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Autore: Saelde_und_Ehre    19/10/2020    3 recensioni
Due aviatori britannici sono impegnati nella guerra contro i giapponesi sul fronte del Pacifico. Durante le battaglie sono abituati a cavarsela anche nelle situazioni più estreme, ma i pericoli peggiori sono quelli che giungono inaspettati.
Genere: Azione, Hurt/Comfort, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo 2

Il sergente MacPhearson alzò lo sguardo verso il cielo: in un azzurro sporcato da banchi di nubi passeggere, il sole del mattino splendeva senza abbagliare. Guidato dalla forza dell’abitudine, si concentrò per determinare la direzione e la potenza del vento, cogliendovi un sentore di vegetazione umida e piante a cui non avrebbe saputo dare il nome. Se tendeva l’orecchio, al di sotto del ronzio degli insetti avvertiva anche quello dei caccia che erano appena decollati per andare a intercettare i giapponesi. Strinse gli occhi e scorse le loro sagome affusolate, come puntini lontani che solo la vista allenata di un pilota poteva cogliere, e gli parve quasi strano non essere insieme a loro.
“E così, si torna a casa,” disse una voce alle sue spalle.
Il sergente si voltò: Fowler era a pochi passi da lui e lo osservava con aria divertita. Aveva il colletto della camicia spiegazzato e un ciuffo di capelli castani che gli sfuggiva dal berretto, segno che anche quella mattina doveva essersi preparato in fretta e furia per non fare tardi. “Vedo che non hai perso il tuo vizio di avvicinarti di soppiatto.”
“No, eri tu che non eri abbastanza attento.”
“Di solito sei tu quello con la testa tra le nuvole,” ribatté MacPhearson.
Il suo cipiglio torvo si infranse contro l’espressione svagata del collega, che allargò le braccia e alzò gli occhi al cielo. “Sono un aviatore, ne hai mai visto uno che non l’avesse?”
MacPhearson decise di non dargli corda. Gli voltò le spalle, si allontanò di qualche passo e tornò a guardare le nuvole, che coprivano il sole come un velo e poi si disperdevano sospinte dal vento, e immaginò di trovarsi lassù a bordo del suo Spitfire. Se c’era una cosa che gli sarebbe mancata durante la licenza, era il brivido del combattimento nei cieli ma, una volta tornato a casa, avrebbe ritrovato ad accoglierlo la selvaggia natura scozzese e l’aria familiare della sua fattoria – e, soprattutto, non avrebbe avuto tra i piedi il suo parigrado, non avrebbe dovuto condividere con lui i pasti e l’alloggio per la notte, né sopportare il suo umorismo non richiesto.
Spesso gli veniva da pensare che gli sarebbe piaciuto avere un aeroplano tutto suo, per sorvolare dall’alto i paesaggi delle Highlands e raggiungere anche i luoghi più isolati.


L’aereo arrivò con qualche minuto di ritardo. Ad attenderlo, oltre a loro, c’erano anche piloti di altri squadroni, marinai della Royal Navy e personale di terra, tutti più o meno impazienti di partire.
MacPhearson si preoccupò di trovare un posto il più possibile appartato, si mise comodo e rimase a guardare fuori dal finestrino mentre gli altri passeggeri continuavano a salire. Sapeva già che lo aspettava un viaggio parecchio lungo, e diversi scali prima di poter rivedere i cieli della sua isola.
“Tutti a sedere, allacciare le cinture di sicurezza!” ordinò un ufficiale.
Il portello si richiuse, il brusio di sottofondo venne coperto dal rombo del motore.
Fowler, l’ultimo a salire, fece un paio di giri della corsia, poi si sistemò accanto a lui e si allacciò la cintura. Prima ancora che MacPhearson potesse chiederlo, l’altro fece spallucce e disse: “Ne avrei fatto volentieri a meno, credimi, ma da qualche parte dovevo pur sedermi.” Ostentò un’espressione innocente, quindi tirò fuori dallo zaino un barattolo di biscotti e iniziò a mangiare.
Almeno sta zitto, pensò il sergente. Appoggiò la guancia alla mano e volse lo sguardo altrove, verso il paesaggio che si stagliava fuori dal finestrino: una distesa sconfinata di risaie terrazzate, attraversate da un fiume serpentino; tra le sfumature di verde smeraldo e d’azzurro cupo spuntavano qua e là ciuffi di palme.
All’orizzonte andavano ad addensarsi nuvole nere, cariche di pioggia, che tagliavano a metà il cielo.


