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Autore: BenniBennis    26/10/2020    0 recensioni
Un’estate dal profumo di cambiamento, l’amore che quando arriva non lo fa mai senza creare danni, amicizia, famiglia, danza, divertimento, intrighi, litigi, scelte. Quella che era nata come una vacanza diventerà un’esperienza unica per una giovane venticinquenne desiderosa di dare una svolta alla sua vita. Ma non sarà facile gestire i cambiamenti.
“Nell'ansia che ti perdo ti scatterò una foto”.
Prima Originale a capitoli, ci ho messo il cuore, spero apprezziate :)
Grazie.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 3 – Maracaibo, mare forza nove. Fuggire sì, ma dove?
 
 
Sembrava avessero previsto il mio arrivo, fatto stava che la combinazione “me” e “balli latinoamericani” era una delle mie coppie preferite. Quando avevo iniziato a studiare danza tradizionale, a diciotto anni, il primo corso che avevo fatto era stato proprio quello dei balli caribici e sudamericani, perché li consideravo molto giovanili e sfrenati, in sintonia con la mia ribellione inziale. Me ne ero innamorata subito. Non c’era lezione che perdessi, o passo che non imparassi in due minuti; non mi stancavo mai, e di ritorno dalle lezioni universitarie, mi mettevo a ballare anche a casa da sola. Mi piaceva perché mi divertiva, e quello che cercavo a quell’età, era lo svago di una nuova vita. Avevo proseguito con altri balli, ma il merengue, la salsa, la bachata e il resto avevano mantenuto un posto in risalto nel mio cuore: appena sentivo una nota tipica improvvisavo una sequenza di quei passi che tanto conoscevo bene.
Sotto consiglio di Roberto, ero andata da papà (che mi aveva fatto fare anche un giro nell’immensa cucina e presentato un gran numero dei suoi colleghi) e gli avevo chiesto cosa facessero lì la sera, rimanendo sempre vaga e senza accennare al discorso con l’animatore.
«Dipende.» aveva iniziato, mentre batteva una fetta di carne. «Sarò sceso una o due volte, sono troppo stanco quando stacco, ma cambiano quasi tutte le sere. Fanno cose a tema, spesso. Stasera vai a vedere?»
«Sai, non so…» avevo mentito rigirandomi una ciocca nei capelli. «Se ho tempo.»
«E cosa devi fare di così speciale?» rise.
Alzai gli occhi al cielo capendo che ero sgamata, e ammisi che avrei fatto un salto. Di Roberto però nessuna parola.
«Allora ci sentiamo stasera, prima che scendi. Aspettami, non dovrei fare tardi.»
Annuii, poi mi sussurrò svelto: «Va’ via, che se ti beccano qui mi fanno nero.»
Teatralmente feci un gesto di paura e scappai fuori. La strada verso casa me la feci di corsa, e mi meravigliai che non mi fossi persa e che avessi memorizzato la via. Dopo aver fatto le scale rapidamente, entrai e chiusi la porta alle mie spalle, e mi lasciai andare ad un sorriso di cui non sapevo nemmeno io l’origine. Non potevo essere felice solo per quella sera. Forse stavo realizzando che quei mesi sarebbero significati realmente felicità. Spensieratezza e felicità.
Il sole delle sette era quasi del tutto scemato, ne rimaneva solo uno straccio che proiettava le ombre sui pavimenti, e le nuvole soffici che si erano formate le ultime ore non annunciavano per niente pioggia.
Preparai cena, e il sorriso non mi lasciò nemmeno in quel momento. Non mi avrebbe abbandonato tanto facilmente, l’avrei tenuto stretto a me come tesoro inestimabile. Perché lo meritavo, sapevo di meritarmelo e non trovavo il motivo per il quale non dovessi combattere per conservarlo. Era mio, ero io, e sarei stata di nuovo la Margherita solare di un tempo, tanto remoto quasi da non ricordarlo. E forse sarei stata anche meglio.
 
Colsi il bussare alla porta come la manna, e non persi tempo per andare ad aprire al visitatore.
«Pronta?» chiese.
