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Autore: AlessiaDettaAlex    22/10/2020    2 recensioni
[LLS!! Post-canon | KanaMari | presenza di OCs | è la storia di due amiche che si ritrovano dopo essersi perse di vista (di nuovo) | ed era una scusa per scrivere una fanfiction in cui Kanan e Mari flirtano incessantemente, ma a Los Angeles | uso intensivo di cliché e fluff, una spolverata di melodramma | 10 capitoli totali]
City of stars / Are you shining just for me? / City of stars / Never shined so brightly.
[“City of stars”, from La La Land]
«Fino a quando resti qui?» […]
«Settembre, probabilmente. Non sarà una toccata e fuga»
Un sorriso nuovo fiorì sul volto di Kanan, non previsto.
«Quindi rimani»
«Rimango»

[dal cap. 2]
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Kanan Matsuura, Mari Ohara, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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5. Il significato nuovo
 
I never knew anybody ‘till I knew you
And I know when it rains, oh, it pours
And I know I was born to be yours
 
“Born To Be Yours”, Kygo & Imagine Dragons
 
 
Mari appoggiò la schiena sulla sponda del letto e la testa sul muro alle sue spalle: con una gamba stesa e l’altra rannicchiata al petto, riavvolgeva gli attimi vissuti la sera prima, assorta. Sentiva di aver bisogno di meditarci, sebbene il concetto in sé fosse elementare: lei amava Kanan, Kanan amava lei. Col primo termine aveva avuto modo di farci i conti già da parecchio tempo, ma il secondo era la vera novità; le sembrò che si trattasse di un’altra Kanan, non quella con cui era cresciuta, e tuttavia era proprio lei, la medesima Kanan, quella le cui azioni fino ad ora - alla luce della nuova informazione - avevano assolutamente senso. Agguantò e strizzò il cuscino tra le braccia, affondandoci il viso: i recenti ricordi la fecero arrossire da sola come fosse ancora una ragazzina.
La sera prima, durante il viaggio di ritorno, erano rimaste in silenzio per tutto il tempo. Stavolta però era un silenzio differente rispetto a quello a cui erano abituate, carico di un inusuale imbarazzo; avrebbero avuto voglia di chiarirsi a parole, sebbene per entrambe il significato di ciò che era successo fosse già ovvio, ma allo stesso tempo ne erano a tal punto sopraffatte che non riuscirono ad aprir bocca. Davanti casa sua Kanan l’aveva salutata con sorriso un po’ sghembo, traditore di quel desiderio che aveva nel cuore e che scalpitava per fuoriuscire un’altra volta. Tipico di lei: solo un’ora prima sembrava un leone, adesso era poco più che un agnellino. Fu Mari a prendere l’iniziativa con un bacio all’angolo della bocca, e l’attesa già bruciante di rivedersi il giorno dopo.
Il cuore le galoppava in petto come se ce l’avesse ancora lì davanti, e le dispiacque vivamente che non si sarebbero viste prima delle sei del pomeriggio. L’attesa la rendeva nervosa; si liberò del cuscino, ma ancora non riusciva a decidersi di frugare nella cabina armadio per scegliere cosa si sarebbe messa; il ricordo dello sguardo innamorato di Kanan le rendeva difficili anche i movimenti basilari. Si ritrovò a ringraziare di dover aiutare suo padre a controllare dei documenti in ufficio, per buona parte della mattina; se la mente fosse stata altrove, il tempo sarebbe volato.
«Miss Ohara?» la cercò una voce dietro la porta della sua suite, «suo padre la prega di raggiungerlo nel suo ufficio il prima possibile»
Si tirò subito in piedi come se qualcuno fosse appena entrato in camera, sistemando con una mano la vestaglia da notte che aveva ancora addosso.
«Digli che arrivo tra dieci minuti» rispose fingendosi già operativa.
La puntualità era un requisito indispensabile della sua famiglia e Mari non faceva eccezione: si attivò al punto che, letteralmente dieci minuti dopo, stava bussando all’ufficio di suo padre.