Un fulmine squarciò la quiete della tarda mattinata, con un boato che parve far tremare tutta l’intelaiatura dell’aereo. Subito dopo, una pioggerella fitta iniziò a picchiettare contro i vetri e la fusoliera, producendo un crepitio che sovrastava ogni altro rumore.
“Come direbbe Evans, da queste parti anche le stagioni sono impazzite,” commentò. “Non deve essere il massimo per gli altri trovarsi a ventimila piedi d’altitudine con questo tempo.”
“Tra poco smette, non ti preoccupare,” si sentì quasi in dovere di rassicurarlo il suo collega.
“Senti, non c’è niente di normale da queste parti. Io non mi fiderei troppo di questa pioggia.”
“Ma no, ma no.” Fowler si rilassò sul sedile e scelse un biscotto al cioccolato. “A me piace, mi fa sentire a casa. Direi che è perfetto, visto che è proprio lì che stiamo tornando.” Gli allungò il barattolo di latta. “To’, prendine uno anche tu.”
Nonostante l’acquolina in bocca, MacPhearson si costrinse a scuotere la testa in segno di diniego e rimase voltato verso il finestrino. Corrugò la fronte: il sole non era ancora scomparso, ma le nubi nere avanzavano compatte e le raffiche di vento spazzavano le palme, piegandole come esili fuscelli. Sembrava quasi che nelle regioni più alte del cielo fosse in corso una battaglia tra gli elementi.
Un lampo accese i nembi di una luminescenza fosforescente, seguito da un tuono che fece tremare i finestrini. La pioggia s’infittì, la visuale si ridusse a una tela di macchie verdi, velate di grigio.
“Andrà tutto bene, è solo un po’ di pioggia. Tra poco smette, vedrai,” riprese l’altro, poi soggiunse: “Siamo inglesi, non ci lasceremo mica impressionare da questo?”
MacPhearson scattò come se fosse stato morso da una vipera e gli rivolse uno sguardo glaciale. “Tu sei inglese.”
Fowler roteò gli occhi ed emise un sospiro spazientito. “Oh, insomma, come sei pedante!”
Egli tornò a rivolgere la propria attenzione all’esterno. “Sarò anche pedante, ma di sicuro non sono inglese.”


Fowler ammutolì: non si aspettava un’uscita del genere dal suo parigrado, pronunciata con una tale serietà da fargli quasi dubitare di averla udita davvero.
“E comunque,” riprese MacPhearson, “questo temporale non è normale. Guarda.”
Quando, vincendo la propria resistenza, si affacciò al finestrino, il biscotto gli andò quasi di traverso. “Per tutti i fulmini,” sfiatò, fissando come ipnotizzato lo scenario. Stavano sorvolando la giungla, che in quella luce livida appariva ancora più cupa e impenetrabile. Venti impietosi scuotevano gli alberi e i rovesci di pioggia sferzavano ogni cosa, infrangendosi contro il tetto di lamiera dell’aereo con l’impeto di una raffica di mitragliatrice. I fulmini dilaniavano il cielo plumbeo come lame di luce fosforescente. D’istinto sprofondò nel sedile, vi si aggrappò e tastò l’imbragatura del paracadute come se fosse un’ancora di salvezza. “Che cosa diavolo…”
L’aeroplano venne risucchiato da una turbolenza e sbandò bruscamente, inchiodando i passeggeri ai rispettivi sedili. Il vento s’insinuava sibilando negli spifferi, l’intera struttura scricchiolava e gemeva. MacPhearson recuperò il barattolo dei biscotti prima che cadesse per terra, poi alzò lo sguardo su di lui. I suoi occhi celesti tradivano un luccichio febbrile. “Adesso mi credi, testa di legno?”
Fowler annuì. “Dobbiamo fare qualcosa.” Si morse le labbra, chiedendosi che cosa avrebbe fatto se fosse stato lui il pilota.
Un tuono, uno schianto come di qualcosa che si spezzava interruppero le sue elucubrazioni; al di sotto dell’ululato della pioggia era quasi impossibile distinguere le voci dei membri dell’equipaggio.
“Qualcosa… ma cosa?” disse l’altro. “Buttarsi col paracadute adesso sarebbe un suicidio, ma non credo che stare qui sopra offra prospettive tanto migliori.”
I due sottufficiali si fissarono a lungo, sconvolti, e in qualche modo Fowler riuscì a intuire che entrambi stavano pensando la stessa cosa: essere piloti di caccia li aveva abituati ad affrontare gli inconvenienti del volo, ma trovarsi come passeggeri su un velivolo del quale non avevano alcun controllo li faceva sentire improvvisamente esposti e vulnerabili, uniti nella stessa sventura.
Tese l’orecchio: tra gli stralci di frasi urlate, mentre l’aeroplano ondeggiava e sobbalzava come un fuscello tra le raffiche di vento, le uniche informazioni utili che riuscì a carpire furono “ala danneggiata” e “atterraggio d’emergenza”.
Tuttavia, non c’erano strisce di terra in vista: solo acri ed acri di giungla incontaminata, su cui probabilmente si sarebbero sfracellati prima ancora di scorgere un’illusione di salvezza.
La mente gli tornò al lurido appartamento che condivideva con sua madre e sua sorella zitella nella periferia di Birmingham, all’odore di porridge che pareva impregnarne le pareti, alla sirena dell’allarme antiaereo che aveva fatto saltare tutti giù dal letto e a lui che dava la precedenza alle due donne per spingerle nel rifugio nella concitazione generale. Si chiese come stessero, se mai le avrebbe riviste. Ricordava ancora l’ultima licenza, quando, arrivato nel quartiere in cui aveva trascorso l’infanzia, aveva trovato gli edifici vuoti distrutti dai bombardamenti e le macerie che ostruivano la strada. A casa lo acclamavano come una specie di eroe di guerra, un difensore della Patria, e sembravano aver dimenticato che, nemmeno vent’anni prima, in quella stessa strada suo padre lo inseguiva per prenderlo a cinghiate e il signor Chapman gli inveiva contro ogni volta che lo beccava a rubare ciliegie dal suo albero.
“Mi sa che non abbiamo altra scelta,” concluse lapidario. “Ma se proprio devo morire senza la gloria del combattimento, preferisco farlo con la pancia piena.” Si sistemò il barattolo dei biscotti sulle ginocchia, drizzò la schiena e riprese a mangiare. “Mi permetto di insistere: non saranno gli shortbread che mangiate dalle vostre parti, ma vengono pur sempre dalla migliore pasticceria di Birmingham.”
A quel punto, seppur titubante, MacPhearson non poté far altro che accettare l’offerta.