«Sissignore.» scherzai. «Dai, vieni un attimo dentro, stai un po’ con me. »
Tanto che la serata mi stava passando bene, dimenticai anche tutti i problemi con l’uomo e lo trattai tanto bene come non era mai successo.
«Vedo che sei contenta.» fece cenno alla mia espressione. «Anche dalla tua disponibilità ed accoglienza. »
«Potrebbe darsi.» risposi prontamente. «Ma potrebbe anche darsi che davvero sia disposta a cancellare il passato, o almeno a far sì che il presente possa curarlo»
Buttò giù il misero bicchiere d’acqua che gli avevo offerto e aveva annuito, asciugandosi le labbra con la manica della bianca giacca.
«Venezia ti ha reso saggia.»
L’argomento non fu più toccato, e ascoltai per cinque minuti un brevissimo riassunto di quello che aveva fatto quella giornata.
«Scappo, che sto dormendo in piedi e che poi ti faccio perdere la serata. »
Da solo, senza che lo accompagnassi, si avvicinò all’uscio, poi si girò per rivolgermi un ultimo saluto.
«Sai già il tema di stasera?» sorrise stanco.
«No.» mentii svelta.
Lo sguardo che mi rivolse era una traduzione di “non me la dai a bere”, poi aggiunse un “buonanotte Strega” e un “non fare tardi” paterno e la stanza si silenziò non appena la porta fu chiusa ancora. Come una molla a pressione, mi alzai dalla sedia e corsi allo specchio che si trovava in un’anta dell’armadio, e portai le mani ai capelli; avevo deciso di acconciare loro per ultimi, così iniziai la mia treccia caratteristica. Le dita ormai erano abituate, e a fare una lisca di pesce ci mettevo circa cinque minuti, muovendo i ciuffi a una velocità impressionante. Come sempre, la feci ricadere su una spalla e feci in modo che alcuni ciuffi laterali del viso uscissero dai ranghi. Con i capelli sistemati, diedi un ultimo sguardo alla figura slanciata allo specchio e cercai di capire se fosse vestita adeguatamente. La fascia blu oltremare monocolore le cingeva il busto in modo aderente e le lasciava un paio di centimetri di pancia e schiena scoperte; i jeans a sigaretta sottolineavano la magrezza e la lunghezza delle gambe, affusolate nonostante ai piedi portasse un paio di scarpe prive di tacco. Sulle spalle nulla, le clavicole leggermente sporgenti scoperte. Potevo sembrare una sgualdrina? Ma arrivai alla conclusione che era estate, che volevo divertirmi, e che l’ultima cosa a cui dovevo pensare erano gli abiti e l’impressione che avrebbero dato alla gente.
Con la paura di imbrattare troppo gli occhi, feci soltanto due passate di mascara nero e arrossii le guance con del fard leggero. Più mi guardavo allo specchio, più diventavo dubbiosa se andassi bene, così afferrai il cellulare al volo dal tavolo, lo infilai nella tasca posteriore del pantalone e uscii.
I lampioni ai lati della strada, nascosti dalle piante, illuminavano quasi a giorno la via, e passare inosservati era praticamente impossibile. Il viale era isolato, perché, come avrei imparato poco dopo, di lì non ci passava assolutamente nessuno, se non con le auto per uscire ed entrare nella proprietà. Di pedoni nemmeno l’ombra, potevi iniziare ad incontrarli una volta passato il piccolo arco che portava ai prati e agli appartamenti.
E infatti, superate le prime due distese di erba, incontrai una famiglia con due bambini addormentati tra le braccia dei genitori che si dirigevano alle camere; un po’ ancora inesperta, feci il loro percorso in modo inverso, e mi resi conto che stavo attraversando la strada che quel pomeriggio avevo percorso fino ad incontrare Roberto ed il ristorante. Solo che di notte si era trasformata, e insieme al buio era arrivata anche un’aria più tranquilla. Le piscine alla mia sinistra, se quel pomeriggio straripavano di bagnanti e donne sui lettini al sole, adesso erano come morte, colorate da luci che davano loro sfumature verdi e viola; era uno spettacolo bellissimo, nonostante monotono.
