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Autore: Lucie_the_storyteller    28/10/2020    0 recensioni
Roma, 2022
Martino e Niccolò vivono insieme da ormai tre anni e sono più felici che mai.
Nico si è laureato e sta per iniziare il suo tirocinio per diventare insegnante di musica, mentre Martino frequenta il secondo anno di medicina.
La vita di Nico, però, viene sconvolta da una notizia inaspettata, che lo porterà ad abbandonare Roma, e soprattutto l’amore della sua vita.
Quattro anni e mezzo dopo, le loro strade si incrociano nuovamente.
Attenzione: Mpreg e tematiche delicate.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: What if? | Avvertimenti: Mpreg, Tematiche delicate
Capitoli:
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Toronto, martedì 28 aprile 2026

Il soffitto della stanza era sempre lo stesso.

Erano quasi tre anni che ci dormiva, in quella stanza, e il soffitto non era mai cambiato.

Bianco, liscio, con il lampadario appeso leggermente fuori centro: se stavi steso a letto lo notavi chiaramente, che era troppo a destra.
Nonostante ciò, comunque, Niccolò si trovava spesso a fissarlo, quel soffitto, come se, da un momento all’altro, quello potesse decidere di cambiare.

Sapeva che avrebbe dovuto alzarsi ed iniziare a prepararsi per il lavoro, ma non trovava la forza di farlo.
E poi il letto era così morbido, e caldo, e confortevole… quasi quasi chiudeva gli occhi per qualche minuto ancora…

No. Doveva andare al lavoro!

Aveva già perso ben quattro giorni, a causa di quella dannata crisi depressiva. Si era ripromesso di non lasciare che la sua mente gli rubasse tutto ciò che di bello la vita aveva da offrirgli, e per la miseria, lui da quel letto si sarebbe alzato.

Magari tra qualche minuto?

Ok, solo un paio, ma solo perché, in realtà, era ancora molto presto.

Intanto poteva organizzarsi il lavoro.

Sì, ottima idea; pensare al suo lavoro gli avrebbe fatto venire voglia di andarci.
A molti fare l’insegnate di musica in un liceo di Toronto sarebbe sembrato un lavoro deprimente, o inutile, ma lui lo adorava.

Non è che sperasse di trovarsi tra le mani il prossimo Mozart, anzi, la maggior parte dei suoi ragazzi non sapeva neanche tenere dritto uno spartito; ma che importava? Lui si divertiva un mondo a far capire loro quanto bella fosse la musica e come ognuno di loro potesse, in qualche modo, farne.

E poi, un paio di suoi ex studenti (ai quali aveva potuto insegnare solo per il loro ultimo anno) si erano iscritti a scuole di musica o a conservatori; uno era persino tornato a trovarlo per ringraziarlo, perché lo aveva incoraggiato a provare ad entrare al Conservatoire de musique de Gatineau, ed era stato preso.
“Prima di lei pensavo che non sarei andato al college; e che non avrei mai studiato musica perché i miei credevano che sarebbe stata una scelta che non avrebbe portato a niente, ma ora sono lì che si vantano con tutti i loro amici perché hanno un figlio al Conservatoire de musique de Gatineau!” gli aveva detto.

In quel momento stava preparando due ragazzi, Rachel ed Kurt, per le audizioni alla Julliard.
Gli dispiaceva aver saltato le lezioni con loro, che erano sempre puntuali e precisi. E poi, ne andava del loro futuro. Doveva proprio scusarsi con i due, decise; e doveva cercare in tutti i modi di recuperare le ore di preparazione perse.
Quel giorno aveva qualche ora buca… poteva cercare di sfruttarla al meglio.

Era talmente assorto nel cercare di organizzare le lezioni in modo da riprendere il filo delle spiegazioni che erano state sospese da non accorgersi del rumore di un paio di piedini in avvicinamento.

<< Papino? Sei sveglio? >> sussurrò una vocina dalla porta, aperta solo per uno spiraglio, dal quale entrava prepotentemente la luce dell’alba dal corridoio.
Niccolò si riscosse, e smise di fissare il soffitto, per voltarsi verso l’uscio.

Quando il lavoro non era sufficiente a motivarlo e farlo alzare dal letto, ci pensava lui; quel piccolo esserino dai grandi occhioni color verde-nocciola, da taglio così simile a quello dell’unico uomo che avesse mai amato con tutto sé stesso.