All’improvviso, il fragore della grandine cessò e una lama di luce abbagliante penetrò da una spaccatura tra due banchi di nubi nere. L’aereo si raddrizzò a fatica, scricchiolando, e riprese un volo livellato nel cielo livido.
MacPhearson guardò fuori: scendeva solo una lieve pioggia, e i raggi del sole creavano sfumature cangianti sopra la distesa di vegetazione lussureggiante che si estendeva infinita.
“Pare che il peggio sia passato,” azzardò Fowler, con inconsueta cautela.
Si voltarono in simultanea verso il personale di bordo: l’ufficiale responsabile aveva la testa infilata nella cabina del pilota e stava intrattenendo con lui una fitta conversazione.
Gli altri passeggeri avevano ripreso a bisbigliare tra loro, qualcuno russava.
MacPhearson non provò alcuna meraviglia quando l’ufficiale annunciò che il motore aveva subito un’avaria e che, di quel passo, l’aereo si sarebbe schiantato prima di raggiungere un terreno su cui poter atterrare. “Sbrigatevi, dobbiamo buttarci col paracadute.”
Aveva perso il conto di tutti gli atterraggi di emergenza che aveva effettuato a bordo di un caccia, Hurricane o Spitfire che fosse, ma una situazione del genere gli era del tutto nuova.
“Ma c’è la giungla, signore!” protestò qualcuno, ignorato da tutti gli altri.
Si scatenò subito il tafferuglio: i passeggeri iniziarono ad accalcarsi verso le uscite, urlando, armeggiando febbrilmente con le imbragature dei loro paracadute, incuranti delle ammonizioni dell’equipaggio che tentava invano di ripristinare la disciplina.
Anche Fowler e MacPhearson si alzarono, gli unici a mantenere una qualche parvenza di calma. Diedero la precedenza ai marinai e al personale di terra, che probabilmente non avevano mai maneggiato un paracadute in vita loro.
Giunse infine il loro turno; MacPhearson spinse avanti il collega. “Vai prima tu.”
“Ci troviamo troppo in basso, c’è il rischio che i paracadute non si aprano per tempo,” li avvertì il pilota. “Voi della RAF lo sapete bene: quando lo schianto è inevitabile, l’unica cosa che ci resta da fare è cercare di urtare l’oggetto più morbido nelle vicinanze, nella maniera più delicata possibile.”
D’istinto, MacPhearson afferrò la spalla di Fowler, già affacciato all’esterno, e lo tirò verso di sé per trattenerlo. “Hai sentito? Ti spiaccicherai per terra.”
“O la va o la spacca,” replicò l’altro. “Vedrò di cadere su un cespuglio.”
E saltò, dinanzi allo sguardo sconcertato del suo parigrado.
MacPhearson strinse i denti. “Idiota,” ringhiò. Per un attimo fu tentato di buttarsi insieme a lui, ma il velivolo iniziò a puntare il muso verso il basso e lo costrinse ad aggrapparsi a una maniglia.
Sull’aereo ormai ingovernabile, con la terra che si avvicinava a velocità vertiginosa, erano rimasti soltanto lui, il pilota e il comandante.
“Che cosa dobbiamo fare, adesso?”
“Pregare, sergente, non c’è altro da fare,” rispose l’ufficiale.

