa sua?»
«Lui crede che sia così. Capitano, non lo fermi. Mark ha bisogno di vincere la guerra, almeno questa»
Una lacrima sfuggì al controllo del colonnello, il ricordo di Isabel era ancora vivo nel cuore di coloro che l’avevano amata, doleva molto più della sofferenza fisica e dei segni che il tempo aveva lasciato sul suo corpo; gli avevano reciso una parte di gamba sotto la divisa, avrebbe preferito perderle entrambe, pur di rivivere la sorella avrebbe scambiato qualsiasi cosa. Keller avrebbe offerto persino informazioni ai russi per salvare Isabel. Avrebbe tradito la Germania Est o quel che rimaneva della sua dignità; avrebbe voltato le spalle agli americani, i loro aguzzini, coloro che li tenevano prigionieri, ma nessuno aveva mai chiesto un baratto, i sovietici le avevano semplicemente sparato a bruciapelo, senza la possibilità di un addio e di assistere ai suoi ultimi respiri. Lo rincuorava in minima parte che non fosse morta da sola, ma tra le braccia dell'uomo che amava.
«Mi dispiace, colonnello, non ne ero a conoscenza»
«Lo aiuti a salvare quante più vite possibili. Mark se la caverà. La mia unità non ha alcuna intenzione di abbandonare gli alleati»
La vista di Keller non era più da diverso tempo nel pieno delle sue capacità, ma in compenso l'udito si era affinato e riconobbe l'intenso frastuono di una raffica di colpi di mitragliatrice scaricati contro il filo spinato. Il colonnello recuperò l'arma leggera di cui era dotato dalla fondina della sua divisa e intimò con un gesto militare a Christian di prendere la direzione opposta.
«Porti al sicuro il soldato Ward. E, mi raccomando capitano, per l’America non esiti a sparare»
Il generale Flores doveva davvero essere in confidenza con il tedesco per conoscere la sua poca propensione all’attacco oppure era particolarmente empatico e lo aveva compreso scrutando i suoi occhi.

 
San Diego – 12 settembre 2018
 
La notte era il momento peggiore della giornata, il silenzio scendeva sulla villa nella quale i signori Richardson avevano costruito la loro famiglia. Alisia stava trascorrendo ore agitate, era una consuetudine da quando il padre era partito; sul comodino di Christian il regalo della piccola stava prendendo polvere da giorni ormai. La bambina occupava il lato del letto matrimoniale riservato al suo valoroso capitano e lasciava che la madre placasse la sua angoscia. Katherine trascorreva le notti insonni cullando il riposo della figlia; la accarezzava, cercava di colmare l'assenza, ma spesso tutto ciò era inutile e l’alba le sorprendeva in dormiveglia. Ogni oggetto, ogni ricordo, ogni respiro lasciato tra le mura dell'abitazione infondeva la forza necessaria a non cedere alla mancanza e alla preoccupazione. Mancava tutto di Christian, il bacio del buongiorno e della buonanotte, la colazione che non aveva smesso di preparare da quando Katherine era entrata nella sua vita, anzi si prendeva cura della sua famiglia con amore e dedizione. Ora la loro bambina era cresciuta, frequentava la scuola e Katherine non chiedeva nulla più che vivere la normale quotidianità insieme al marito, gestirla insieme a lui. La bagnina rigirò tra le dita affusolate le chiavi di casa che il seal le aveva affidato prima della partenza; nel mezzo del tintinnio - una dolce ninna nanna che favoriva il riposo della piccola - un sobrio portachiavi d'argento scintillava, era stato il regalo di Katherine per il loro nono anniversario di matrimonio; a dicembre avrebbero festeggiato dieci anni di un'unione così felice da sembrare irreale. Lei di certo non si sarebbe mai immaginata di provare un amore tanto intenso e di doverlo dividere con il resto del mondo. Katherine non poteva ignorare chi fosse suo marito, quale impegno si fosse preso prima di lei, un onere che da anni condividevano insieme al loro destino. Si nutriva di ricordi, di baci sospesi, sfiorati, consumati, di parole pronunciate, sussurrate, urlate a mezza voce. Si focalizzava sulla sua voce limpida, libera dal gracchiare della linea telefonica che non aiutava a sentirsi più vicini. Stringeva il prezioso frutto del loro amore, lo custodiva, lo proteggeva dal dolore di una perdita che restava sempre in agguato nelle loro vite.  Ebbe svariate volte la tentazione di comporre il numero di Christian, riversare su di lui l'angoscia che stava provando; non lo fece, si ripeté che lui per primo stava vivendo momenti difficili il cui esito era incerto e non necessitava di ulteriori pensieri. Nascose il viso tra i lunghi capelli della figlia, si sfogò nel calore che Alisia le infondeva, la strinse a sé più forte e lasciò che un pianto silenzioso inumidisse i crini castani della bambina.
Katherine ebbe un sussulto quando il telefono rimbombò tra le mura di casa. La piccola tra le sue braccia si mosse, la madre si premurò di tranquillizzarla e di placare la tensione che catturava perennemente entrambe.
«Papà»
Alisia diede voce agli stessi pensieri della donna, l'atroce pensiero che potesse trattarsi dell'ambasciata si materializzò nella mente di Katherine. La bagnina si congedò dalla figlia porgendole un piccolo bacio nell'esatto punto in cui aveva riversato tutta la sua frustrazione. Non si premurò di calzare le pantofole, scivolò sul pavimento a passo celere per raggiungere la cornetta il prima possibile. Non seppe a quale santo affidarsi, nei giorni trascorsi senza il suo compagno aveva invocato l'intera schiera celeste, qualcuno avrebbe dovuto accogliere le sue suppliche.
«Katherine?»
L'interlocurote dall'altro capo del telefono fu incerto; era appena sorto il sole e ciò che udì fu solo un respiro affannato e angosciato in attesa di notizie che non fossero funeste.
«Fabian. È successo qualcosa? Per quale ragione mi chiami all'alba?»
Era il capitano Hernandez, il collega di suo marito, lavoravano ogni giorno a stretto contattato nel Coronado. Da quando Christian era partito, ormai un mese prima, non lo aveva più sentito né visto; la sua chiamata era insolita, non si trattava dell'ambasciata, ma era preoccupante in egual misura sentirlo.
«Perdonami, ti ho svegliata. Non ho notizie di Christian, credo lo senta più tu. Tranquilla, non sono ambasciatore di pene, anzi credo possa farti piacere quello che ho scoperto»
Il comandante non poteva sapere che Katherine non stava riposando, ma che si era solo appisolata accanto a sua figlia per non abbandonarla nella solitudine e nell'oscurità notturna, cullata dal calore della sua bambina. Fiaban non ricevette alcuna reazione da parte della donna, anzi credeva che avesse smesso di respirare in attesa della notizia, non così fiduciosa sul fatto che fosse lieta.
«Stavamo ispezionando i fondali dell'Oceano insieme ad alcuni sub e abbiamo trovato il relitto di un vecchio aereo segnalato dai radar. Ricordo che Christian mi accennò alla morte dei suoi genitori. Potrebbe essere quell'aereo?»
«Fabian, sono passati più di vent'anni»

