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Autore: Bibliotecaria    17/10/2020    2 recensioni
In un mondo circondato da gas velenosi che impediscono la vita, c’è una landa risparmiata, in cui vivono diciassette razze sovrannaturali. Ma non vi è armonia, né una reale giustizia. È un mondo profondamente ingiusto e malgrado gli innumerevoli tentativi per migliorarlo a troppe persone tale situazione fa comodo perché qualcosa muti effettivamente.
Il 22 novembre 2022 della terza Era sarebbe stato un giorno privo di ogni rilevanza se non fosse stato il primo piccolo passo verso gli eventi storici più sconvolgenti del secolo e alla nascita di una delle figure chiavi per questo. Tuttavia nessuno si attenderebbe che una ragazzina irriverente, in cui l’amore e l’odio convivono, incapace di controllare la prorpia rabbia possa essere mai importante.
Tuttavia, prima di diventare quel che oggi è, ci sono degli errori fondamentali da compire, dei nuovi compagni di viaggio da conoscere, molte realtà da svelare, eventi Storici a cui assistere e conoscere il vero gusto del dolore e del odio. Poiché questa è la storia della vita di Diana Ribelle Dalla Fonte, se eroe nazionale o pericolosa ed instabile criminale sta’ a voi scegliere.
Genere: Angst, Azione, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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2. Meddelhock

 
La città era enorme, ma mi parve immensa e aliena, c’erano delle zone con uffici e grattacieli nuovi di zecca, altre con vecchie industrie e case di qualche decennio fa, e, ovviamente, il centro storico dove si trovavano rovine risalienti alla prima era che si fondevano con diversi monumenti della seconda era; poco più in là c’era la via del mercato, il cuore pulsante della città, in cui, oltre ad uffici pieni di commercialisti, avvocati e imprenditori, si trovavano innumerevoli negozi, università, musei e svariati edifici storici della terza era, nella cerchia più esterna c’erano le trentaquattro vie più malfamate della città, in cui, si diceva, vi fossero addirittura delle organizzazioni terroristiche oltre a quelle mafiose a cui credevo solo perché alle volte ascoltavo i discorsi dei miei genitori quando non avrei dovuto e li avevo sentiti molto preoccupati riguardo a rapine ad armerie. In quel periodo non c’erano mai state dichiarazioni pubbliche a tal riguardo perché non avevano mai causato gravi danni ma a molti era oramai chiaro che presto o tardi sarebbe stato necessario un intervento da parte della S.C.A. per risolvere il problema delle innumerevoli bande che si erano formate in quel decennio.

La nostra nuova casa si trovava, come la nuova scuola e l’ufficio dei miei, nella parte nuova della città al diciottesimo piano del grattacielo quarantadue. L’intero piano era nostro. C’era la palestra, un bagno con doccia immenso, la mia camera che era due volte quella di prima, la stanza dei miei altrettanto ariosa, un vero soggiorno, una vera cucina e una vera sala da pranzo. Tuttavia superato lo stupore iniziale la tristezza riaffiorò. Nei giorni successivi al trasloco passai quasi tutto il tempo in camera: un po’ per sistemarla, un po’ per la depressione, giacché quando mi diedero il grammofono rimase acceso per le due settimane successive. I ragazzi mi chiamavano ogni tanto dai telefoni pubblici (ricordo ai lettori più giovani che all’epoca i cellulari non erano neanche un’idea e che possedere un telefono in casa per gli Altri in campagna era un lusso che non ci si potevano permettere) ma mi sentivo comunque sola. Mia madre insisteva sul fatto che quando avrei iniziato la scuola le cose sarebbero migliorate e temo che nessun genitore sbagliò tanto nella storia.