Col vento che gli sferzava la faccia e gli sibilava negli orecchi, il cuore in gola, il sergente Fowler iniziò a contare mentalmente i secondi che lo separavano dall’impatto.
Ricordava di aver sentito cantare una canzone diversi mesi prima, da un gruppo di paracadutisti americani.
The canopy became his shroud, he hurtled to the ground.
And he ain’t gonna jump no more…
Abbassò lo sguardo: l’informe muraglia d’alberi doveva trovarsi a poco più di cinquecento piedi sotto di lui, e la gravità lo attraeva verso di essa con la propria forza inesorabile.
Rivoli di sudore freddo cominciarono a colargli lungo la fronte, per poi raffreddarsi subito a contatto con l’aria, incollandogli i capelli alle tempie.
Non voleva immaginare cosa sarebbe successo se il paracadute non avesse fatto in tempo ad aprirsi: molto probabilmente lo avrebbero trovato ridotto a una poltiglia umana come il tizio della canzone – sempre che si potesse ritrovare qualcuno in quell’orrido intrico di vegetazione incontaminata.
He was a mess, they picked him up and poured him from his boots.
And he ain’t gonna jump no more.
Non era la prima volta che si paracadutava giù da un aeroplano in fiamme, ma di sicuro sarebbe stata la prima, e di sicuro anche l’ultima volta che il paracadute lo tradiva.
Gory, gory, what a hell of a way to die,
And he ain’t gonna jump no more…
Mentre il ritornello gli risuonava beffardo nella testa, si sentì trattenere da una forza che lo privò del suo peso e si ritrovò a fluttuare sospeso in aria: il fungo bianco del paracadute si era gonfiato.
Qualche secondo dopo, il suo corpo impattò contro qualcosa di morbido, ma decisamente instabile. Uno stormo d’uccelli volò via strepitando e sbattendo le ali, le fronde si spezzarono graffiandogli il volto e le funi si impigliarono alla vegetazione. Tonfi, scricchiolii, crepitii e fruscii accompagnarono la caduta, che si arrestò lasciandolo appeso a un ramo ad almeno trenta piedi da terra. Paralizzato dallo spavento, con gli occhi fuori dalle orbite e l’adrenalina che gli pompava il sangue nelle vene, il sergente si lasciò dondolare con gli occhi strabuzzati sul vuoto.
Un forte odore di terra umida gli invase nelle narici, e una vibrazione continua, quasi assordante, di friniti e cinguettii pervadeva l’intero ambiente, come se fosse la giungla stessa ad emettere quei suoni. La luce del sole faticava a farsi strada tra gli intrichi di foglie, e i tronchi contorti degli alberi erano stritolati dal muschio. L’aria era immobile, madida, ed emanava un sentore marcescente. Sotto i cespugli di felci, il suolo era a malapena visibile e rendeva quasi preferibile spostarsi da un ramo all’altro come le scimmie.
Si aggrappò alle funi del paracadute come se fossero liane, si issò a forza di braccia e salì a cavalcioni sul ramo, rimpiangendo di non essere agile come Tarzan.
Col coltello tagliò le corde che lo tenevano legato, quindi appoggiò la schiena al tronco e tirò il fiato, ringraziando di essere ancora vivo.
La sensazione di sollievo durò poco, spazzata via da un’urgenza pressante: si trovava in mezzo alla giungla, a chissà quante miglia dal primo avamposto di civiltà, né sapeva se quel territorio fosse sotto il controllo delle forze alleate oppure del nemico. Non aveva radio, a differenza di quando veniva abbattuto in volo, e non aveva modo di mettersi in contatto con nessuno.
E gli altri? Erano riusciti a saltare? Se sì, stavano vagando anche loro in quella foresta sconfinata, oppure si erano sfracellati da qualche parte? Inevitabilmente, il suo pensiero tornò a MacPhearson e non poté fare a meno di chiedersi che fine avesse fatto.
Non aveva altra scelta: doveva uscire al più presto da quella giungla, e per farlo poteva contare solo sulle sue forze. Scese giù lungo il fusto, spostandosi da una cavità all’altra, poi saltò. Un mucchietto di ramoscelli marci crepitò sotto i suoi piedi e gli stivali affondarono fino alla caviglia in una fanghiglia umida, sollevando schizzi che gli macchiarono l’uniforme.
Senza farci caso – nessuno lo avrebbe redarguito per l’aspetto trasandato – con passi incerti iniziò a farsi strada attraverso la vegetazione, pensando che gli sarebbe piaciuto avere con sé un machete.