Romeo Fares, di tre anni, impaziente come pochi, alla mancata risposta del padre, entrò nella stanza, premurandosi di chiudere la porta, perché sapeva che, quando il genitore stava poco bene, non amava la luce.

<< Papi? >> ripetè piano, prima arrampicarsi sul letto.

Il piccolo, infatti, era molto basso e magrolino, per la sua età; tanto che tutti i suoi compagni d’asilo lo superavano abbondantemente in altezza.
Niccolò sapeva che quello l’aveva preso da lui; che, in prima media, veniva preso in giro perché sembrava un bambino delle elementari.
Le uniche altre cose che il piccolo aveva preso da lui erano i capelli ricci e la sfumatura verdognola degli occhi, che, però, mutavano a seconda della luce, fino a raggiungere la tonalità nocciola del suo altro padre.
Per il resto era tutto Martino.
La forma del viso, del naso, delle labbra. Il colore dei capelli. Le mani.
Aveva visto le foto di Martino da bambino, Rachele gliele aveva mostrate la prima volta che Nico era rimasto a dormire a casa sua dopo che si erano (finalmente) cosciuti, con grande imbarazzo da parte di Marti.
Romeo era identico; faceva persino le stesse espressioni.

<< Papipapipapipapi… lo so che sei sveglio. >> lo chiamò ancora.

<< Oh no, mi hai beccato! >> gli ripose alla fine l’uomo, alzandosi di scatto, afferrando il piccolo per le ascelle e iniziando a fargli il solletico.

<< No, papi… non è giusto! >> si lamentò il bambino tra una risata e l’altra, dimenandosi fra le braccia del padre.

Niccolò ridacchiò per la prima volta in quattro giorni, dando un bacio sul naso lentigginoso al piccolo, che gli strinse le braccia intorno al collo e le gambette attorno al busto, come un piccolo koala.

<< Mi sei mancato tanto tanto. >> borbottò contro la sua spalla.

Niccolò sospirò, appoggiandosi alla testiera del letto. Nonostante fosse molto piccolo, Romeo sapeva del suo disturbo; Nico glielo aveva spiegato nella maniera più semplice possibile appena il bimbo aveva avuto l’età di capire.

Aveva sempre saputo che, ogni volta che aveva una crisi, faceva preoccupare qualcuno: prima i suoi, poi Maddalena; e alla fine Martino e i loro amici. Finite le fasi depressive, quando pian piano iniziava a sentirsi meglio, non poteva fare a meno di sentirsi un po’ in colpa per la preoccupazione a cui aveva sottoposto coloro che amava, nonostante si fosse sempre trattato di adulti o quasi, consapevoli ed autonomi.
Da quando aveva avuto Romeo, quel senso di colpa si era raddoppiato.
Fin da quando era in fasce, troppo piccolo per capire perché il suo papino non poteva occuparsi di lui, e quindi doveva occuparsene suo zio Ezio.

Quante volte, sentendo il bambino piangere disperato perché voleva suo padre, aveva pianto anche lui, ripetendosi mentalmente di essere un pessimo genitore.

Qualche mese prima, su consiglio del suo terapista, aveva spiegato a suo figlio il suo disturbo, cercando di essere più semplice ed ottimista possibile.
Gli aveva detto che, ogni tanto, si sentiva molto felice e voleva fare tante cose, ma altre volte si sentiva tristissimo e stanco, e che quindi, fino a che non si fosse sentito di nuovo bene, sarebbe stato lo zio ad occuparsi di lui.

<< Anche se papino sta male, e tu devi stare un po’ con lo zio, papino non smette di volerti bene, capito? >> aveva detto poi, ricordandosi come il dottore avesse insistito su quel punto, dicendo che doveva far capire al bambino che non era lui il responsabile del disturbo: << Non è colpa tua se papino è triste, ok? A volte capita di sentirsi tristi, a volte capita anche a te, vero? >>

Il piccolo aveva annuito, con i lacrimoni agli occhi:

<< Ecco, a volte capita anche ai papini. Solo che per me è più difficile stare meglio, perché mentre sono triste così penso a tutte le cose che mi rendono triste tutte insieme e divento ancora più triste. Purtroppo per il tuo papino è così. >>

Romeo a quel punto era scoppiato a piangere e gli era saltato in braccio:
<< Non voglio che sei triste, papino! >> aveva singhiozzato.