I due si salutarono con un lieve inchino della testa, si sedettero ai lati opposti della scrivania e iniziarono a lavorare insieme senza scambiarsi parole superflue, com’erano soliti fare. Succedeva infatti, alle volte, che Mari gli ponesse delle domande su questo o quel documento, e l’uomo ogni volta alzava la testa, abbassava gli occhiali che compensavano il suo incipiente astigmatismo e le rispondeva con una precisione secca, guidata dagli anni di esperienza sul campo; poi prendeva di nuovo in mano il plico di fogli che aveva visionato e li batteva sul lato corto, contro il tavolo, un paio di volte, per tenerli in chirurgico ordine. E così riprendevano a lavorare, accompagnati solamente dal fruscio delle pagine voltate.
Mari prendeva le carte e le confrontava, ordinava e rivedeva; rispetto alle faccende che riguardavano spese e bilanci aveva un’attenzione quasi maniacale, trovandosi spesso a ragionare tra sé su quali sarebbero state le proprie strategie se fosse stata lei al comando, cosa avrebbe fatto in modo diverso e come; erano queste le volte in cui si rendeva conto di trovarsi, in fondo, perfettamente a suo agio con il lavoro che si trovava tra le mani. L’odore dolciastro di un pasticcino la distrasse, costringendola a girarsi verso il padre: era in piedi accanto a lei e le stava porgendo una ciambella glassata alla fragola su un vassoietto di cartone, senza sorridere, ma con una luce negli occhi ben distinguibile.
«Non hai fatto colazione stamattina» disse semplicemente, ed era vero.
Non si era alzata presto e non aveva mangiato nulla nel mezzo minuto in cui era uscita dalla camera per raggiungere l’ufficio. Avrebbe potuto farsi portare qualcosa dallo staff, ma la stretta allo stomaco che durava dalla sera prima l’aveva fatta desistere. Dal momento che la ciambella era lì, comunque, valeva la pena provarla: l’incarto stracciato che circondava il vassoio portava la firma della migliore pasticceria di Los Angeles.
«Grazie, papà!»
L’appetito cominciò a farsi sentire mano a mano che mangiava; era stata così presa dal lavoro che non si era accorta di nulla: né della fame che aveva iniziato a morderle lo stomaco, né di suo padre che si era fatto portare quella ciambella glassata per lei. Avvertì nuovamente una gratitudine filiale crescerle dentro, che però non riuscì più esprimere a parole.
Quando ancora stava finendo gli ultimi morsi di quella prelibatezza, lo smartphone l’avvisò di una notifica, vibrando sul tavolo.
“Nicole mi ha detto che posso uscire prima da lavoro oggi. Finisco alle quattro. Che ne dici di vederci all’acquario?”
La velocità fulminea con cui aveva letto e risposto affermativamente al messaggio l’aveva resa certa del fatto che il pensiero di Kanan, nonostante l’impegno, non se ne fosse mai davvero andato: casomai era stato spostato momentaneamente nell’inconscio, pronto a rimbalzare fuori al primo stimolo.
Suo padre parve notare la luce che le aveva irradiato il volto.
«Devi uscire con la tua amica?»
Mari annuì, sforzandosi di ridimensionare la gioia che le traspariva dal sorriso, per evitare approfondimenti ulteriori da parte dell’uomo. Al contrario di sua madre, lui non aveva il problema di tenere la figlia lontana dalle sue amicizie; guardava le persone che Mari frequentava con equo distacco. Finché lei non veniva meno ai suoi doveri, finché le sue avventure erano uno stimolo di crescita e vivacità intellettuale e non un modo per adagiarsi sugli allori, dal suo punto di vista poteva uscire con chi voleva. Questa discrezione era un lato di suo padre che apprezzava molto; il risvolto della medaglia, però, prevedeva che fosse assolutamente impossibile contraddirlo quando riteneva di dover avere l’ultima parola su una qualche questione; e ciò creava i momenti di maggior tensione con Mari, che preferiva quindi non interpellarlo, se lo poteva evitare.