Il 7 gennaio 2023 della terza era iniziò la giornata che in futuro avrei definito come l’inizio di una grande amicizia e un grande sbaglio, però all’epoca lo definii come il giorno peggiore dei miei diciassette anni di vita. Arrivai a scuola che non c’era anima viva, solo due agenti di polizia per quelli che presto avrei scoperto essere i soliti controlli di routine. Stavo per superarli quando il primo agente mi bloccò. “Ragazza, documenti, e metti qui lo zaino, ti dobbiamo perquisire.” “Che?” Feci io confusa dal atteggiamento. “Ma che pazzia è mai questa?” Domandai mentre tiravo fuori il portafoglio dove tenevo sempre il documento nella stessa tasca ma quel giorno non lo trovai e solo allora mi ricordai che per il trasferimento mi avevano temporaneamente preso il documento per un aggiornamento, guardai le altre opzioni e ce n’era solo una che presentava una mia foto. “Sentite agenti il documento non ce l’ho me, l’hanno ritirato per…” Il secondo agente si intromise prima ancora che potessi concludere il discorso. “Ma avrai qualcosa che ti possa identificare?” Sopirai e, a malin cuore, tirai fuori il documento per l’importo d’armi non letali. “Cosa?” Esclamò il primo agente iniziando a perquisire il mio zaino e vi trovò uno spray orticante grande quanto una bomboletta, che teoricamente doveva essere d’uso esclusivo delle forze dell’ordine e un coltello da cucina per la mia merenda, ciò che però gli fece veramente storcere il naso fu la sacca ermetica vuota generalmente con ancora qualche residuo sangue oramai secco. Non feci in tempo a chiedermi da quanto tempo fosse lì che i due agenti si guardarono perplessi tra di loro, abbassarono lo sguardo sulle pericolosissime armi e in fine lo posarono su di me, in tutta risposta sorrisi come una schema al loro sguardo omicida.

Due minuti dopo ero in presidenza lo zaino sopra la cattedra, le armi letali di massa lì affianco e una preside che pareva più un militare da come mi guardava. “Signorina Dalla Fonte.” Iniziò la donna con un tono autoritario che mi fece capire che d’ora in avanti sarei stata etichettata come la deviante. “In questa scuola, come in tutte quelle civilizzate, portare armi letali o meno con o senza importo d’armi è proibito così come lo spaccio di sangue.” Mi spiegò guardando con disgusto la sacca ermetica. “E non solo in ambito scolastico. Quindi se vuole sopravvivere in questa scuola le consiglio vivamente di togliersi quell’aria da… qual è la parola che sto cercando… ribelle e di mettere la testa sulle spalle: poiché qui per essere promossi non bastano i voti sufficienti ma anche il rispetto delle regole pertanto chiamerò i suoi genitori perché prendano provvedimenti a tal riguardo.” Sbuffai, sinceramente mi aspettavo di peggio. “Faccia pure ma se li chiama ora li raggiungerà domenica prossima quindi lo dica direttamente a me così si risparmia una quarantina di chiamate. Fino a quando non mettono il numero della scuola trai numeri da filtrare le consiglio di non provare neppure a chiamarli al lavoro.” Le spiegai a braccia conserte. “Molto bene, comunque signorina Dalla Fonte credo sia il caso di mettere in chiaro tutte le regole, scritte e non presenti in questa scuola, per evitare che vi sia un altro… la parola… fraintendimento.” Da lì la preside iniziò a elencarmi una serie di norme del regolamento scolastico: sia quello standard sia la lunga serie di leggi non scritte di quella dannata scuola. L’operazione durò trenta minuti di noia totale e una volta conclusasi la simpatica riunione mi ritrovai a vagare per i corridoi per cinque minuti fino a quando non riuscii trovare l’aula di scienze, entrai senza bussare, una ventina di occhi si voltarono verso di me. “Salve, sono Diana dalla Fonte la vostra nuova compagna.” Mi sentii imbarazzatissima, non mi presentavo più così dall’asilo. “Signorina Dalla Fonte da queste parti si usa essere puntuali e bussare.” Disse il professore con quella ridicola aria autoritaria caratteristica dei professori amorevolmente definiti stronzi. “Mi scusi, la preside mi ha trattenuta nel suo ufficio per più tempo del