Niccolò lo aveva abbracciato, facendo un enorme sforzo per non mettersi a piangere anche lui.

<< Non devi piangere, piccolino. Va tutto bene. Quando sono triste pensare a te mi fa stare un po’ meglio, quindi sorridi, perché sei bellissimo e papino ti ama tantissimo. Non devi dimenticartelo mai, promesso? Qualsiasi cosa succeda papino ti vorrà sempre bene. >>

Il bambino si era staccato da lui e lo aveva guardato con un’espressione che aveva ricordato a Niccolò un altro bambino, solo un po’ più cresciuto, in una delle sere che si era rivelata una delle più importanti della sua vita; due ragazzi, su un tetto, una notte che sembrava lontana anni luce.

<< Anche tu non devi dimenticarti che ti voglio sempre bene. Ci sono sempre io con te papino. >> gli aveva detto Romeo, con due occhioni serissimi, nonostante il suo visetto paffuto da bambino fosse tutto rosso per aver pianto: << Ti voglio tanto tanto tanto bene. >>

E Niccolò non aveva saputo se ridere o piangere, per quella promessa che ne ricordava tanto un’altra.

<< Papino? >> lo richiamò Romeo.
Niccolò si accorse di essersi perso nei suoi pensieri per qualche secondo, e ora il bambino richiamava la sua attenzione.
<< Cosa c’è, tesoro? >>
<< Oggi stai meglio? >> gli chiese, premendogli le manine sulle guance, costringendolo a fare un’espressione da pesce lesso.
<< Sì sto meglio >> borbottò, costretto dalla posizione in cui il bambino gli forzava le labbra.
<< Allora mi porti allo zoo? >> gli chiese, speranzoso.

Nico sospirò. A Toronto c’era uno zoo molto grande, il più grande del Canada, e a Romeo piaceva molto andarci, anche se ci era già stato parecchie volte.

Per Natale zio Ezio aveva regalato al bambino un abbonamento annuale, che era stato apprezzato in modo direttamente proporzionale a quanto era stato usato.

Anche a Nico piaceva andarci, ma sarebbe stato molto più bello se non si fosse trovato a quasi un’ora di macchina dalla loro casetta ad Euclid Avenue, a Little Italy.

Anche i suoi da piccolo lo portavano spesso al Bioparco, ma solo quando Nico ci aveva portato suo figlio si era reso conto quanto sfiancante doveva essere stato per i suoi: il bambino saltava da tutte le parti, correndo in qua e in là per vedere tutto, e l’uomo temeva sempre di perderlo o che qualche malintenzionato glielo portasse via. E poi, aveva capito quanto la fatica, quella vera, quella che solo un genitore con un lavoro a tempo pieno e con un figlio di tre anni carico di zuccheri ed eccitazione che lo tirava per la mano ovunque, incurante del fatto che il suo papà tutte quelle energie non le aveva più, poteva capire.

E poi, dopo una giornata passata tra l’ansia per aver perso di vista il bambino per qualche attimo e una staffetta quattro per quattro in solitaria tra gli animali dell’Africa, si doveva salire in macchina e guidare per un’ora (se ti andava bene) per tornare a casa; ovviamente dopo aver ordinato un’enorme tazza di quella brodaglia imbevibile che era il caffè di quel continente, ma che tornava piuttosto utile se dovevi mantenerti vigile e atto alla guida dopo una giornata del genere.

Non aiutava il fatto che, puntualmente, Romeo resisteva al massimo un quarto d’ora prima di crollare addormentato nel suo seggiolino, e Niccolò si trovasse solo con i suoi pensieri che spaziavano da “mamma che fatica” a “non mi sento più i piedi”, che non erano affatto utili a stare svegli.

Nonostante ciò, Nico avrebbe fatto quella strada anche tutti i giorni pur di vedere il suo bambino felice.

Quel giorno, però, non era il caso.

Tantopiù che era mercoledì, e il giorno successivo doveva andare al lavoro, a Romeo aveva l’asilo.

<< Mi dispiace, piccolino. Oggi no. >> gli disse: << Papino è ancora un po’ stanco e domani non possiamo stare a casa a dormire. >>
Il bimbo fece un piccolo broncio, che, di solito, gli faceva ottenere tutto quello che desiderava.
<< Però, se fai il bravo, ti porto a prendere un gelato. >> gli propose:
Il broncio del bambino vacillò per un momento. Lui adorava i dolci, ma adorava di più lo zoo. Al broncio si unirono due occhioni da cerbiatto ai quali suo padre non resisteva.
<< E se fai il super bravo, sabato andiamo allo zoo per tutto il giorno. >> capitolò l’uomo.
Romeo sorrise, soddisfatto. Un’intera giornata allo zoo era più divertente di un pomeriggio.
<< Ok. Tanto io faccio sempre il bravo. >> rispose, annuendo convinto.