C’era un problema: dove sarei dovuta andare? Un minimo di spiegazioni Roberto me le avrebbe potute dare, e invece ero ferma in mezzo a una strada, senza sapere dove dover dirigermi.
Ad istinto iniziai ad avanzare, superando il vialetto del ristorante e tutto l’intero edificio. E fu allora che la sentii. Una musica, una salsa, e non potei trattenere il mio cuore da un salto nel petto. Aumentai il passo, quasi a tempo di musica, e svoltai a destra fidandomi del mio udito: un piccolo piazzale, coperto da un telo spesso e bianco, rifletteva molte luci colorate e una canzone a volume altissimo. E poi c’era gente, c’era tanta gente; non potei che andare loro incontro. La maggior parte era seduta a tavolini che prendevano gran parte del piazzale, altre ad un bancone di un grande bar stile hawaiano, altri ancora erano in pista che arrancavano passi di danza.
Io, quasi i piedi si muovessero da soli, mi avvicinai allo spazio lasciato ai balli, e mi poggiai a un muro di bassi edifici che intuii trattarsi di negozietti vari. La voglia di ballare era tanta, ma resistetti perché la vergogna quasi ancora mi soffocava. Avrei fatto bene a vincerla, o mi sarei rovinata la vacanza tra imbarazzo e timidezza.
Mi ricordai improvvisamente di Roberto e lo cercai tra la folla, ma con scarso esito: le luci deformavano i tratti principali dei volti, ed era impossibile che trovassi quello del ragazzo; anche perché, se facevo mente, mi resi conto che di lui avevo impresso solo i capelli gelatinati e un orecchino. Doveva trovarmi lui, o non ci saremmo visti quella sera.
Quando un dito mi toccò una spalla, credei che ci fossimo incontrati alla svelta, ma voltandomi non ritrovai Roberto. La prima cosa che vidi furono gli occhi adombrati piegati in un sorriso, poi scesi fino ad incontrare una distesa di trentadue denti che abbagliavano con la luce artificiale. Che gli prendeva tutta la parte sinistra del volto, aveva un trucco rosso e dorato, come se una fiamma gli circondasse l’occhio e gli incendiasse lo sguardo. Mi guardava e sorrideva, e non dava segni di volersi allontanare.
«Mi concederebbe questo ballo, signorina?»
Aveva una voce giovane, e il tono con cui me lo aveva chiesto e la mano porta con il palmo all’insù erano così gentili che rari ragazzi avevo incontrato in quel modo.
«Ehm… Io…» biascicai.
«Non preoccuparti se non sai ballare, ti insegno io su due piedi.» e aggiunse un occhiolino a quel sorriso. «Fidati.»
La musica quasi al massimo del volume copriva un po’ le sue parole, ma riuscivo a comprenderlo abbastanza bene.
«Il problema non è quello, anzi.» precisai subito. «Sarai capace tu di stare al mio passo?»
“Che atteggiamento sfacciato” pensai subito, ma non ebbi tempo di correggermi perché lui parve accettare la sfida, e abbassò la mano stringendola saldamente alla mia destra; poi, senza aggiungere altro, mi trascinò sulla pista, ma in un angolo privo di altre persone, liberi di poterci muovere. Riconobbi nella prima nota una famosa vecchia canzone merengue della fine degli anni novanta, e fui contenta di iniziare il genere che amavo di più. Lo trovavo così movimentato, più di tutti gli altri messi assieme, veloce e pieno di passi.
«Ti piace il merengue?» mi chiese il ragazzo prima che il pezzo iniziasse con le parole.
«È quello che preferisco.» ammisi seria.
«Allora siamo a cavallo.» sorrise di nuovo, lasciandosi illuminare innocentemente lo sguardo dal trucco elaborato.
Il pezzo iniziò ad entrare nel vivo e in quel momento soltanto capii che non mi sarei per niente risparmiata: sapevo ballare, era da tanto che non lo facevo, e a quanto pareva avevo anche trovato un partner abbastanza capace.