Tutto sommato, era un equilibrio a cui si era assuefatta da anni.
 
Con ogni probabilità sarebbe arrivata in anticipo. Considerata la distanza, considerato il tempo per prepararsi, considerato persino il traffico infernale di Los Angeles a qualsiasi ora del giorno e della notte, Mari aveva predisposto ogni cosa perché si abbreviassero i tempi d’attesa per rivedere Kanan. La scelta di visitare l’acquario a South L.A. aveva avuto il suo appoggio per tutta una serie di motivi, primo fra tutti perché le ricordava casa; era un posto speciale già per le Aqours, una zona franca che aveva il potere di farla sentire unita alle altre anche a chilometri di distanza.
Quando Zachary la lasciò vicina all’ingresso, con sua sorpresa scoprì che Kanan era già lì, appollaiata su una balaustra e ansiosamente rivolta al suo orologio da polso. I loro sguardi si incrociarono e Kanan iniziò ad agitare la mano in segno di saluto, come faceva anche quando era bambina; il volto di Mari si accese e corse da lei: ma appena le fu di fronte, la sua sicurezza incespicò nuovamente e dovette sforzarsi – con risultati altalenanti – di non distogliere lo sguardo. Fu una consolazione vedere Kanan annaspare quanto lei, le pareva che le desse la certezza che quel che era accaduto non se l’era sognato, come invece, a furia di pensarci, le era parso: e d'altra parte fu proprio Kanan la prima a cedere all’agitazione e a incitarla a cominciare il giro all’interno dell’edificio.
Percorsero con calma le prime stanze, curiosando tra le informazioni oceanografiche del Pacifico; i brevi commenti che condividevano, insieme a qualche chiacchiera fuori tema su come fosse andata la giornata di lavoro di entrambe, le aiutò ad aggirare l’iniziale imbarazzo. Lentamente, Mari avvertiva che le barriere crollavano una dopo l’altra: e stanza dopo stanza, tra i coralli e le conchiglie – che si lasciavano ammirare dietro il vetro tirato a lucido –, si riappropriavano di quella complicità cui erano solite. Davanti a una vasca di pesci tropicali, Mari si sporse in avanti per dare un’occhiata più approfondita, ma nell’eseguire il movimento la sua mano sfiorò quella di Kanan e trasalì.
Era una sensazione nuova. O meglio, era sempre la stessa – mille volte in quei giorni si erano prese per mano passeggiando nei quartieri turistici – ma conteneva un significato nuovo. Un significato che faceva ancora fatica a realizzare completamente, dovette ammettere a se stessa.
«Tutto bene, Mari?»
La voce della protagonista dei suoi pensieri la fece sobbalzare. Si voltò verso di lei senza riuscire a darle risposta: percepiva un lieve senso di vertigine, per cui semplicemente ammutolì.
«Ascolta» iniziò Kanan abbassando un poco la voce, «se ieri ho passato un limite che non dovevo superare, mi dispiace… non volevo metterti in difficoltà»
Mari sentì il cuore affondarle in petto, come se glielo tirassero giù con due mani.
«No! No, non è questo!» intervenne aggrappandosi con la mano al suo polso, quasi a impedirle di scappare, «in realtà… sono stata molto felice che tu l’abbia fatto»
Kanan, rasserenata, cercò la mano di Mari per tenerla stretta. Parve voler aggiungere qualcosa, ma sembrava non riuscisse a trovare le parole; e Mari, d'altronde, viveva la stessa insormontabile difficoltà. Per un po’ si persero l’una nello sguardo dell’altra, ma ognuna, a dire il vero, era incartata nei propri pensieri: così, riconoscendo che non ne avrebbero cavato un ragno dal buco, Mari interruppe il silenzio.
«Andiamo a vedere la sezione del Pacifico Settentrionale?»