previsto. E le prometto che mi rammenterò di bussare d’ora in avanti.” “Bene, si accomodi.” Lanciai una rapida occhiata alla classe, c’erano tre posti liberi: uno vicino a un secchione, in primo banco, l’altro accanto a quella che pareva una pettegola dato che da quando ero entrata mi stava scannerizzando e confabulando qualcosa con la ragazza davanti, l’ultimo: infondo alla classe, c’era un ragazzo chiaramente annoiato. Mi sedetti accanto a quest’ultimo, odiavo stare primo banco e allo stesso tempo volevo poter seguire la lezione senza un brusio continuo. Tutti mi fissavano con occhi strani: sembrava che avessi compiuto un abominio sedendomi accanto a lui. Mi domandai cosa ci fosse di strano, ma me ne resi conto quando incrociai il suo sguardo: quegli occhi felini e azzurri come il ghiaccio che parevano brillare d’una particolare fluorescenza lasciavano poco spazio all’immaginazione, era un vampiro e pareva seccato dal fatto che mi fossi seduta accanto a lui. Decisi di ignorare i loro sguardi e di recuperare il libro. Il professore riprese la lezione e tentai di seguirla ma tutti non facevano altro che fissarmi e studiarmi come un nuovo giocattolo. A fine lezione guardai l’orario per scoprire la successiva materia: storia. Il mio compagno di banco stava già per andarsene ma gli feci una voce. “Ehi! Che hai ora?” Non rispose subito quasi come se fosse finito sotto shock. “Fisica, perché?” “No, è che essendo il mio primo giorno non ho la più pallida idea di dove sia l’aula di storia.” Mi giustificai. “Secondo piano terza aula a sinistra. Devi prendere le scale alla tua sinistra.” Sorrisi in risposta. Inutile dire che mi persi, e mi annotai di non chiedere mai più chiedere le indicazioni a quel ragazzo dato che ero finita nel aula di dattilografia, si alcuni corsi avevamo ancora questa materia, in conclusione arrivai con dieci minuti di ritardo a lezione. Ero tutta affannata quando entrai, dopo aver bussato. “Scusi mi sono persa!” La professoressa era chiaramente furiosa. “Iniziamo bene signorina.” Quella donna non immaginava quanto. “È anche la ragazza nuova, bene, visto che è il suo primo giorno la interrogo.” “Cosa!?” Esclamai stridendo la voce. “Ma prof sono appena arrivata!” Cercai di giustificarmi. “Per tanto si sarà preparata. Avrà studiato le pagine che le mancano?” L’ira prese il sopravvento. “Ho appena avuto il tempo di aprire il libro! Non può farmi questo ca…” Mi cucii la bocca, l’avevo fatta grossa. “Se non vuole una nota disciplinare sul registro il primo giorno di scuola le consiglio vivamente di sedersi e di lasciarsi interrogare.” Buttai lo zaino accanto ad una ragazza in secondo banco, afferrai la sedia vuota e mi misi accanto alla cattedra, il tutto il più rumorosamente possibile. Come da programma ottenni un cinque molto tirato. “Cosa le insegnano in campagna? La Rutaka?” Fui tenta di spiegarle che quello stupido gioco era tratto da una poesia creata nella zona di Fiumi, ma me ne restai zitta. “Vada!” Appena mi sedetti sibilai ciò che mi stavo trattenendo dentro da venti minuti. “Stronza.” Mentre sentivo gli occhi di tutti addosso, mi voltai verso la mia compagna di banco e mi accorsi che era una fauna.
Conclusasi l’ora mi diressi verso la palestra dove mi sarei allenata con l’intero quarto anno. Fui veloce a cambiarmi: un po’ per l’abitudine e in parte per evitare gli sguardi e i commenti che mi seguivano dalla mattina. “Che strana. – Ho sentito che viene dai Fiumi. – Non sembra del posto. – Suo padre e sua madre devono venire da regioni diverse. – Già, ha la pelle dei meticci, sul dorato caffè latte. – Insolito.” Sapevo che la mia pelle e i miei lineamenti erano strani, ma con il retaggio multietnico che avevo era difficile altrimenti: occhi grandi, tratti squadrati e marcati simili ai nomadi del deserto, capelli della gente del nord, pelle scura dorata e un fisico robusto. Inspirando scacciai via il peso dei giudizi inutili, facevano tanto i sorpresi solo perché la mia combinazione era strana, ma c’erano talmente tanti umani multietnici che mi pareva ridicolo commentare ancora questa cosa.