Era vero, pensò Nico, nonostante fosse un po’ viziato e decisamente troppo intelligente per la sua età, Romeo non si comportava mai talmente tanto male da costringerlo a punirlo seriamente.
L’unica volta che, in preda ad un capriccio astronomico, gli aveva disubbidito ed era corso via mentre erano al parco giochi, Niccolò aveva dovuto solamente ordinargli con aria seria di andare in camera sua a pensare a cosa avesse fatto, aggiungendo: << Quando sei scappato mi hai fatto preoccupare tantissimo; prova ad immaginare se non ti avessi più trovato. Sarebbe stato bello? Ne sarebbe valsa la pena solo per un capriccio di un momento? >>
Meno di un quarto d’ora più tardi il bambino gli era corso in braccio chiedendogli scusa in lacrime e ammettendo di aver avuto paura quando, voltandosi, non aveva più visto suo padre.
<< Non voglio che mi perdo e non mi trovi più!! >> aveva singhiozzato disperato, e nel suo cuore Nico aveva pianto un po’ anche lui.

<< Ehi, ma sentitelo. La maestra lo sceglie come capoclasse una volta e si crede già il più bravo dell’Universo! >> esclamò Niccolò, prima di iniziare di nuovo a fargli il solletico.
Romeo iniziò a ridere, mentre cercava di ribattere: << Io sono il più bravo… dell’Universo. >>
<< Ah, sì? E chi l’ha detto? Eh, chi l’ha detto? >>
<< Tu, papino! >> esclamò il piccolo, iniziando a solleticare il collo di suo padre.

Presto la camera fu riempita dalle risate dei due, e Niccolò si sentì finalmente meglio; e la stanza, ancora immersa nel buio, sembrò tingersi dei colori dell’alba, ed il lampadario fuori centro, sul soffitto, aveva perso ogni importanza.
 
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Tornare a lavorare dopo essere stato assente per quattro giorni fu, al solito, molto faticoso.
Il più delle volte doveva ripetere l’ultima lezione in modo da ricollegare l’argomento successivo, a beneficio degli studenti disattenti, ma quelli che invece lo avevano seguito, finivano inevitabilmente con l’annoiarsi.
Ma i suoi studenti svogliati non erano ciò che rendevano la giornata pesante.

Erano i suoi colleghi.
La maggior parte del tempo erano fantastici, davvero.

Ms. Marine LeBreton, la professoressa di francese, era una donnina tutto zucchero, che aveva definito Niccolò un bijou appena lo aveva conosciuto, e aveva sempre un dolcetto pronto per Romeo, il petite bombon.

Ms. Ada Kreizler, invece, era un donnone che avrebbe steso The Rock con un solo sguardo, che Nico aveva sempre visto bene come inserviente all’Oktoberfest, con quattro boccali di birra a braccio, e quattro insulti in tedesco urlati agli avventori ubriachi. Neanche a dirlo, insegnava ginnastica, e aveva una relazione segreta (e questo significava che a scuola lo sapevano tutti) con Mrs. LeBreton.

Poi c’era Mr. Lewis Jackson, che insegnava storia. Era un ometto pacato con gli occhialetti alla Albus Silente che, inizialmente, non avresti considerato più interessante della materia da lui insegnata; ma che invece amava viaggiare e che, nel tempo libero, giocava a lacrosse in una squadra che aveva vinto parecchi tornei.

E, a completare il gruppetto di colleghi con cui Nico si sentiva a suo agio, c’era Mr.Kyo Katesughi, che aveva circa la sua età ed era l’insegnante di informatica. Era anche l’unico altro insegnante apertamente gay; e gli ricordava un po’ Filippo.

Con tutti gli altri andava mediamente d’accordo, ma c’era una professoressa col quale, in un modo o nell’altro, finiva sempre con lo scontrarsi; ovvero Mrs. Lois Rotchild. Era una zitella acida che ce l’aveva a morte con qualunque essere umano di sesso maschile, e, in particolare, ce l’aveva con Niccolò.