Feci incrociare d’istinto la mia mano destra con la sua sinistra, mentre posai l’altra sulla sua spalla; di risposta, sentii una presa salda ma non arrogante sulla mia schiena, e lì i passi uscirono da soli. Davvero ormai il ballo mi scorreva nelle vene unito al sangue, perché era così facile per me, come respirare; la musica trasportava talmente tanto che non mi dovevo nemmeno applicare a riconoscere il variare di note e ritmo.
Passai il primo minuto in silenzio, seria, concentrata negli occhi del mio ballerino per una notte e tanto curiosa, in fondo, di conoscere anche lui. Adesso, sotto la forte luce della pista, in effetti notavo che poteva avere circa la mia età, forse qualcosina di più. Ed era davvero bravo, c’era poco da criticare.
«Hai studiato danza?» gli chiesi mentre mi dava mano per una giravolta.
«Sì.» tornò alla presa alla mia schiena. «Anche tu, immagino.»
«Lascio giudicare a te.»
Volevo essere professionale, perché sapevo che stavo facendo una cosa in cui ero molto capace, ma non riuscii ad esserlo per più di un minuto. Poi iniziai a ridere, divertita. Erano anni che non passavo una serata del genere, e mi passò per la mente anche di trovare Roberto e ringraziarlo di cuore per avermi avvisato, perché quelli erano i momenti più belli che avevo passato da quando avevo messo piede sull’isola.
«Ti faccio ridere?» domandò accigliato.
«No!» esclamai perdendo un minimo il ritmo. «È che sono contenta.»
«Oh, questo mi fa piacere.» mostrò ancora una volta il sorriso; questo era semplice, ed oltre a questo, anche bello. «Da quanto sei qui»
Lasciai la risposta in sospeso, presa dai passi che decidemmo muti di complicare un tantino, aggiungendo anche dei movimenti di braccia che si incrociavano alternativamente.
«Sono arrivata ieri pomeriggio.» spiegai.
Buffo come non cercassimo nemmeno fiato, come non sembrassimo stanchi o ci mancasse il respiro mentre infilavamo squarci di discorso nel ballo.
Presa dai miei pensieri, non mi accorsi che lasciò la presa dalle mie mani e le posizionò sui miei fianchi, per poi fammi effettuare una giravolta accompagnata; sussultai, e lui se ne accorse.
«Ti ho sorpreso?» sorrise sghembo. «Ben arrivata comunque.»
Senza perdere il ritmo della canzone, accennò un inchino che mi costrinse a bloccarmi. Quello senza dubbio mi sorprese.
Poche battute mancavano alla fine della canzone, e la concludemmo di colpo come la concludeva il cantante. Senza accorgercene, ci ritrovammo viso contro viso, un paio di centimetri a separare i nostri nasi. A quella vicinanza riuscii a distinguere anche le pagliuzze d’oro che risiedevano nei suoi occhi nocciola, nonostante la luce artificiale confondesse tutto. Solo quando abbassò le palpebre riuscii a rompere l’incanto che avevo preso, e mi resi conto con calma che un grande applauso giungeva alle mie orecchie. Ma non poteva essere per me, certo che no, non per noi; c’erano troppe persone, e non potevano applaudire noi. Eppure, voltandomi e dando le spalle al ragazzo, gli sguardi che incontrai erano rivolti verso me.
«Dio mio, che vergogna.» mormorai e automaticamente posai una mano sugli occhi.
Ma sentii lo sconosciuto tirarmi via da quel posto, e speranzosa mi augurai che mi stesse facendo allontanare. Il contrario: mi trascinava proprio al centro della pista, guardandomi solo di tanto in tanto per irradiarmi coraggio con un sorriso.
«No, no.» feci subito. «Io non ci vengo lì in mezzo! Scordatelo.» ma erano parole al vento.
«Infatti ti sto trascinando, qual è il problema?» ribatté ridendo.
Sentivo gli occhi di tutti seguire la mia figura e quella del ragazzo, e tentai di liberarmi dalla sua stretta intorno al mio polso, ma era bella salda come quella precedente sulla mia schiena. Non sapevo nemmeno come diavolo si chiamasse, e non potevo urlargli contro il suo nome arrabbiata.