Raggiunto il campo il professore ci divise in otto squadre e mi posizionò come capitano d’una di queste poiché sapeva che facevo parte di una delle squadre che aveva raggiunto gli ottavi di finali interscolastici l’estate scorsa. Mi guardai attorno e scelsi a naso i membri della mia squadra, selezionai i due ragazzi con cui mi ero seduta accanto, con l’intento di essere carina e socializzare, poi scelsi due ragazzi che parevano vagamente atletici e un ragazzo, un licantropo intuii dal modo in cui tutti mi fissavano male, che era rimasto tra gli ultimi assieme ai ragazzi sovrappeso e un ragazzo con degli occhiali così spessi da fare impressione. Quest’ultimo diede il cinque al ragazzo dell’aula di scienze e appoggiò una mano sulla spalla della ragazza dell’aula di storia quando si unì a gruppo. Tutti ci fissavano, iniziai a credere che fosse lo sport universale della scuola. “Scusate l’assenza di nomi ma sono pessima a memorizzarli. Allora la strategia d’attacco è questa: occhi-neri e moretto, stanno a tre quarti del campo e fanno il primo attacco, riccia e barbuto avanzate al contrattacco degli avversari e cercate di afferrare le palle al volo, per quanto riguarda me e occhi-azzurri stiamo ai lati e attacchiamo durante il loro contrattacco. Ci sono domande?” Tutti si guardarono perplessi. “Ti rendi conto che dovremmo vedercela con quei bestioni della squadra? Come pensi che loro.” Disse indicando il licantropo e la fauna “Possano fermare i proiettili di quelli là?” Gli lanciai uno sguardo omicida che parlava da solo e si ammutolì. “Molto bene allora… Andremo per vincere.” “Sempre!” Sussurrò la ragazza con un mezzo sorriso che si spense e le orecchie caprine abbassarsi quando vide le facce irritate dei suoi due amici. I due umani si guardavano perplessi; non sapevano che per gli Altri questo era una esclamazione che si usava dire prima di una competizione contro noi scimmie-nude, me l’avevano insegnata quando ero piccola ed era diventata una frase che dicevo sempre come portafortuna prima di una partita ai tempi della scuola. L’arbitro fischiò per dare inizio alla partita di palla-avvelenata, venti minuti dopo la vittoria fu nostra. “Sì!!!” Urlai in preda all’eccitazione. “Siete stati grandi! Abbiamo vinto!” “Tutto merito tuo.” Disse la fauna dai capelli castano chiaro e ricci. “Ora che ci penso non ci siamo ancora presentati. Io sono Felicitis, quel occhi-azzurri è Nohat e il barbuto è Giulio.” “Piacere di conoscervi, Diana.” Strinsi loro la mano e mi sedetti vicino a loro mentre guardavamo gli altri giocare. Finche guardavo le altre squadre seguii il discorso dei ragazzi della squadra della scuola. “Quella Diana che faccia tosta. - Ho sentito dire che è entrata a scuola con delle armi. - Per me è malata. - Ovvio che è pazza. - Quale persona sana di mente li avrebbe chiamati tutti e tre? - Già ha rischiato grosso. - Scommetto che ha dovuto spiegare quelle strategie duecento volte. - Non mi stupirei infondo gli Altri non sono molto intelligenti.” Persi la pazienza. “Adire il vero l’ho dovuto spiegare solo una volta e, per dirla tutta, una strategia per quanto vincente non funziona se ogni componente non ha spirito di iniziativa.” Risposi con un tono che