Capitolo 40
Un finale diverso
“Siamo stati vaccinati fortemente da vent’anni di
fascismo e prima ancora da società molto chiuse. [...] La patria ha dato tante
delusioni.”
Piero Angela
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Correvano
i piedi, avvolti nelle candide scarpe, correvano i pensieri, lungo la strada
che, in leggera discesa, conduceva al mare. Correva Sarah, reggendosi lo
strascico con una mano chiusa a pugno, piangendo lacrime asciutte, mentre
tentava di ricacciare dagli occhi della mente le facce paonazze per l’ebrezza
di vino, il labiale sguaiato degli amici di Matteo che intonavano “Faccetta
nera”, il suo sorriso imperturbabile, il suo sguardo disattento e noncurante
verso di lei. Correva Sarah, senza aver fissato una meta precisa, con un tacco
dondolante e l’abito sgualcito, il cuore a pezzi.
Non
era intervenuto Matteo, non aveva impedito che i ricordi tornassero, mediante
l’eco di note stonate, nelle vesti del rimorso per i gesti mancati, per le
parole non dette. Di nuovo, la tormentò il pensiero di non
essersi abbandonata nell’ultimo abbraccio dei suoi genitori e di non aver dato
a suo fratello l’addio, né detto un grazie a don Franco per averla protetta e
nascosta insieme ai bambini, sacrificando la vita fino al martirio ad
Auschwitz, la cui atroce realtà aveva taciuto ai suoi piccoli amici che mai
sarebbero diventati adulti, alimentando in loro false speranze con il silenzio
e le bugie. Troppo poco aveva ringraziato Maria e mai avrebbe potuto ricambiare
l’affetto dimostratole, fino a mantenere, in Davide, la sua promessa.
Correva
Sarah, passando disorientata accanto alle pareti scoscese della collina boscosa
che sovrastava il mare, come quando, trascinata dai partigiani, percorse tra la
fitta boscaglia fuori dal Dulag 152 di Fossoli i
primi celeri passi di una libertà malaccetta, perché era sola, lontana dal suo
amato. Era stata lei a lasciarlo, privo di sensi, prono sul terreno innevato,
senza avergli ricambiato l’ultimo bacio. Neanche un ti amo si eran detti tra gli aneliti dell’amore, mentre i loro corpi
si univano per l’ultima volta, prima che la notte si empisse del frastuono di
spari e urla, del fiotto di sangue e lacrime. Non era riuscita a salvargli la
coscienza dall’ideologia nazista, né la vita dalla prigionia sovietica e
neppure un pensiero gli aveva rivolto nel giorno del suo matrimonio.
Correva
Sarah, fin quando non si ritrovò, scalza e affannata, in riva alla spiaggetta –
che Matteo le aveva fatto scoprire, vivendo assieme i più bei momenti, dapprima
di amicizia, seduti sugli umidi ciottoli, poi d’intimità, nascosti tra gli
scogli – e, di nuovo, fissando il tenue ondeggiare delle acque del mare, la
pervasero pensieri di morte.
Berlino
La
sua salute sembrava deteriorarsi giorno dopo giorno. La febbre persisteva,
mentre aumentavano la tosse e l’affanno. Alternando momenti di disperazione, ad
altri di speranza, Hermann restava saldamente aggrappato alla vita, forte del
pensiero che, prima o poi, avrebbe ritrovato la sua amata.
“Non
lasciarmi morire”, sussurrò col fiato corto, rivolgendosi a sua madre e
afferrandole la mano posata sul letto, affamato d’aria e bisognoso del conforto
di un contatto umano. Era uno di quei momenti in cui pensava di non farcela.
Figlia
di un colonnello, comandante del reggimento di cavalleria dell’Esercito
Tedesco, severamente educata a valori nazionalisti e ideologie antisemite,
ciecamente devota al Reichskanzler[1],
più di quanto non lo fosse ancora suo marito, Birgit
ritrasse spazientita la mano e, con tono perentorio, disse: “Siamo già tutti
morti.” Si alzò di scatto e, riferendosi al Führer, aggiunse: “Con lui.”
Di
suo figlio – che, con la stessa caparbietà che lo aveva trattenuto nel suo
grembo oltre il termine della gravidanza, rifiutandosi di venire alla luce, si
ostinava a non lasciare questo mondo – faticava a prendersi cura, facendolo
soltanto per ubbidire al volere di suo marito e, adesso, una nuova cicatrice le
aveva impresso, più in alto a quella sul ventre, invisibile, sul cuore a
ricordarle la denazificazione della Germania, la fine di un mondo in cui lei
desiderava ancora vivere – a volte, immaginandolo.
“Basta,
basta”, si lamentò Hermann, girando la testa sul cuscino a destra e a sinistra,
con gli occhi strettamente chiusi, per liberarsi del fantasma di se stesso che vedeva riflesso nella presenza di sua madre.