«Lo so, ma è in pessime condizioni. Da una prima analisi abbiamo rilevato dei corpi. Non voglio illudere Christian, specie ora che si trova lontano da casa, ma credo ci sia la possibilità di dare degna sepoltura a sua madre e suo padre»


 
Los Angeles – St. Vincent Medical Center, 12 settembre 2018

Le mani di Delilah erano coperte di sangue fresco. La mente della dottoressa stava cedendo alla stanchezza, le ore di concentrazione l'avevano sfiancata; davanti ai suoi occhi scorrevano le immagini degli ultimi vissuti, non era mai successo dopo un'operazione, eppure un conato di vomito la colse, lo trangugiò con resistenza ma la scelta le procurò più male che bene. Era categorico che dovesse allontanarsi dal reparto di cardiologia, uscire diventava la sua unica fonte di salvezza, anche il suo cuore minacciava lesioni permanenti. Correva e non si accorgeva di lasciare orme insanguinate sulle pareti candide dell'ospedale; le era sufficiente svoltare un angolo per raggiungere l'uscita, inalare l'aria fresca di fine estate. Fu un istante che durò svariati attimi; si scontrò con un corpo maschile, imbrattò di sangue una camicia bianca, nel tentativo di evitare il violento impatto e di ammortizzarlo. Delilah uscì dallo stato di trance in cui era immersa, cercò gli occhi del malcapitato per scusarsi nonostante si sentisse al limite della sofferenza; erano iridi a lei familiari, più confortevoli di qualunque altro luogo.
«Com’è andata?»
La dottoressa era incantata dalla presenza dell'ex marito. Era lì davanti a lei, Nathan aveva ignorato la macchia vermiglia che si era allargata sui suoi abiti, era solo in pensiero per lo stato emotivo della donna. Delilah si buttò addosso a lui, gli implorò un abbraccio e dall'altra parte non trovò alcun indugio, soltanto una stretta che fremeva di essere condivisa.


 
Ciao ragazzi!
È trascorso un mese dall'ultimo aggiornamento, il lavoro ha assorbito del tutto il mio tempo, le mie energie e i miei pensieri. Elaboro questo capitolo da un po’, vi ho lasciato tantissima suspance, perciò spero di riuscire ad aggiornare presto e a ritornare nel prossimo capitolo su questioni che avevo lasciato in sospeso nello scorso capitolo.
Grazie di cuore a tutti coloro che non hanno abbandonato questa lettura e hanno atteso con pazienza la continuazione. Siete fantastici e spero di non aver deluso le vostre aspettative <3
A presto!
Un grande abbraccio
-Vale 
   
 
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