La guardò sorridere in risposta, per qualche momento; poi la guidò per mano, con quella fanciullesca eccitazione che aveva nel cuore ogni volta che passavano così tanto tempo insieme.
Si riempirono gli occhi delle creature dell’oceano profondo, passando dai polpi alle mante: rimasero alcuni minuti in più a guardare gli squali, perché Mari era rimasta affascinata dall’eleganza minacciosa di un esemplare adulto; si ritrasse dalla vasca solo quando si accorse che Kanan aveva spostato lo sguardo su di lei: ed era lo stesso sguardo innamorato che l’aveva mandata in tilt per l’intera mattinata. Uno sguardo che, si trovò a realizzare arrossendo, le aveva sempre visto cucito addosso quando era rivolto a lei. Si chiese come avesse fatto a non accorgersene prima: era come unire i puntini di un’immagine già molto chiara.
Nella zona esterna della struttura si trovava la vasca dei pinguini di Magellano, divisa in una sezione acquatica e una rocciosa: su quest’ultima, la maggior parte degli animali stava immobile a sonnecchiare al sole. I piccoli uccelli scuotevano le piume e battevano il becco, qualcuno galleggiava pigramente sulla superficie dell’acqua e si faceva trasportare dalle deboli increspature.
«Questi a Dia piacerebbero» notò Kanan.
Mari aveva già tirato fuori il suo smartphone, pronta a un set fotografico coi fiocchi che avrebbe poi inviato in blocco alla migliore amica: e prevedeva già gli annessi e connessi insulti di Dia per averle riempito la memoria del telefono di pinguini.
«Le somigliano, non trovi?» e fece un’espressione che, nella sua testa, doveva richiamare quella di Dia.
Il risultato fece scoppiare a ridere Kanan; e alla fine anche Mari, dopo qualche offesa protesta, si accodò a lei.
«Non la sai fare» replicò quindi Kanan riprendendo fiato, «è più così»
Mari, a sua volta, la osservò tentare per una manciata di secondi: poi le rispose con una smorfia di scherno.
«Ma quella non è una faccia da Dia! È una faccia da pupazzo di peluche»
«Pupazzo di peluche? Ma come ti viene in mente?»
«Sì, dai, se ti attacco sulle palpebre un paio di occhi finti sei un pupazzo perfetto. Puoi fare la mascotte dell’acquario. Googly eyes
«Googly eyes
«Yes, googly eyes!» pigolò Mari disegnando dei cerchietti con pollice e indice.
Kanan riattaccò a ridere di gusto e Mari, guardandola, si accorse che finalmente ogni cosa tra loro sembrava essere tornata al suo giusto posto. Erano di nuovo se stesse: e forse più se stesse di quanto non fossero mai state.
Rimanendo nei pressi della vasca dei pinguini, le due ragazze si avvicinarono a una panchina libera, per prendersi una pausa. Fianco a fianco, stettero qualche minuto in silenzio; Mari era china sulle sue ginocchia, il mento appoggiato ai palmi delle mani; il sorriso non accennava a sparire, nonostante gli sforzi per contenerlo. Entrambe tenevano ancora gli occhi fissi sui pinguini di Magellano, che continuavano la loro pigra vita pulendosi teneramente le piume a vicenda.
«Comunque, riguardo al discorso di prima… anche io sono stata davvero felice di aver fatto quel passo»
Mari si girò verso di lei: Kanan guardava sempre dritta davanti a sé, le mani appoggiate sulla panca come se stesse affrontando un discorso assolutamente casuale, ma senza averne davvero l’aria. Trattenne una risata: si rese conto che vedere Kanan ancora testardamente decisa a sfangare l’argomento le dava sicurezza. Raddrizzandosi sul posto, poggiò il palmo sul suo braccio per indurre anche lei a girarsi.
«E come mai?»
Già che aveva ritirato fuori la questione lei, le sembrava lecito provocarla affinché finisse. Una smorfia di agitazione si formò su di Kanan, già rossa fino alla punta delle orecchie; Mari non poté che trovarla adorabile.