Alla fine al centro della pista ci arrivammo, e questa fu immediatamente sgombrata apposta dai ballerini che si trasformarono improvvisamente in spettatori, tutti a guardare me e il mio ormai partner.
«Andiamo, DJ, un’altra.» sorrise lui facendo segno alla postazione console dietro di noi, rialzata su un palchetto.
«Maledetto.» sussurrai trai denti. «Non so manco come diavolo ti chiami.»
«Questo non è importante, fidati.» rise, poi si rivolse di nuovo al ragazzo dietro al computer. «Qualcosa di simpatico.»
Allungai seccata lo sguardo al DJ e ci trovai un ragazzo rossiccio e un paio di cuffie intorno al collo. Gli dava corda così facilmente che si dovevano conoscere per forza.
La canzone fu scelta, io e il ragazzo rimanevamo immobili a tre passi di distanza, le braccia morte ai fianchi, aspettando il prossimo pezzo che avrebbe regalato una performance al pubblico trepidante. Le prime note si fecero sentire, e rimasi quasi sconvolta da quella canzone.
«“Maracaibo”?» chiesi sottolineando.
«Ah, la conosci?» fu la risposta.
«Ne conosco anche una coreografia, me la insegnarono quando ero ragazzina.»
Ricordavo benissimo, come se fossero passati solo un paio di giorni, la mia storia con quella canzone. La prima volta che me la presentarono la odiai, trovandola insensata. Ma quando mi fu presentata la coreografia e la provai per un paio di lezioni, il mio rapporto mutò e finii per amarla e ballarla con piacere. Anche il testo era divertente da interpretare con i passi, come diceva la mia insegnate.
«Ma oggi la balliamo insieme.» sottolineai a bassa voce, giusto per fargli capire che a trovarci in quel luogo eravamo in due e ne saremmo usciti in due. –Okay?»
«Nessun problema, bella mora.»
«Che fine ha fatto la tua parte gentile?» quasi mangiai trai denti.
«Cosa hai detto?»
«Balla.»
Iniziammo a muoverci in contemporanea al via del testo, e ciò che ballammo era tanto veloce che di rado riuscimmo a fissarci negli occhi; raro era che ci fermassimo sul posto per più di due secondi. Ma non mi stancavo, e non mi sarei fermata fino al silenzio. Se lui conduceva quella serie di movimenti convinto di farmi stancare e farmi fermare affannando, si sbagliava un bel po’.
«Innamorata?» chiese quando riuscimmo ad incrociare gli occhi.
«Di Miguel?» seguii il testo che in quel momento stava passando. «Nah.» feci svogliata. «Tu chi saresti? Pedro?»
«Può darsi.» fece sornione.
«Quanto ti stai basando su questo testo?» domandai non appena mi strinse in un abbraccio.
«Balla.» sentii al mio orecchio, e sussultai rendendomi conto della mia citazione e di quella vicinanza.
Fui spaventata, spaventata di qualcosa che non conoscevo, e mi allontanai di scatto con la scusa di improvvisare qualcosa, spostandomi dalla parte opposta dello spiazzo e osservando il ragazzo che ora mi stava di fronte: era vestito con una tshirt nera a mezzemaniche e un gilet rosso sopra, pantaloni scuri e scarpe comode al ballo.
«Tornò Miguel, tornò.» dissi ad alta voce. «La vide e che fece?»
«Impallidì.» rispose confuso lui. «Quindi?»
Mi si era riavvicinato senza che me ne accorgessi, presa dallo scrutare il suo sguardo improvvisamente accigliato. Per diversi istanti smettemmo di danzare, rimanemmo immobili a osservarci a pochi centimetri, dimenticandoci che intorno a noi c’era un pubblico abbastanza numeroso.
«Il cuore suo tremò, e quattro colpi di pistola le sparò.» spiegai. «Potrebbe essere pericoloso.»
“Frottola”. Nella mia vita non c’era nessun Miguel geloso, e non c’era ragione di preoccuparsi. Odiavo le persone precipitose e non ero innamorata di nessuno, ma lo feci credere talmente bene che per quella sera e per altre qualsiasi iniziativa maliziosa scomparve dalle sue decisioni.
