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Autore: Genziana_91    16/10/2020    6 recensioni
Circa 20 anni fa nell'Area Sacra di Tarquinia, lontano da tutte le altre aree sepolcrali, fu rinvenuto lo scheletro di un uomo adulto ucciso da un colpo dietro la nuca. Le analisi antropologiche rilevarono che l'uomo, vissuto intorno al VI secolo a.C., avesse viaggiato molto e che avesse un fisico coerente con quello di un marinaio. L'attuale interpretazione da parte degli archeologi è che si trattasse di un sacrificio umano.
In questa breve storia ho viaggiato con la fantasia su chi fosse quest'uomo, cosa ci facesse nell'etrusca Tarquinia, ma soprattutto come fosse finito per morirvi. Buona lettura!
PS. Suri è un dio etrusco liminale, una sorta di Apollo, ma con un forte legame con l'oltretomba.
Genere: Azione, Mistero, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Il mare scintillava pacato nella limpida luce di fine settembre, tutt’uno con il cielo di un azzurro perfetto e imperturbabile. Il porto si disegnava netto sullo sfondo dei monti retrostanti, un profilo ondulato di verde, vicinissimo in quell’atmosfera così tersa. L’uomo sulla nave respirò a fondo e si riempì i polmoni dell’odore salmastro del mare, delle voci lontane e confuse del porto e dell’emozione dell’arrivo in quella terra nuova e piena di colori. Questi ultimi sempre più vividi, mano mano che la nave si avvicinava al molo. Il tufo dominava, con le sue sfumature ora gialle ora grigie, e insieme ad esso un tripudio di blu, bianchi e rossi accesi e vibranti che in lontananza punteggiavano il tempio e il santuario non lontani dal porto.
 
Non ci volle molto ad attraccare, il molo era affollato di inservienti pronti e capaci, così come di altri marinai e mercanti, scaricatori, funzionari puntuali nel registrare, contare, segnare, smistare. Non c’era un angolo che non fosse affollato di gente o di oggetti e voci, grida e risate si ammucchiavano al pari delle persone. L’uomo scese dalla nave con la naturalezza di una vita spesa di porto in porto e si unì alla fiumana di gente che andava verso il santuario. Si guardava attorno con l’occhio acuto di un viaggiatore, sereno. Non sentì il freddo soffio che Suri spirava sul suo collo, né avrebbe potuto in una giornata come quella. Il gruppo di gente al quale si era unito era formato soprattutto da mercanti greci, dall’accento dolce e la parlata musicale, ospiti stagionali del santuario che arrivavano con navi cariche di vino e spezie dall’oriente e ripartivano carichi del prezioso ferro etrusco. Indossavano vesti sgargianti e colorate, si salutavano fra loro, si raccontavano le loro vite e i loro affari, l’aria era allegra e frizzante delle loro risate. Provarono a coinvolgere l’uomo, ma egli preferì rimanere ad osservare, spettatore privilegiato e acuto dell’umanità. Presto i mercanti greci si dimenticarono di lui ed egli divenne invisibile.
Il sacello della dea si intravedeva in fondo ad un grande spiazzo, affollato di banchetti, inquadrato da basse strutture. Qua e là si aggiravano venditori ambulanti di piccoli oggetti in ceramica che qualche visitatore avrebbe fatto iscrivere e dedicato ad Afrodite o a Turan, a seconda della provenienza. Statue ed edifici erano quanto più possibile colorati, coperti di colori sgargianti, macchie di blu, di bianco e di rosso a dare vita agli sguardi immobili delle antefisse e delle statue, a marcare le curve altrimenti piatte delle decorazioni fitomorfe, a ricordare a tutti i greci e agli orientali che passavano di lì che quella era l’Etruria. Tarquinia, una macchia di colori in lontananza sui colli retrostanti, osservava con occhio vigile e attento che ogni cosa fosse al suo posto. Lì, nella terra dei Rasenna, i Greci erano benvenuti.
L’uomo si guardava attorno incuriosito, osservando, registrando e memorizzando tutto, avido di conoscenza, quella ricchezza nascosta e pericolosa a cui ogni animo anela, ma alla quale pochi osano accostarsi. Come il grande fuoco davanti al sacello il sapere incantava e ipnotizzava l’uomo, egli bramava oltrepassare le barriere del conosciuto per addentrarsi là dove la conoscenza umana non arrivava, strappare il velo dell’ignoranza e apprendere dalla fonte prima di tutto lo scibile. Prima o poi avrebbe sfidato il padre degli dei, qualunque fosse il suo nome, ma per quel giorno si sarebbe accontentato di dare uno sguardo all’interno del sacello, là dove solo i sacerdoti e le sacerdotesse potevano accedere e dove si diceva che fosse una pietra terribile e misteriosa. L’uomo aveva sentito di altre pietre del genere, o di manufatti forgiati da esse, e ogni volta si erano rivelate semplici pietre. Belle, nere e lucenti, ma pur sempre pietre. Forse questa sarebbe stata diversa, forse no, era lì per scoprirlo. Alzò lo sguardo su una di quelle grandi statue che svettavano sul tetto del tempio e gli rispose il sorriso immobile di un dio al quale non seppe dare nome.
 