era una via di mezzo tra la beffa e la minaccia. “Sta’ zitta. Anzi sta’ lontana da noi sei pazza e non voglio che la passi anche a noi. Ma in fondo non è colpa tua sono stati gli Altri a passartela.” Risero un secondo, una nebbia avvolse la mia mente. Afferrai il collo del ragazzo con la mano sinistra scaraventandolo a terra, spinsi via i suoi compagni con due calci, e lo immobilizzai con il busto. “Non. Ti. Azzardare. A. fare. Un. Commento. Simile. In. Mia. Presenza…. Sono stata chiara?” La mia voce era bassa, decisa ma al con tempo tremante, sentivo gli occhi inumiditi dalle lacrime, il mio corpo fremeva dalla rabbia con piccoli scatti e i miei occhi esprimevano ira e odio allo stato puro. Lui tra un sospiro e l’altro con lo sguardo pieno di terrore e stupore parlò. “Tra… trasparente.” Mollai la presa e lentamente mi rimisi a sedere. Il professore non si era accorto di nulla, era troppo preso da controllare due ragazzi che stavano prendendo di mira uno dei ragazzi della squadra avversaria. Per il resto del tempo non sentii nulla a parte il mio cuore che urlava di voltarsi e di picchiare a sangue lui e i suoi amici. Pensai che se lo sarebbero meritato, che avrei fatto bene a picchiarli, ma mi trattenni fino al suono della campanella, mi alzai e corsi verso l’aula di diritto appena mi fui cambiata e come sempre in quelle ore di lezione sopportai gli insulti indiretti fatti agli Altri. Se vi state chiedendo perché trai tanti indirizzi avevo scelto l’economico-sociale è semplice: volevo diventare avvocato di difesa e sperare di cambiare qualcosa. Tornai a casa con lo sguardo perso, depresso e umido dalle troppe lacrime trattenute. Cercai di distarmi buttandomi sullo studio ma non funzionò granché mi erano rimaste impresse le facce dei tre ragazzi quando mi avevano visto reagire: sconvolte e curiose. I miei amici non scherzavano dunque quando dicevano che nelle grandi città il divario è addirittura più sentito.

Verso le sette stavo mangiando coi miei genitori, i quali, tanto per cambiare, non fecero altro che parlare dei nuovi attacchi degli Altri. Io non ascoltavo, mi limitavo ad ammiccare di tanti in tanto, tutto intorno a me era ovattato da una nube di pensieri. Tornata in camera misi su la musica e riuscii finalmente a buttare fuori le lacrime che da settimane premevano per uscire. Mi mancava la mia Lovaris, mi mancavano i miei compagni, e mi mancava casa mia. Verso le dieci e mezza mi addormentai con le guance e gli occhi rossi dal troppo pianto.

Il giorno dopo a scuola tentai di parlare con i ragazzi con cui avevo fatto squadra il giorno prima, ma come mi vedevano si allontanavano guardandomi con pietà e remissione, non compresi appieno il loro atteggiamento fino a pranzo dove ebbi la pessima idea di fermarmi alla mensa della scuola. Subito vidi il gruppetto che avevo pestato giusto il giorno prima avvicinarsi a me con qualche elemento in più tra cui un ragazzo del ultimo anno che doveva essere quanto meno il doppio dei suoi compagni, era così alto e ben piazzato che per poco non mi parve di avere davanti Oreon se non fosse stata per l’assenza, dei quattro zoccoli, di quel manto da baio marrone-dorato, dei capelli-criniera e la coda d’un marrone molto