Passammo il resto della canzone a ballare seriamente, facendoci scattare un sorriso quando qualche sequenza risultava particolarmente ben riuscita. Alla fine raccogliemmo un altro grande applauso che ringraziammo con un inchino a mani unite.
«Posso offrire da bere alla mia ballerina per una sera?» mi chiese gentilmente avviandosi al bar hawaiano.
«Grazie, saresti molto gentile.»
Concludemmo la serata al bancone su due sgabelli altissimi, da soli in chiacchiere, come se tutte le prove spudorate di prima non ci fossero state. Patti chiari, amicizia lunga, insomma.
«Potrei finalmente sapere il tuo nome, adesso?» risi, concentrata sulla cannuccia della mia semplice Coca.
«Simone. Sono Simone.» e allungò una mano. «Il tuo?»
«Margherita.» risposi prontamente e afferrai quella stessa mano che pochi minuti prima aveva toccato vari punti della mia figura.
Non aggiunsi di chi fossi figlia, passai per una cliente normale.
«Complimenti, sei davvero brava a ballare.» poi finì il suo mezzo bicchiere di birra.
Arrossii sicuramente, conoscendo le mie reazioni a determinate frasi, e aggiunsi subito: «Anche tu! Tanto! »
«Ormai ci sono abituato, qui me lo dicono tutti.» sorrise con sguardo perso, facendo tintinnare un grosso anello d’acciaio sul bicchiere.
«Come?» feci confusa.
Con una scrollata di spalle spiegò: «Sono il ballerino nella crew di animazione. Insieme a quella bambolina lì, la vedi?» indicò una ragazza minuta ma con un fisico da far concorrenza al mio che stava ballando di fronte a un numero discreto di persone scoordinate. «Irene. Io e lei ci occupiamo delle coreografie e di tutto ciò che riguarda la parte ballata negli spettacoli.»
Svariati punti continuavano a rimanermi oscuri, ma mi vergognavo leggermente a dover far la parte dell’ignorante.
«Non ne hai mai visto uno, di spettacolo, è così?» capì al volo.
Mi morsi le labbra e annuii timidamente.
«Tranquilla.» rise.
Mi spiegò così in poche parole come funzionasse lì la sera, come tutti gli spettacoli a tema riempissero le calde serate estive nel piccolo palazzetto che avevo visto quella stessa mattina, andando avanti fino alle undici, quando tutti si spostavano lì, in quel posto a cui veniva assegnato il nome, appunto, di “Piazza”, dove il tema cambiava ancora e la musica regnava su tutto fino all’una a notte inoltrata.
«Ti sei persa un bel “The four elements”, stasera.» disse indicandosi il trucco. «Sarà per quando lo rifaremo.»
«Non mancherò, stanne certo.»
Si era trasformato, ancora. Se a primo impatto mi era parso gentile e con il passare dei minuti irruento, adesso era di nuovo diventato garbato e disponibile.
«Dongiovanni, vieni, ci servi in pista.»
Ci voltammo insieme e vedemmo venire verso di noi Roberto, anche lui con un trucco simile a quello di Simone, ma azzurro.
«Roberto!» sorrisi sorpresa. «Ciao!»
«Ehilà, sei venuta alla fine, ho visto.» mi salutò. «In pista con questo qui sei stata fantastica. Gli hai dato filo da torcere. Nemmeno Irene ci riesce, complimenti.»
«Oh, be’… Grazie.» dissi indecisa: cosa si doveva rispondere in una situazione come quella?
Simone si alzò e si voltò verso me: «Mi auguro allora di vederti ancora qui in serate come queste, Margherita.»
Feci cenno di sì con la testa e gli regalai un ampio sorriso, poi si allontanò battendo rumorosamente le mani a tempo con il pezzo che avevano appena messo. Notai Roberto sedersi al posto di Simone e iniziare a giocare col suo bicchiere vuoto. Ma non mi soffermai su di lui, avevo gli occhi fissi sui movimenti disinvolti ma allo stesso tempo coinvolgenti di Simone al centro dello spiazzo.
  
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