L’aeroplano si abbatté al suolo con un fragore assordante, di lamiere accartocciate e legno che si schiantava.
Sballottato come in una centrifuga, MacPhearson fu scaraventato contro il sedile, sbatté la testa e la vista gli si oscurò.
Quando tornò in sé, il silenzio che avvolgeva la scena gli parve irreale.
Con gesti febbrili slacciò la cintura di sicurezza e si passò una mano sulla fronte, ritraendola umida di sangue e sudore. Un piede gli era rimasto schiacciato tra due lamiere e dovette stringere i denti mentre lo estraeva. A parte qualche graffio su tutto il corpo, non aveva ferite vistose o invalidanti, e realizzò di riuscire a reggersi in piedi se si costringeva a ignorare il dolore.
Si arrischiò barcollando verso ciò che restava della cabina di pilotaggio, ma dovette fare subito un passo indietro: intrappolati tra i rottami, il pilota e il comandante erano due fagotti irriconoscibili nelle uniformi intrise di sangue. Guardando di sfuggita, gli parve di notare anche qualche arto mancante. Si ritrasse inorridito, rendendosi conto di essere l’unico sopravvissuto di quell’incidente.
Gli tornarono in mente le ultime parole famose prima dell’impatto: Pregare, sergente, non c’è altro da fare.
A lui non era mai importato molto di pregare, ma non poté fare a meno di chiedersi se quell’ufficiale lo avesse fatto prima di ridursi in quel modo.
Tornò indietro e frugò alla ricerca del suo bagaglio, che ritrovò sepolto sotto un sedile; infine voltò le spalle alla macabra scena e, scavalcando mucchi di rottami, frasche e alberi spezzati che si erano insinuati all’interno, uscì fuori dal relitto dell’aereo.
Fu investito da una cascata di raggi verdi che cadevano obliqui dall’alto, dalle fessure tra fronde di alberi alti fino a cento piedi e forse anche di più. Nugoli d’insetti lo assediarono, costringendolo ad agitare le mani per scacciarli; nascoste da qualche parte nel folto, alcune rane gracidavano.
Sicuramente, l’ufficiale comandante si era messo in contatto via radio coi soccorsi, segnalando la loro posizione; ma se la sua conoscenza delle mappe del luogo non lo ingannava, quella foresta non figurava su di esse. Per quanto ne sapeva, avrebbe potuto anche trovarsi in una zona controllata dal nemico – e se così fosse stato, c’erano altissime probabilità che qualche osservatore giapponese avesse avvistato l’aereo e dato l’allarme.
E lui, quasi disarmato, solo e ferito, difficilmente avrebbe potuto avere la meglio su di loro.
Aveva sentito storie agghiaccianti sui campi di prigionia giapponesi e non aveva alcuna intenzione di constatare con la propria pelle se fossero vere o gonfiate: gli erano bastate quelle due settimane in Libia, in mano agli italiani, per farsi un’idea di quanto fosse umiliante essere prigionieri di guerra.
Cauto, si munì di un bastone e si allontanò rapido dal luogo dello schianto: tutt’intorno c’era una barriera impenetrabile di rami contorti, liane e cespugli; per terra, un tappeto di poltiglia viscida da cui riaffioravano ciuffi d’erba alta fino alla cintola, nel quale i piedi s’impantanavano acuendo il suo dolore. Un animale emise uno strido acuto, saltando da un ramo a un altro con un fruscio. Il sergente si infilò nella cavità di un albero e da lì, tra i ciuffi di felci, rimase a osservare la scena.
L’uniforme blu della RAF, unita al giallo del giubbotto salvagente, non era l’indumento più adatto per mimetizzarsi nella foresta, ma non poté far altro che appiattirsi e aspettare: se fossero arrivati i nemici, avrebbe cercato di minimizzare il respiro e diventare un tutt’uno con l’albero; se fossero arrivati gli alleati, avrebbe palesato la propria presenza.


MacPhearson aveva perso il conto del tempo passato in quella tana improvvisata, senza muovere un muscolo, col sudore che gli incollava i capelli alla nuca e i vestiti alla schiena.
Doveva essere ferito più gravemente di quanto pensasse, ma non aveva modo di controllare: quello stato d’immobilità gli impastava le membra, inchiodandole al suolo. Gli parve che il suo corpo fosse diventato un unico blocco di materia inerte.
Il cielo si era oscurato di nuovo, avvolgendo la foresta in una penombra grigiastra; l’orologio da polso, sulla cui precisione aveva iniziato a dubitare, rimaneva il suo unico riferimento temporale. Poi iniziò a piovere: una pioggia lenta, pesante, che sgocciolava dagli alberi e scendeva giù in copiosi rivoli. Irrorava il terreno e gli inzuppava l’uniforme, ridotta a uno straccio umido che aveva ormai assorbito il tanfo rancido del sottobosco.


Il sedicesimo giorno aveva tentato la fuga.
A distanza di mesi, rabbrividiva ancora rievocando le urla nella notte, l’eco della detonazione che squarciava il silenzio, e la frustata, rovente e al tempo stesso gelida, del piombo che gli sferzava la spalla. Si ritrovò pancia a terra a mordere la sabbia, che in bocca si mescolava al sapore metallico del sangue, a nascondersi sotto la sabbia e fingersi morto per evadere una seconda cattura.
Era stato il quarto d’ora più angosciante che avesse mai provato, in cui la paura e il dolore fisico annichilivano ogni altra sensazione: l’odore del sangue gli intrideva i vestiti e la pelle, i granelli sottilissimi s’insinuavano ovunque, gli grattavano le ferite aperte come carta vetrata. Quando un silenzio tombale tornò ad avvolgere la scena, MacPhearson pensò che sarebbe morto lì, seppellito sotto quella duna mentre l’umidità della notte gli perforava le ossa.
Strinse i denti mentre una fitta lancinante lo passava da parte a parte, ridestandolo da quell’ottundimento. Forse la follia, forse l’istinto di sopravvivenza o forse entrambe, fecero riecheggiare nella sua testa un unico imperativo: non aveva sfidato la sorveglianza armata del campo per lasciarsi morire nel deserto.
Represse un gemito e iniziò a strisciare alla cieca, gomiti e ginocchia a terra, come gli scorpioni che popolavano le sabbie. Ogni movimento era una stilettata di dolore che partiva dalla spalla e si irradiava in ogni parte del suo corpo, ma una forza sconosciuta continuava a spingerlo in avanti, nonostante i tremiti che gli scuotevano le membra. Per la prima volta si aggrappò con tutto se stesso alla speranza di arrivare vivo da qualche parte.
Da qualche parte…


