CICLONE
Ghiaccio.
Da quando da
ragazzina ti eri trasformata in una giovane
donna, era sempre stato a questo elemento che ti avevano accomunata. Frigida,
algida, regina dei ghiacci erano solo alcuni di quei termini
che guizzavano
veloci sulle labbra di chi ti credeva abbastanza lontana
perché potessi udirli,
quanto si sbagliavano.
“Lo
so io di cosa avrebbe bisogno per sciogliersi un
po’…”
Tronfi, sciocchi,
illusi: non lo sapevano che il ghiaccio poteva
bruciare come e più del fuoco? Erano sempre loro a
sciogliersi alla fine.
D’altra parte, quando il fato aveva deciso di toglierti
tutto ad appena sedici anni, avevi solo due scelte di fronte a te:
amare
in
maniera spassionata quella vita che ti era rimasta e affrontare con
trasporto ogni
momento che essa avrebbe potuto regalarti o decidere di ripararti sotto
un’armatura lucente di gelo per caricare dritta verso il tuo
obiettivo.
La prima via l’aveva imboccata tua sorella, più
giovane di
te, già sposata e con una figlia in arrivo; la seconda era
la battaglia che avevi
ingaggiato tu con il mondo, con quello che ti aveva tolto e che cercavi
in
tutti i modi di riprenderti, portandoti a diventare uno dei
più conosciuti
giovani architetti del nuovo millennio e, di sicuro, la
più famosa.
Per questo quando
l’avevi incontrato, nella sala da pranzo
di quel business hotel di un paese lontano, lui sapeva esattamente chi
fossi tu
ma tu non avevi la più pallida idea di chi fosse lui.
Se tu eri ghiaccio, lui era vento che, con occhiate distratte,
sferzava e metteva a dura prova, con apparente noncuranza, ogni tua
protezione.
Quando arrivava in un luogo, l’aria diventava improvvisamente
più frizzante e
chiunque entrava in contatto con lui sembrava immediatamente
beneficiare del
suo buon umore. Una volta, raggiunto di corsa l’ascensore, vi
avevi trovato
solo lui dentro, ti aveva sorriso ed era rimasto in silenzio per il
resto
del breve tempo passato assieme: non ti aveva approcciato, nessuna
smodata
galanteria, semplicemente un saluto gentile quando era arrivato al
piano
giusto.
Nel momento in cui ti eri ritrovata a pensare che fosse, sì,
un tipo carino ma fin troppo comune – con i corti capelli
castani un po' scompigliati e gli occhi
del medesimo colore – dentro di te già sapevi di
mentire.
Poi l’albergo aveva deciso di organizzare una serata con
musica dal vivo e una piccola pista da ballo, il tutto a contorno di
una cena
tipica per allietare il soggiorno di un nutrito gruppo di ospiti che ci
teneva a conoscere le loro usanze finendo, per forza di
cose, col
coinvolgere tutti.
Era stato allora che ti aveva avvicinato, sola al tuo
tavolino, si era presentato da te – il completo elegante
scuro che indossava, a
differenza della sua solita tenuta casual, gli donava un certo fascino,
dovevi
ammetterlo – e, guardandoti dritto negli occhi, ti aveva
chiesto «Ti va di
ballare?»
Era stato subito informale, non ti aveva salutato né si era
presentato… che
modi erano quelli?
Avevi preso un sorso dal tuo flûte senza degnarlo di uno
sguardo e solo
successivamente avevi posato gli occhi azzurri su di lui, taglienti
«Io
non ballo»[1]
La tua voce era stata una stilettata di ghiaccio, capace di
far desistere anche il più agguerrito dei marpioni ma lui
non si era scomposto,
anzi, aveva sorriso e ti aveva risposto «Nemmeno
io»
E tu, incredibilmente, avevi riso. Così, quando lui ti aveva
ripetuto la domanda, avevi cambiato tono e, sottovoce,
gli avevi detto
«Sì»[2]
Ti aveva sfiorata appena e la
sua mano posata su di
te, ad un’altezza consona, era stata come
una brezza leggera e aveva
provocato un brivido sulla tua schiena. Più
che ballato avevate
ondeggiato e parlato moltissimo, in questo modo avevi scoperto che il
suo nome
era Jackson, Jack, Overland e che era un fotografo
freelance. Entrambi
eravate lì per lavoro, più o meno
coetanei e, ad esclusione del
personale, i più giovani di tutto
l’albergo.