«Credo… credo che il perché sia chiaro, no?» balbettò massaggiandosi nervosamente una spalla, «e per me... è così da sempre»
«“Sempre” è un sacco di tempo, Kanan» sottolineò Mari, ascoltando i suoi goffi tentativi con estrema dolcezza e un pizzico d’impazienza.
A Kanan venne da ridere in risposta al nervosismo, ma si sforzò di trattenersi – il movimento delle sue spalle l’aveva assolutamente già tradita – e appoggiò la mano sulla sua, come per dirle a gesti quel che non riusciva in nessun modo a parole.
«E tu invece?»
Non era più così semplice quando l’interpellata era lei, realizzò con un improvviso irrigidimento. Per impedirsi di rientrare nello stato di agitazione con cui conviveva da tutto il giorno, si propose di smorzare un po’ l’atmosfera.
«Io dico che dovresti far più pratica con il bacio alla francese» scherzò, mordendosi la lingua.
Kanan la guardò piegando leggermente la testa, scettica.
«Adesso vorrai dirmi che invece tu hai grande esperienza… aspetta, perché tu non hai avuto altre… “esperienze” in Italia, vero?»
La risata cristallina di Mari lasciava trasparire già la risposta.
«Chi lo sa...»
Il viso di Kanan cambiò da lievemente preoccupato a retroattivamente – e irragionevolmente – geloso.
«It’s joke!» cantilenò Mari.
Poi la sua espressione si addolcì e, accostandosi, accarezzò il volto dell’altra con una mano; se c’era un momento adatto per essere sinceri, si disse, non poteva che essere quello: ora che finalmente aveva ritrovato il coraggio che cercava da tutto il giorno.
«La verità è che ho sempre amato solo te»
Kanan, per propria parte, ebbe un sussulto: pur rimanendo immobile provò una voglia irrefrenabile di tirarsi su con lei, sollevarla in alto tra le sue braccia e urlare a tutti che, dopo tutti questi anni, Ohara Mari era finalmente sua, completamente sua.
«“Sempre” è un sacco di tempo, Mari» riuscì a commentare, ma la voce già le tremava.
Si sorrisero: quel che le univa da anni cominciava finalmente a prendere forma, ad acquisire corpo e parola.
 
Una passeggiata e un paio di granite più tardi, cominciarono ad avviarsi verso l’uscita. Kanan, prima di lasciarla andare, si assicurò che portasse con sé un ultimo pegno: un piccolo mazzetto di soffici fiordalisi, blu lucenti, consegnati con l’impaccio di un’amante che spera di ottenere il fatidico sì dall’amata. Li aveva comprati in gran segreto prima di presentarsi all’acquario, tenuti malamente nel borsone del lavoro per non destare sospetti, ma non aveva trovato il coraggio di porgerglieli prima.
«Sono bellissimi»
Kanan annuì. Aprì e richiuse la bocca, anche stavolta, come a volerle dire qualcosa di più, ma poi abbassò lo sguardo e tacque di nuovo. Mari li prese dalle sue mani senza mai interrompere il contatto visivo e le sorrise: pur di non intrecciarsi con le parole, Kanan sembrava ostinata a trovare cento altri metodi alternativi per dichiararsi. Ma nonostante tutto, non era ancora disposta ad arrendersi.
«Come vedi non sono brava a dire quello che sento, probabilmente questo fatto non cambierà… a meno che le parole non me le suggeriscano Dia o il vino» e risero, ripensando entrambe all’insolita apologia delle stelle e della nostalgia fatta da Kanan la sera prima, «dopotutto lo sai che non sono una poetessa, sono solo una ragazza che ha vissuto diciotto anni su un’isoletta nell’oceano»
«Una pesciarola, direbbero in Italia»
«Una pesciarola, certo» ripeté Kanan con un confusissimo accento misto tra l’americano e il giapponese.