Allontanò quel ricordo con un sospiro: se ci ripensava, faticava ancora a spiegarsi come fossero riusciti a trovarlo ancora vivo. Sapeva solo che, poco dopo la convalescenza in Scozia, il suo squadrone era stato trasferito sul fronte del Pacifico e loro avevano dovuto rivedere completamente le proprie strategie di combattimento.
Spossato, il sergente abbasso le palpebre e sprofondò in un leggero torpore. Si ritrovò nelle Highlands, a pescare in un laghetto circondato da amene colline. All’orizzonte, le guglie di un castello fendevano la nebbia evanescente che danzava intorno alle creste di abeti, tessendo ricami nel paesaggio. Un falco passò a volo radente sul pelo dell’acqua, lanciò verso il cielo i suoi versi acuti e sfrecciò via.
La coscienza non doveva averlo del tutto abbandonato quando, percepito un fruscio nella foresta, si ridestò come una bestia selvatica coi sensi di nuovo all’erta. Il sogno si dissolse più rapido della nebbia e la giungla tornò a stritolarlo coi suoi arti frondosi.
Anche se aveva smesso di piovere, un lento stillicidio continuava a scendere dagli alberi e il sentore dell’umidità gli penetrò fin nelle ossa, facendolo rabbrividire nei suoi abiti zuppi.
Udì delle voci riecheggiare nell’aria, in una lingua che di sicuro non era inglese. Tendendo ulteriormente l’orecchio, colse qualche sillaba: era giapponese. Fulmineo, trasse la pistola dalla fondina e la caricò, avendo cura di fare meno rumore possibile. Si appiattì ulteriormente nel tentativo di scorgere presenze umane, e non passò molto tempo prima che dai cespugli riemergessero quattro soldati dell’IJA [1] coi fucili in spalla. Snelli e agili nelle loro uniformi verde fango, si muovevano con destrezza in quei luoghi incontaminati, facendo a malapena rumore; i lineamenti affilati tradivano espressioni attente. Quello che sembrava un graduato diede un ordine e il gruppo andò a ispezionare il relitto dell’aereo.
Passò un istante inquantificabile, poi i fanti tornarono indietro portando con sé solo qualche bottiglia e riserva di cibo. Aguzzando la vista, MacPhearson riconobbe dai colori il barattolo dei biscotti di Fowler.
Già, Fowler. Chissà che fine ha fatto…
Un altro scambio di frasi in giapponese, poi lo sguardo del graduato indugiò per un attimo nella sua direzione. Se ci fosse stato il suo parigrado, probabilmente avrebbero cercato di ammazzarli tutti, ma per lui da solo, neanche nel pieno delle sue forze, contro quattro uomini sarebbe stato un suicidio. Rassegnatosi a quella consapevolezza, il sergente non si mosse di mezzo pollice, si impedì addirittura di respirare.
Ancora una volta, la voce del graduato pronunciò qualcosa che suonava come un ordine.
Hai, sensei.
I soldati si guardarono le spalle per l’ultima volta, quindi fecero dietrofront e tornarono da dove erano venuti.
MacPhearson si concesse di esalare il fiato che aveva trattenuto solo quando furono del tutto scomparsi alla sua vista: anche se ciò non lo rassicurava affatto, aveva ricevuto la conferma che quella zona era controllata dal nemico, e l’urgenza di allontanarsi ebbe la meglio sul suo fisico prostrato.

Attento, Mac! È dietro di te!” La voce gracchiante del caporale Waddington invase il segnale radio, seguita dal tintinnio di un proiettile che rimbalzò contro il vetro della capottina.
Il caporale MacPhearson tossicchiò e girò la testa di scatto, appena in tempo per vedere un’elica dipinta di bianco e nero e il muso giallo di un Me 109, pericolosamente vicini alla coda del suo Hurricane.
Schiacciò il pedale per virare un istante prima che l’Aquila Prussiana potesse sparare di nuovo, poi invertì bruscamente la rotta e tentò di metterglisi in coda con un loop, ma il tedesco, come un rapace che si divertisse a giocare con le sue prede, riuscì in qualche modo ad anticipare la sua mossa. Strinse i denti mentre la fronte gli s’imperlava di sudore: una raffica di traccianti gli piovve addosso, pezzi di rivestimento si staccarono dall’intelaiatura dell’aereo. Ancora una volta, tossicchiò attraverso la radio e non disse niente.
“Ci penso io a quel piccione crucco!” Quella volta, fu la voce del caporale Fowler a riecheggiargli nelle cuffie. “Tu pensa solo a non farti colpire.”
Con la coda dell’occhio, vide un altro Hurricane che manovrava per mettersi in coda al tedesco, poi dal muso del suo aereo iniziò a levarsi un fumo grigio che andava via via addensandosi.
“Mi ha già colpito!” gridò MacPhearson, sputando quelle parole tra i denti. “Sto perdendo olio, il motore è andato. Devo atterrare!”
“Va bene, ti copro io!