Parlare con lui aveva l’incredibile potere di confondere le
tue difese perché, a differenza di molti altri
uomini, non avvertivi
alcun tipo di minaccia e questo ti mandava in crisi più che
l’avere di fronte un
perfetto stronzo. Aveva un tono colloquiale ma rispettoso, era
divertente e ti
trattava da pari, nei suoi complimenti non c’era adulazione
ma sincera
ammirazione.
La fine della serata era arrivata - forse troppo presto?
– e in quell’ascensore lui ti aveva
semplicemente ringraziata del tempo che
gli avevi concesso, ti aveva augurato la buona notte e ti aveva
lasciata
proseguire la corsa verso il tuo piano senza, però, staccare
gli occhi dai tuoi
fino al chiudersi delle porte. Alla sensazione che ti era cresciuta nel
petto
non avevi saputo dare un nome.
Da quel momento, ti aveva trascinata inesorabilmente in un
turbine di emozioni che, per te, potevano riassumersi con una parola
soltanto: follia.
Eppure non riuscivate a fare a meno di cercarvi: gli
aperitivi divennero cene e le cene una bevuta a bordo piscina prima di
andare a
dormire.
Una sera i vostri
impegni vi tennero divisi. Quando
rientrasti, in piena notte, dalla serata di presentazione ufficiale del
grosso
progetto a cui stavi partecipando, per poco non ti cadde la pochette di
mano
nel ritrovartelo davanti alla tua camera, di nuovo elegante, ti stava
chiaramente aspettando.
«Domani pomeriggio parto» ti aveva detto, tu non
gli avevi
risposto, lo avevi superato, aperto la porta alle sue spalle e lo avevi fatto entrare.
Con una mano ti eri tolta le scarpe, perdendo quei
centimetri che avevi guadagnato su di lui e, dopo aver chiesto un muto
consenso
di cui non aspettasti nemmeno la risposta, slacciasti il suo papillon e
glielo
sfilasti dal collo, poi fu il turno di fargli scivolare dalle spalle la
giacca
scura e, bottone dopo bottone, liberarlo della sua camicia chiara. Il
suo
torace era definito ma asciutto, quando gli sfiorasti la pelle
– candida quasi
quanto la tua - sospirò.
Alzò le braccia e ti andò ad accarezzare la
schiena che la
scollatura del tuo vestito bianco lasciava scoperta, di nuovo ti
percorse un
brivido che s’intensificò quando fece scorrere la
zip sul tuo fianco e, con un
leggero fruscio, ti liberò.
Sotto non portavi il reggiseno, il vestito non lo consentiva e
tu non ne avevi bisogno: c’era solo il tuo intimo in pizzo a
coprirti, eppure
lui non aveva ancora staccato gli occhi dal tuo viso nemmeno un momento.
Aveva mosso le mani verso i tuoi capelli e, in un attimo,
aveva disfatto la tua acconciatura, lasciandoli liberi di cadere su di
te
lunghi e morbidi.
Eri stata nuda molte volte ma non ti avevano mai spogliata
davvero: te ne eri accorta solo davanti a quegli occhi castani che,
ora, ti
guardavano finalmente tutta come se non avessero mai visto prima altro
di
così bello
al mondo. Quello sguardo che, come un ciclone, ti
aveva strappato via,
pezzo per pezzo, la tua armatura di ghiaccio scintillante.
E, poi, ti aveva accompagnato un braccio a cingergli la vita
e con il suo ti aveva attirato a sé: le sue labbra si erano
unite alla tue,
improvvisamente irruente, trascinandoti in un turbine di whiskey e
menta. Non
avresti saputo dire quando gli togliesti i pantaloni – o se
li eri tolti da solo?