scuro. “È lei la ragazza che vi ha picchiati?” Domandò lui ai suoi amici che accennarono un sì nervoso. “Tu sei la novellina, giusto?” Domandò il ragazzo. “La novellina avrà piacere a risolvere il diverbio fuori di qui tra mezz’ora, vi darò la ripassata.” “No, bella, tu non hai capito: da queste parti c’è una legge naturale molto chiara che forse hai dimenticato.” Mi disse lui. “Ovvero quale? Che le donne non possono pestare gli uomini?” Domandai continuando a mangiare tranquillamente. “No, che gli Altri odiano gli Umani e gli Umani odiano gli Altri. Quindi o sei un Altro travestito da Umano o sei tanto scema da considerare gli Altri tuoi amici.” Disse lui con le classiche movenze da bullettino, era ridicolo, quasi scimmiesco. “In entrambi casi sei un abominio contro natura.” Mi alzai con calma dal tavolo e lo guardai dritto negli occhi. “Uno: la suddetta superiorità dell’Umanità è esclusivamente legale, non ci sono studi scientifici validi che possano sostenere la tua accusa. Due: contro natura siete voi che non rispettate le leggi dei simboli che portate.” Dissi indicando il sole e la luna che il ragazzo portava ad una catenina. “I testi dicono che il Sole e la Luna diedero a tutti i loro figli doni diversi per sopravvivere nella terra benedetta. Non si parla di superiorità di nessuna razza nei testi. E ti ricordo che all’inizio della prima era molti umani, assieme ad altre specie, erano per lo più schiavi di orchi, demoni, vampiri e licantropi, e da quel rapporto è nata la tradizione donare ciò che resta del nostro cadavere a chi si nutre di componenti umanoidi. Per giunta secondo la nostra religione solo se il corpo viene assorbito da altri esseri viventi continua a vivere, quindi orchi, vampiri, demoni e licantropi, essendo gli unici a riuscire a mangiare questi componenti senza risentirne, sono fondamentali.” Il ragazzo mi guardò con odio. “La religione dice anche che solo i più forti possono stare al comando. E sono stati gli uomini a vincere nella guerra in questa era.” Disse lui irritato. “Questo comunque non giustifica il tuo ragionamento. Ed è vero, solo i più forti dovrebbero comandare, ma se guardi il nostro governo noterai che è pieno di inetti e sfruttatori e comunque non è alla forza bruta quella a cui si riferiscono le scritture, ma alla forza della guida, di chi riesce a guidare i popoli. Non a tiranni che usano un fatto avvenuto duemila anni fa come scudo per giustificare la loro azioni.” Controbattei. “Ma dovrai ammettere che finora nessuno ha mai alzato la testa per ribellarsi e i pochi che ci hanno provato sono finiti sulla forca o peggio. La verità è che a quella gentaglia piace essere dominata. Poiché da soli non saprebbero dominarsi.” A quel punto non seppi come reagire o rispondere civilmente, così adoperai la mia rabbia e dopo averlo fissato negli occhi per un secondo lo colpii con la fronte al naso rompendoglielo e facendo schizzare sangue d’ovunque. Il ragazzo si piegò in due cercando di bloccare il flusso di sangue e nel frattempo io dicevo frasi sconnesse urlandogli quanto fosse debole e quanto la sua mente fosse ristretta. Venni attaccata dagli altri membri della cricca ma vennero stesi a terra doloranti pochi minuti dopo.