Pensò
che non poteva essere morto, se ancora riusciva a
immaginare un finale diverso per quella notte di dicembre in cui la neve bianca
si tinse di rosso sangue, vaneggiando di essersi spogliato della divisa nazista
per indossare i panni dell’eroe agli occhi del mondo che sarebbe sorto dopo la
guerra, agli occhi della sua amata e fuggire mano nella mano con lei tra la
boscaglia di Gonzaga. Gli sembrò di udire il calpestio dei loro passi veloci su
foglie e rami secchi innevati e il respiro di Sarah, affannato per la corsa,
fondersi con il proprio, ansimante a causa della polmonite.
Napoli
“Sarah!”
Sentendosi chiamare da una voce trafelata, la giovane si volse. Il suo respiro
stava tornando regolare, assieme ai battiti del cuore che, però, rimaneva
stretto in una morsa di dolore.
Di
nuovo, i loro occhi si incontrarono in quel muto ma eloquente, empatico
dialogo, poi fu lei a rompere il silenzio, dicendogli profondamente afflitta:
“Ho sbagliato tutto.” E aprì un poco le braccia, come in segno di resa,
lasciandole mollemente ricadere sull’abito bianco.
“Sei
ancora in tempo”, rispose Davide, conscio di averla accompagnata, in realtà, a
un patibolo, “e io appoggerò la tua scelta.”
Si
era pentita di aver sposato Matteo, riponendo in lui le aspettative di una vita
da sempre sognata e investendo sul matrimonio i beni di famiglia, ma rifiutava
l’idea di poterlo lasciare per rincorrere un fantasma. Hermann non c’era più e
nessuno, né Matteo né un altro uomo – con il quale, forse, sarebbe stato anche
peggio –, avrebbe potuto colmare il vuoto che le aveva lasciato nel cuore.
Sorpassando
celermente Davide, dopo aver ricambiato la sua espressione arcigna con uno
sguardo stupito, il giovane sposo, affaticato nelle ginocchia e nel respiro,
con la disinvolta inconsapevolezza della gravità di ciò che era accaduto a “La
terrazza”, le si avvicinò.
“Sarah”,
la chiamò con tono spaesato, non riuscendo a spiegarsi il perché della sua fuga
dal ricevimento e del velo di lacrime e rabbia che ricopriva i suoi bellissimi
occhi color miele e lei, ritraendosi per schivare la mano intenta a sfiorarle
un braccio, gli disse: “Non mi toccare!”
“Perché?
Cosa ho fatto?” La indispettì ancor di più l’atteggiamento puerile, esternato
con voce desolata e sguardo lucido per il rifiuto e l’ebrezza del vino, ma non
riusciva a restare indifferente al suo aspetto scanzonato di capelli ricci e
tratti meridionali; ciononostante, non stemperò l’asprezza, mentre gli
rispondeva: “Niente, niente. Non hai fatto niente. È questo il problema.”
Poi,
reggendosi il vestito con entrambe le mani, gli si fece più vicino e, con aria
di sfida, a pochi centimetri dalla sua faccia sbigottita, iniziò a cantare: “Faccetta
nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina.”
E,
mentre la sua sposa ostentava un timbro di voce maschile e greve, finalmente,
Matteo capì e le sue labbra si curvarono in un mezzo sorriso imbarazzato. “Ti
prego, Sarah”, disse, accompagnando le parole con il gesticolare, “erano
ubriachi e non sanno neanche cosa significa.”
“Ma
tu sì.” All’ostinato risentimento, il giovane sbuffò e, con espressione seria e
tono austero, ribatté: “Vent’anni sono tanti e, per molti, non è semplice
abbandonare la mentalità fascista.” Parve giustificarli. “Ma tu lo sai, lo sai
che Gennaro, il tuo caro Gennaro che consideri come un padre e ci hai anche
aperto le danze oggi”, proseguì in un crescendo di stizza, invece di
rasserenarla e far sì che le lacrime non bagnassero il suo viso impallidito per
la delusione, “lo sai che fuori al suo locale aveva un cartello grande così con
il divieto d’ingresso ai cani e agli ebrei e che era sempre in prima fila alle
adunate fasciste? Lo sai?”
Una
verità che Sarah aveva già immaginato, poiché sapeva da sempre della facciata
fascista del signor Gennaro per proteggere i suoi amici ebrei e i loro beni, ma
era stato crudele a svelargliela in quel modo e ne rimase impietrita. “Avrei
perso tutto, la casa, i soldi, il corredo e non starei qui, se non fosse stato per
lui”, biascicò, con la voce spezzata dal pianto.
La
rabbia che l’animava era scemata per la delusione e questa aveva ceduto il
passo a una profonda tristezza che la introdusse in uno stato d’inerzia. Quel
vuoto che sentiva dentro era diventato una voragine e lei sprofondò.
Alle
braccia di Matteo che le si erano gettate al collo, non si ribellò né ricambiò
la stretta e, alle sue parole di scusa – suono muto e indistinto alle orecchie
di Sarah – intervallate da singulti, non rispose, ma le accolse, cedendovi e
condannandosi.
“La festa appena cominciata è già finita,
il cielo non è più con noi.
Il nostro amore era l’invidia di chi è solo,
era il mio orgoglio, la tua allegria.
È stato tanto grande e ormai non sa morire.”
Sergio Endrigo, Canzone per te