– fatto sta che vi eravate trovati nudi e avvinghiati: vi
eravate presi, forse
amati, mentre la notte scorreva veloce, troppo, e
si trasformava in
giorno.
Al tuo risveglio ti eri trovata sola nel letto e questo ti
aveva messa a disagio. Sentivi già il tarlo della tua
fiducia tradita, quando
la porta della tua camera si era aperta, facendoti sobbalzare per la
tua nudità: prendesti al volo la prima cosa che ti
capitò fra le mani,
il suo profumo ti
riempì le narici e, solo allora, ti rendesti conto di aver
addosso la sua camicia.
Ad entrare, però, era stato proprio lui, con quella che
aveva tutta
l’aria di essere la vostra colazione, la sua macchina
fotografica e il sorriso
più bello che avessi mai visto sulle labbra di un uomo e, di
nuovo, il ghiaccio
dentro di te si era sciolto. Avevate passato i vostri ultimi momenti
assieme a
ridere,
scherzare e mangiare mentre, fra le tue blande proteste, intrappolava
attimi di
te nella sua fotocamera.
Avresti mai creduto
che un uomo ti sarebbe mancato
a quel modo? Certo che no.
Prima di
lui eri sola, eri tua, era tutto più
facile…
«Come si
chiama?» era stata una delle prime cose che ti
aveva chiesto tua sorella, quella volta che avevate cenato assieme
dopo quel
viaggio, tu avevi glissato e lei aveva fatto finta di crederti.
Erano passati
esattamente cento giorni da quella notte e
non vi eravate più visti né sentiti e ora eri
lì, con il tuo smartphone
in mano, aspettando un suo messaggio o una sua chiamata.
Chissà poi perché,
visto che l’idea di scambiarvi i numeri di telefono non vi
era minimamente
passata per il cervello.
Recentemente, il
corriere ti aveva consegnato l’anteprima
della rivista a cui avevi rilasciato un’intervista circa un
mese prima e per
cui avevi firmato una liberatoria per pubblicare una foto che,
però, non ti
avevano fatto. Eri di corsa, come sempre, e non ti
eri preoccupata
troppo, magari ti avrebbero ricontattato in seguito, il tutto era poi
caduto
inesorabilmente nel dimenticatoio, sommerso dalla miriade di cose che
avevi da
fare. Perciò, avere tra le mani quelle pagine patinate ti
aveva sorpreso, ma
non tanto quanto vedere la foto che avevano usato per il tuo articolo:
era un
tuo mezzo busto, i capelli scompigliati e il trucco - non
più così
perfetto - erano incredibilmente esaltati dalla scelta del bianco e
nero, avevi
una camicia bianca da uomo addosso e guardavi verso la finestra di una
camera
d’albergo. Ovviamente questo solo tu potevi saperlo, il
totale effetto bokeh[3]
sullo sfondo nascondeva magistralmente dove ti trovassi, avresti potuto
essere ovunque,
non necessariamente nello stesso letto del fotografo.
La firma digitale era ben visibile nell’angolo in basso a
destra: Frost[4],
il suo nome d’arte.
Era probabilmente la foto più bella che ti avessero mai
fatto ma ciò non ti impedì di chiudere la rivista
stizzita, perché diavolo non
ti aveva più cercata? Va bene, non aveva il tuo numero ma
eravate due
personaggi noti, no? Come aveva saputo della tua intervista per vendere
la sua foto, avrebbe potuto prodigarsi per riuscire a trovare un modo
di
contattarti. La possibilità di comporre il numero della
giornalista con cui
avevi parlato e chiedere notizie della tua foto e del fotografo non lo
prendesti nemmeno in considerazione, non saresti stata tu a cedere.
Eppure questa tua
testardaggine non ti faceva star bene. Poco importava che fosse
un’afosa serata d’Agosto,
si moriva di
caldo ma dentro di te gelavi: il tuo più
grande alleato, in cui ti eri
sempre rifugiata, si stava rivoltando contro di te.