Finii dalla preside la quale mi diede un mese di punizione in cui avrei dovuto pulire i bagni. I miei furono furiosi quando lo scoprirono, tanto furiosi che io e mio padre arrivammo ad urlarci in faccia e poi arrivammo alle mani. Non accadeva molto spesso, ma io e mio padre avevamo lo stesso temperamento aggressivo ed esplosivo che fin da piccola mi aveva portata ad avere un contrasto costante con lui su qualsiasi argomento: fosse la paghetta, la scuola, il mio carattere, le mie amicizie o i miei ideali arrivavo sempre ad un punto in cui non riuscivo più a trattenermi e arrivavo alle mani con mio padre. Da piccola per lo più finiva con io che tentavo di dagli un pugno e mio padre mi bloccava i movimenti e mi chiudeva in camera, ma negli ultimi anni era successo qualcosa di estremamente banale ma essenziale: io ero cresciuta e lui era invecchiato. Così adesso combattevamo praticamente alla pari e ci pestavamo pesantemente urlando le nostre idee con così tanta forza che mia madre non sapeva più che fare poiché ad iniziare con i pugni ero sempre io e mio padre non si limitava a bloccare ai miei pugni, rispondeva. Quel giorno uscimmo da quel litigio con qualche livido un occhio nero e un dente scheggiato, ma mia madre fu talmente furiosa con entrambi che mise me in punizione per due mesi, e spedì papà a dormire in soggiorno per altrettanto tempo e non gli rivolse la parola per quasi più di un mese, lo minacciò anche di divorzio quella volta. Alla fine non divorziarono ma mia madre fece giurare a me e a mio padre che non ci saremmo mai più presi a pugni in quel modo. Volle che io seguissi una terapia, ricordo che quando ero giovane era una vergogna e l’ammissione di aver problemi seri, non funzionò e non durò a lungo dato che stavo zitta per tutto il tempo: non mi era mai piaciuto parlare dei cazzi miei, come li definivo all’epoca, ma a ripensarci adesso non mi avrebbe fatto male, avrei potuto capire meglio l’origine di quella rabbia che mi bruciava dentro da quando ero bambina. Comunque da quel episodio nessuno mi rivolse più la parola: facevo loro troppa paura e disprezzavano le mie idee, due buoni motivi per diventare un’emarginata sociale.

Fu la prima volta in vita mia che mi ritrovai senza appoggi da nessuna parte. Casa mia pareva essere diventata una prigione visto che i miei genitori avevano perso tutta la fiducia nei miei confronti. Non conoscevo nessuno in città o a scuola e per la prima volta in vita mia tutti quelli che mi circondavano erano estranei, nella mia città non è che conoscessi tutti, ma ovunque andassi avevo l’ottanta per cento di probabilità di incontrare un mio amico o conoscente, a Meddelhock invece ero una totale estranea circondata da estranei. Per dipiù quelle poche volte che mi ero addentrata per la città per motivi estranei dal andare a scuola mi sentivo schiacciare dal flusso continuo di formiche laboriose e dalla presenza in ogni angolo di umani, quando ero abituata ad essere circondata da almeno quindici razze sulle diciassette che popolano il nostro mondo. Mi sembrava di essere capitata in un altro mondo, un mondo in cui c’erano solo umani, eppure sapevo perfettamente che la razza umana comprende solo il quaranta per cento della popolazione e il restante sessanta per cento veniva diviso da altre sedici razze visto che i numeri della popolazione dei troll sono indefiniti a causa dei numerosi villaggi dispersi e ignoti sulle montagne a nord-est. Passai mesi successivi nel isolamento e visto che per la bellezza di due mesi non potei ascoltare la musica neppure alla radio passai il mio tempo a leggere libri, volantini di varia natura e giornali, non che avessi molto altro da fare, ero sempre stata veloce a fare i compiti quindi avevo molto tempo per annoiarmi a morte e pensare, in realtà le due cose vanno a braccetto se ci si pensa. Andavo dallo strizza cervelli, ma solo da una volta a settimana ed era impossibile determinare chi fosse il meno interessato, alla fine i miei genitori si arresero e non mi fecero più andare da quel incompetente, non dirò il nome ma diciamo che un decennio più tardi finì coinvolto in un grosso scandalo.

Passati i due mesi, per mia fortuna, riottenni il diritto di ascoltare musica e radio, inutile dire che già da marzo tutti i canali erano impazziti per via della scoperta di una nuova arma, una bomba da quel che avevo capito, ma non ci badavo troppo, ero presa dalla mia buon vecchia musica per badare ai radio-giornali. Ma a cena li ascoltavo, e avevo notato che i casi di rapine ad armerie era aumentato. “Stanno preparando una guerra tra clan.” Mi aveva detto mio padre. “Saranno i soliti disperati. Tra una settimana li troveremo.” Dissi mia madre, avevano sbagliato in pieno i suoi calcoli: ci volle molto più di una settimana per trovare quei rapinatori, e quella che si preparava non era una semplice lotta tra clan avversari.
   
 
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