Quando vide l’aereo di MacPhearson perdere quota, l’Aquila Prussiana si limitò a sganciarsi e volò in cerca di un’altra preda. “Eccolo!” esclamò Fowler trionfante, allineando il collimatore col bersaglio. “Non mi scapperai.”
Azionò le mitragliatrici e sparò. Von Kleist – questo il nome del tedesco – si avvide di lui e derapò per schivare la raffica, ma il Messerschmitt già danneggiato volò letteralmente in mezzo alle pallottole e iniziò a precipitare dilaniato dalle fiamme. “L’ho preso!” esclamò Fowler. “Ho abbattuto l’Aquila Prussiana!” Il tedesco spalancò il tettuccio e si lanciò nel vuoto col paracadute. Come di riflesso, l’inglese controllò il contatore delle munizioni, trovandolo vuoto, e con un brivido si rese di avergli svuotato un intero caricatore addosso.
“Fowler! Fowler, mi sta sentendo?” chiamò il tenente Bennett. “Fowler!”
Il caporale si riscosse. “Sissignore!”
“Sta forse dormendo?” ringhiò l’altro, che doveva trovarsi dietro di lui. “Ha due Fritz alle spalle!”
Fowler se ne accorse troppo tardi: i due Me 109 si erano già allontanati, l’elica si era inchiodata e il suo Hurricane aveva iniziato inesorabilmente a perdere quota. Il messaggio era chiaro: non avrebbe potuto continuare a volare a lungo.
“Io e lei faremo i conti quando tornerà alla base, caporale!” gli urlò contro Bennett, prima ancora che annunciasse in frequenza di dover atterrare.
Abbassò lo sguardo e, diverse centinaia di piedi più in basso, notò la carcassa abbandonata di un 109 in fiamme. Non poté fare a meno di chiedersi se von Kleist fosse ancora vivo. Non molto distante riconobbe le coccarde blu e rosse sull’aereo di MacPhearson, che giaceva ai margini di un bosco con un’ala spezzata. Senza ulteriore indugio, iniziò a manovrare per raggiungerlo.
Dopo una discesa che gli parve interminabile, l’aeroplano impattò al suolo scavando un solco nel campo. Le ali si sfasciarono e il rivestimento del motore cedette definitivamente. Il caporale uscì dalla cabina, si lasciò scivolare fuori e corse incespicando verso il relitto dell’altro Hurricane, chiamando a gran voce il nome del collega.
“Smettila di strillare, sono qui,” bofonchiò MacPhearson dal tettuccio sollevato della capottina, tentando di tirarsi fuori dall’abitacolo.
Fowler salì sull’ala ancora integra e gli tese la mano. L’altro sospirò, si strappò dal capo la cuffia da aviatore e la lanciò per terra, poi si passò una mano tra i capelli madidi di sangue e sudore. “Ho visto che hai abbattuto il mangiacrauti,” commentò, quindi tentò ancora una volta di rialzarsi, ricadendo sul sedile con una smorfia di dolore.
Fowler alzò gli occhi al cielo. “Sei incastrato, lascia che ti aiuti.” Lo scozzese gli rivolse un’occhiata accigliata, ma poi l’ombra di un sorriso gli increspò appena le labbra e, seppur riluttante, accettò la mano che lui gli porgeva. Ricaddero entrambi all’indietro sull’erba, e MacPhearson soffocò tra i denti un grugnito di dolore. Egli abbassò lo sguardo sulla sua divisa blu, sporca di sangue e strappata in più punti, e si lasciò scappare un sorrisetto sbilenco. “Meno male che sono arrivato io,” lo canzonò in tono bonario. “Testardo come sei…”
Fece per avvicinarsi a controllargli le ferite, ma l’altro, che ancora sedeva sul prato, si schermì. “Anche tu stai sanguinando,” si limitò a dire.
Fowler si portò una mano alla tempia e la ritrasse sporca di sangue; tuttavia, liquidò la questione con una scrollata di spalle. “Tu sei messo peggio di me.”
In quel momento, un fruscio di foglie fece voltare entrambi di scatto verso il bosco: tra i cespugli era comparsa una testa bionda che avanzava circospetta.
“Fermo!” gli intimò MacPhearson, riconoscendolo all’istante. “Capitano Manfred von Kleist, stia fermo!” Incurante delle ferite, balzò in avanti come un veltro aizzato e si fiondò contro l’Aquila Prussiana.
Nel volto sporco di sangue e fumo nero del tedesco, gli occhi celesti ebbero un guizzo. Li strabuzzò con l’aria di una bestia spaventata, poi gli voltò le spalle e scomparve nella fitta vegetazione.
Lo scozzese emise un ringhio di frustrazione. Si piegò in avanti sulle gambe malferme e strappò un ciuffo d’erba.
“Lascialo stare,” lo blandì Fowler. “Siamo in territorio inglese, non andrà tanto lontano.”
Senza dire altro, MacPhearson si rimise a sedere sull’ala spezzata dello Hurricane e si prese la testa tra le mani, scuotendola con veemenza. Non oppose resistenza quando il commilitone gli scostò l’orlo del giubbotto, rivelando una ferita sul fianco sinistro.
Fowler gli tamponò l’emorragia alla bell’e meglio e gli fasciò la parte offesa avvolgendola nella giacca dell’uniforme che si era tolto, poi lo aiutò di nuovo ad alzarsi. “Andiamo, ti porto al posto di medicazione.”