Fissavi la parete, sicura che
non avresti chiamato
neanche quella sera, non ne valeva la pena, non sarebbe servito a niente
e,
improvvisamente, il tuo campanello aveva suonato. Chi poteva essere a
quell’ora? Non certo Anna, di solito avvisava. Ti avvicinasti
allo spioncino in
silenzio e, facendo tutta l’attenzione possibile per non
farti scoprire
dall’altro lato, sbirciasti il tuo improvviso visitatore. Nel
vedertelo lì,
davanti alla porta - con quella t-shirt blu e un paio di pantaloni
marroni
leggeri[5]
– il tuo cuore aveva perso un battito e avevi
aperto di colpo. Non gli avevi dato nemmeno tempo di prendere fiato:
senza aprir bocca, avevi
assottigliato lo sguardo e lo avevi schiaffeggiato.
Lui aveva sgranato gli occhi per un attimo, poi aveva
sorriso mentre una piccola macchia rossa si disegnava sulla sua guancia
«Questo
sarebbe?»
«Per non
avermi
chiesto il numero» lo rimproverasti, incrociando le braccia
al petto.
La sua bocca si tirò di lato, maliziosa e irresistibile
«Tu
non me l’hai dato» si strinse nelle spalle
«Pensi di farmi entrare? Posso anche
andarmene nel caso, ma sarebbe un vero peccato, visto tutta la fatica
che ho
fatto»
Finalmente sorridesti a tua volta e ti facesti da parte «Come
mi hai trovata?»
Se avessi immaginato che, mentre tremavi sotto al peso delle
tue paure, in realtà ci fosse un ciclone in cerca
dei tuoi passi, forse,
non avresti sofferto così tanto.
«L’intervista che hai fatto tempo fa: una delle mie
più care
amiche lavora come editor per quella rivista. Quando ho saputo che
saresti
stata parte del loro progetto, le
ho detto che avevo lo scatto perfetto,
vedendolo
ne sono rimasti entusiasti. E’ possibile che abbia chiesto in
cambio un tipo
diverso di pagamento, solo che, poi, sono dovuto ripartire per
l’ennesimo
viaggio»
«Informazioni sensibili coperte da privacy,
immagino» fu il
tuo turno di regalargli un’espressione maliziosa, mentre si
faceva sempre più
vicino «Potrei denunciarti, sai?» gli facesti
presente, intrecciando le braccia
dietro al suo collo.
«Avresti tutte le ragioni di questo mondo» ti
soffiò sulle
labbra ma non ti baciò «Ti è piaciuta
la foto?»
Davvero ti aveva fatto quella domanda, in quel momento? Non
poteva semplicemente chiudere quella bocca e unirla alla tua una volta
per
tutte? «L’ho buttata»
«Bugiarda»
Ah, ma allora era tutto un suo piano per farsi pregare, beh,
non sarebbe successo. Perciò tirasti e semplicemente
prendesti ciò che volevi.
Lui, però, non voleva essere pregato, cercava solo di capire
quanto di quello che provava lui lo provassi anche tu. Quando lo
comprese non
si frenò più, nonostante foste già
estremamente vicini, si spinse ancor più
verso di te, costringendoti ad indietreggiare, ti ritrovasti seduta
sulla
consolle dell’ingresso senza nemmeno rendertene conto,
probabilmente
rovesciaste anche un vaso di design ma il rumore del metallo sul
pavimento fu
solo un sottofondo lontano, mentre gli sfilavi dalla testa la maglietta.
Diavolo, quanto ti era mancato?
Grazie per
avermi cercata, grazie…
Lui ti
ansimò sul collo, bloccandosi dal torturarlo di baci
«Era il minimo, credo me ne sarei pentito tutta la
vita altrimenti…»
Cos…?
Lo avevi detto
davvero? Ancora una volta tutte le tue difese erano state divelte e non
te n'eri nemmeno accorta.
Era così terribile mostrarsi fragili? Decidesti di no, non
con lui
almeno.
«Magari
questa volta lasciami il telefono» tornò a cercare
i tuoi
occhi, un’espressione mista fra eccitazione e divertimento.