Si fermò un istante e si arrischiò a rialzare lo sguardo su Mari: l’espressione di lei era passata in poco tempo da imbarazzata a provocatoria, il che la fece subito avvampare.
«I’m sorry, Kanan» rise Mari vedendola più in difficoltà di prima, «è solo che dopo i fiori non credevo ti saresti spinta oltre»
«Beh, non è che tu mi stia facilitando il compito» sbuffò incrociando le braccia al petto.
L’altra le fece una linguaccia colpevole in risposta, che si riguadagnò la benevolenza di Kanan. Allora quest’ultima prese un profondo respiro, scrocchiò le spalle tese e si decise ad arrivare al dunque.
«Mari» la compagna si ricompose e strinse istintivamente il mazzolino tra i palmi, «quello che volevo dirti, stavolta per davvero... è che anche io ho sempre amato solo te»
Sentì l’esigenza di distogliere subito lo sguardo, incapace di reggere il peso delle parole che lei stessa aveva appena pronunciato.
Mari si accorse solo alla fine di aver trattenuto il respiro per alcuni secondi; e quando tornò a ispirare le parve di aver atteso quel momento da tutta la vita; nascose l’ampio sorriso dietro a quei fiordalisi un po’ stropicciati: secondo una vecchia tradizione orientale, il fiore perfetto per dichiarare i propri sentimenti. Si sorprese di quanto meticolosa fosse Kanan in queste faccende; e ogni volta scopriva un lato nuovo di cui innamorarsi, trovava una scusa diversa per volersi gettare tra le sue braccia e lasciarsi cullare, in completo abbandono; i suoi occhi, dopotutto, non avevano mai brillato così tanto.
Quando Zachary arrivò e portò via con sé Mari, Kanan rimase in piedi sul marciapiede a guardare l’auto allontanarsi per un bel pezzo. Leggera come una piuma, aveva l’aria di essersi completamente dimenticata persino di quanto l’appesantisse il caldo asfissiante di Los Angeles. Tutto era già avvolto nella luce calda del tramonto: le palme si stagliavano scure e alte a ritagliare forme nel cielo terso; il vociare dei turisti non accennava a scemare, e ancora un’afa compatta, a cui Kanan pareva immune, vaporava dall’asfalto sbriciolato. Le sembrava di essere dentro un set cinematografico: per le strade si accendevano i primi lampioni, come tante costellazioni che salivano al cielo, festose. La città delle stelle splendeva, ed era stupidamente certa che splendesse per lei.
Nel momento in cui, finalmente a casa, prese in mano lo smartphone, dimenticato da tutto il pomeriggio in una tasca laterale del suo borsone, realizzò di non aver ancora risposto al messaggio di Dia del giorno precedente. Accedette all’applicazione e con sua sorpresa vi trovò un’altra notifica risalente a qualche ora prima, di cui non si era accorta.
“Kanan ci sei? Mari mi ha inviato una cosa come 35 foto di pinguini, scrivendo solo un irritantissimo "PENGIN". Prima o poi compio un omicidio. Tu perché non rispondi? Devo allertare l'ambasciata giapponese?”
Si lasciò cadere sul letto, scossa da incontrollabili fitte di risate. Non sapeva davvero da dove cominciare per raccontarle tutto quello che era successo in ventiquattr’ore. Optò per la soluzione più estrema: partì dall’evento-bomba, con un messaggio a bruciapelo.
“Scusa, non ho avuto il tempo di risponderti… qui tutto bene: ieri sera ho baciato Mari”
Inviò. La replica di Dia arrivò rapida come se l’era figurata.
“Tra mezz’ora ho pausa pranzo, vedi di chiamarmi per cortesia”.





 
Note finali
Due parole: Adorable dorks
E altre due bonus: Googly eyes (cercate su youtube "Aquarium of the Pacific", la playlist del canale con le mascotte dell'acquario è delirante)
 
Prossimo aggiornamento: 1 novembre
 
Grazie di aver letto,
Alex
   
 
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