Mentre avanzava tra fasci di liane e cespugli che gli si aggrappavano ai polpacci, il sergente Fowler si costrinse a ignorare i morsi della fame.
Dopo il breve acquazzone si era sollevata una nebbia densa e umida, che creava strane illusioni tra gli alberi. L’aria calda gli alitava sul collo come il respiro di un predatore in agguato nell’oscurità, in attesa che lui abbassasse la guardia per saltargli alla gola.
La luce andava scemando, come preludio al tramonto del sole: ogni possibilità di uscire dalla giungla prima di sera era sfumata. Non aveva idea di dove avrebbe passato la notte: probabilmente si sarebbe arrampicato su un albero abbastanza robusto e lì sarebbe rimasto per tutto il tempo, con gli occhi aperti e i sensi vigili ad aspettare il sorgere del sole.
Il suo olfatto ormai assuefatto agli odori della giungla gli permise di cogliere l’anomalia quando alcune sottili note d’incenso e curry iniziarono a diffondersi nell’aria stagnante. Pur rimanendo guardingo, si mosse incuriosito in quella direzione: aveva sentito dire che gli abitanti di quelle zone solevano allestire dei tempietti nel cuore della giungla; forse lì vicino avrebbe trovato anche un villaggio.
Un fruscio tra gli alberi lo fece appiattire contro un tronco, figgendo gli occhi nei grovigli di liane in cerca della fonte del rumore. Una creatura pelosa gli balzò sulla testa e afferrò i suoi occhialoni da volo, tentando di strapparglieli di dosso.
Fowler sobbalzò per lo spavento e agitò le braccia per allontanarla. “Giù le zampe, scimmietta dispettosa!” sibilò. “Sciò!” Il macaco emise un verso simile a una risata acuta e si dileguò con la refurtiva, arrampicandosi agile sull’albero. Subito dopo, altre due scimmie cadute da chissà dove gli piombarono addosso, seguite da una terza. Lo fecero inciampare in una radice, gli strapparono qualcosa dalla giubba della divisa e se ne andarono ridacchiando beffarde.
A tastoni, il sergente riconobbe la forma allungata del distintivo da pilota e, con sgomento, constatò l’assenza dell’onorificenza a cui era più affezionato. “La medaglia di distinto volo! Ladre!” inveì, per poi pentirsi subito dopo di averla tenuta così in bella vista.
Affranto, ansante e privato dei suoi trofei, si rialzò ingoiando l’amaro boccone della delusione. Non aveva una torcia, né una mappa; l’unica fonte di luce – se così si poteva definire – erano i pallidi raggi lunari che arrivavano a malapena a toccare le fronde più alte.
Quando giunse in vista di un edificio seminascosto tra cespugli alti quanto un uomo, le tenebre erano così fitte da consentirgli di vedere solo ombre più chiare o più scure a seconda della colorazione degli oggetti. Si acquattò tra le frasche e iniziò ad avanzare carponi, i gomiti affondati nel fango, poi alzò cautamente la testa: a circa trecento piedi da lui vi era una capanna bassa, spartana, col tetto di fango e paglia da cui pendeva una lampadina.
Intorno a essa, un reticolato di filo spinato, una tana di volpe e varie postazioni di tiro.
Prima ancora che potesse determinare lo schieramento di appartenenza della postazione, qualcuno gridò in giapponese. Il fascio di luce di una torcia lambì le zone d’ombra, uno sparo riecheggiò come ammonimento. Fowler si appiattì fino quasi ad affondare il viso nel fango, cercando di trattenere il respiro come se fosse in apnea.
Forse si aspettano che io mi faccia avanti con le mani alzate, pensò.
Non ottenendo risposta, la sentinella gridò di nuovo e una salva di fucilate squarciò l’aria greve.
Il sergente dovette mordersi la lingua, più per la sorpresa che per il dolore, quando il morso del piombo gli sferzò il polpaccio. Subito dopo subentrò un bruciore lancinante; l’odore del sangue si mescolò a quello del fango che gli imbrattava i pantaloni.
Devo andarmene… devo allontanarmi… magari mi crederanno morto…
Ma il suo corpo si era fatto pesante come un sacco di patate e si rifiutò di obbedire alla sua volontà.


[1] Imperial Japanese Army

  
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