Solo lui avrebbe potuto farti ridere in un momento come
quello, con agilità scendesti dal tavolino, appoggiasti le
mani sul suo petto e
lo guardasti nello stesso modo «Perché? Sai
già dove abito»
Jack si abbassò su di te e, facendo leva sotto alle tue
ginocchia, ti prese in braccio senza sforzi «Vero,
ma sei un’ospite
terribile» celiò, sfiorandoti con il naso il lobo
dell’orecchio «Non mi hai ancora
nemmeno fatto vedere la casa»
«A questo possiamo subito rimediare» gli
rispondesti a tono,
allacciando le mani dietro al suo collo «In effetti so
esattamente da quale
stanza cominciare»
Chissà se anche
Jack si sarà schiantato con un Ciao sotto al portone di Elsa
XD
Lo so, vi avevo promesso un'altra cosa ma che vi devo dire? Questi due
si impossessano della mia testa anche quando meno me lo aspetto e, per
la precisione, mentre - facendo addormentare mio figlio (sì, si addormenta
con queste canzoni qui, a quanto pare è strano come la mamma) - ascoltavo la canzone di
Takagi e Ketra con Elodie intitolata, appunto, Ciclone.
Si parla di brividi e di gelo, anche ad Agosto, e c'è questa
maledetta frase "Prima
di te ero sola, ero mia,
era tutto più facile..." che, mannaggia alla
miseria, grida Jelsa a tutto spiano.
Ok, probabilmente sono da internare, quindi, tappatemi!
Non si può proprio parlare di song-fic ma, ovviamente, parte del testo è
allegramente sparsa in corsivo per tutta l'OS, in tanti, troppi posti
per citarli tutti.
Ringrazio infinitamente Wendy_88,
la mia fotografa di fiducia <3, che mi ha evitato di dire
castronerie
quando parlo della foto che Jack ha fatto ad Elsa. Vero, non l'ho mai
nominata ma penso sia abbastanza chiaro che il punto di vista qui sia
il suo.
Spero mi passarete il fatto di aver accomunato il nostro Jack al vento
ma, non avendo i poteri in questa OS, quella che meglio rappresenta il
ghiaccio fra i due sappiamo benissimo chi è ;)
La collocazione è volutamente vaga, immaginateli dove e come
preferite ma non troppo giovani, visto che entrambi hanno carriere ben
avviate.
Ovviamente un po' di canone di Frozen non può mai mancare,
per
cui anche qui le ragazze sono rimaste orfane dei genitori a sedici e
tredici anni. Porelle, ma credo sia un fattore chiave per avere Elsa -
Elsa, non so se mi spiego (anche se, grazie al cielo, non l'hanno
internata per via dei suoi poteri, dato che non li ha).
Considerando la sua capacità di creare un gigantesco
castello di ghiaccio in
quattro e quattr'otto, mi pareva plausibile rendere Elsa un genio
dell'architettura.
Jack fotografo, invece, mi è uscito così.
Miryel la
definizione che hai
fatto di Jack come la cura di Elsa mi è piaciuta talmente
tanto
che credo mi abbia condizionato parecchio per la stesura di questa OS,
non so se si percepisce. <3
Al solito grazie a tutti per aver letto e sarò immensamente
grata a chiunque
vorrà lasciarmi un suo commento o mostrarmi il suo
apprezzamento
listando.
Alla prossima
Cida
[1] E' un omaggio al film Frozen, in
particolare alla frase con cui Elsa liquida la proposta di ballare del
Duca di Weselton anche se qui è, per necessità di
copione, un po' meno gentile.
[2]
Probabilmente ho un piccolo tarlo per cui Elsa e Jack devono ballare
assieme la prima volta che s'incontrano XD
[3]
L'effetto di sfocare lo sfondo e mantenere solo il soggetto a fuoco.
[4]
Devo davvero spiegare da dove l'ho preso?
[5]
E' un omaggio all'iconico vestiario di Jack, essendo molto caldo la
felpa blu è dovuta diventare una t-shirt.