Quella notte era luna nuova e il buio era impenetrabile nel santuario. Il colori e il frastuono erano un’eco lontana un’era, seppur un’era durata giusto poche ore. Una torcia ardeva davanti al tempio, i passi lenti e assonnati della vigilanza notturna rimbombavano di tanto in tanto, un gufo in lontananza faceva il suo verso inquietante e senza tempo. Ombra tra le ombre, l’uomo si avvicinò al tempio e agile e invisibile si arrampicò sul tetto. Si soffermò alle spalle della statua del dio senza nome, la cui figura si stagliava alla debole luce della torcia poco più giù e gli sembrò che fosse un segno, anche se non capì che cosa volesse dire né come. Sentì solo la ruota delle Moire tessere e ordire.
Scivolò agile sulle tegole, si aggrappò all’antefissa a testa di donna e ricambiò il suo sguardo immobile, poi si dondolò nel sottotetto e fu dentro.
Nel vano buio e fumoso, impregnato dell’odore degli incensi, si aprivano tre porte, quella centrale più grande, dove si ergeva il simulacro della dea. L’uomo si guardò attorno, seguì l’istinto e si avvicinò alla statua alta, bella, opera mirabile di umano ingegno. La guardò negli occhi, argilla e pittura, e seppe che ciò che cercava non era lì.
Dietro di essa, tuttavia, si apriva un piccolo vano, ancor più buio del buio, dal quale veniva un alito di freddo e umidità. Si calò all’interno e atterrò su un pavimento di terra battuta, in un piccolo corridoio sul fondo del quale vibrava incerta la fiammella di una lanterna.
Lei era proprio là. L’uomo trattenne il respiro.
Baluginii di luce danzavano su una statuina non più grande di un pugno, lucida e nera, arcana ed eterna, dalle forme abbondanti di una dea antica quanto l’umanità stessa. L’uomo non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, avvolto egli stesso da quell’oscurità solida, quella pozza di eternità, un’antica madre pronta ad accogliere un figlio a lungo atteso. Si protrasse a sfiorarla e fu risucchiato in vortice nero e vibrante, un pozzo profondo e oscuro più del mare colore del vino, caldo come il sangue che pulsa e affilato come la lucida ossidiana. I secoli e le ere colmarono il suo cuore avido, il primigenio sgomento dell’uomo di fronte all’immensità della natura annullato in un solo ed immenso attimo di pura conoscenza.
 
Il mattino dopo il santuario si risvegliò nel consueto andirivieni di lingue e colori. Il mare scintillava pacato, Tarquinia dominava paciosa e sicura di sé e il dio senza nome sorrideva ancora, ora compiaciuto. Nessuno tra i rumorosi mercanti notò il silenzioso affrettarsi di un paio di sacerdoti, né del cipiglio preoccupato della grande sacerdotessa, meno che mai dell’assenza del silenzioso e solitario straniero.
 
Alcuni mesi dopo voci confuse, pettegolezzi da taverna riferirono di un uomo morto trovato ai piedi della dea nella grande cella, secondo alcuni con il petto aperto, o addirittura il cuore strappato, o semplicemente morto senza spiegazioni, o ancora solo con gli occhi cavati. Nessuno seppe mai cosa fosse davvero successo, neanche la sacerdotessa che quel mattino trovò l’uomo con il petto squarciato e gli occhi cavati abbracciato, in un’ultima, disperata supplica, alle ginocchia della misericordiosa Turan. Lo seppellirono vicino al tempio, come un dono votivo al grande dio dal sorriso enigmatico.  
 
Un tributo voluto da Suri.
   
 
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