Tutti i suoi colleghi sapevano del suo disturbo, e nessuno di loro aveva da ridire sulle sue assenze.

Nessuno, tranne la Rotchild, che non riusciva ad astenersi dal commentare ogni volta che Nico tornava a lavorare.

Quel giorno, come al solito, appena Niccolò aveva messo piede nella sala insegnati, prima dell’inizio delle lezioni, gli aveva chiesto ironicamente se fosse riuscito finalmente a rimettersi in pari con le faccende di casa: << Visto che voi uomini non siete multitasking e quindi non riuscite a lavorare e mantenere la casa insieme, avete bisogno di prendervi dei giorni di malattia… >>

L’affermazione venne puntualmente ignorata, e la donna era tornata a crogiolarsi nella sua frustrazione.

Nico si era seduto al tavolo della sala professori che solitamente veniva occupato dal suo gruppetto.
I quattro, che ormai considerava più amici che colleghi, avevano imparato che chiedergli ogni colta che tornava se stesse meglio lo faceva sentire un invalido, e quindi lo coinvolsero nella conversazione che stavano avendo riguardo l’apertura di una nuova gelateria un paio di isolati più in là.

Finite le lezioni del mattino, Nico si stava dirigendo in sala professori per la pausa pranzo, quando incontrò Mrs. Wallance, la professoressa di matematica.
Era una donna sulla quarantina tutta particolare; che portava sempre strane collane con perle colorate grandi come biglie con strani simboli incisi sopra.
Ricordava vagamente la professoressa Cooman di Harry Potter, vista anche la sua passione per la divinazione.
Per la maggior parte del tempo stava da sola, persa in un mondo a sé; e passava il suo tempo tra una lezione e l’altra a fare stese di tarocchi o altri rituali simili.
A Nico faceva un po’ pena, perché sapeva che la donna si era votata alle arti magico-divinatorie dopo la morte del marito, che era stato investito da un camion mentre faceva jogging, dopo che una cartomante le aveva predetto che presto il fato si sarebbe abbattuto su di lei.

<< Ah, Niccolò. Speravo di incontrarti. >> gli disse, fissando con sguardo vacuo lo spazio sopra la sua testa come se potesse vedere la sua aura o cose simili.

<< Volevo avvertirti: ieri sera stavo facendo una stesa e mi hanno detto qualcosa su di te. >>

Nico si chiese per un momento se con “loro” intendesse le carte o qualche strano spirito guida che la donna diceva di interpellare durante le sedute. Nel primo caso avrebbe dovuto sforzarsi di non ridere al pensiero del tre di pentacoli che balzava dal tavolo e diceva alla Wallance: << Bella zì, dì a Nicco che… >>; mentre nel secondo caso… beh, ansia… quella notte avrebbe dormito con la luce accesa.

<< Mi hanno detto che il tuo passato farà ritorno, che devi prepararti. >> continuò la donna, incurante dell’inquietudine che stava mettendo al collega, il quale iniziò a credere di essere in un film stile “Segnali dal futuro”: << Ho provato ad ottenere maggiori informazioni, ma il tuo futuro non mi appare chiaro. Fossi in te farei attenzione. Se vuoi una lettura sai dove trovarmi. >> concluse, per poi scivolare via, diretta nella sua aula, senza permettere a Nico di ribattere.

Quando raggiunse la sala professori e si unì a Lewis, Kyo e Ada, stava ancora ripensando al presagio della donna, e non rispose a Kyo che gli pose varie volte una domanda:

<< Ehilà… tesoro, guarda che parlo con te! >> lo richiamò allora l’amico.

<< Scusa, ero sovrappensiero. Ho incontrato la Wallance in corridoio. Mi ha detto che ha avuto un presagio su di me dalle carte. >>

Kyo ridacchiò: << Lasciala perdere quella. È tutta suonata. Pensa che tempo fa mi aveva detto che avrei incontrato la mia anima gemella in una notte di luna calante, ma l’unico ragazzo che ho conosciuto in quel periodo è stato Kyle. >>

<< Vuoi dire il tipo con cui continui a fare tira e molla da otto mesi e che inevitabilmente finisci col portarti sempre a letto? >> chiese Lewis, da dietro la rivista di National Geographic.

<< Oh, ti prego. Non posso avere una storia seria con uno che ha la sindrome del paparino. Insomma, se vuole chiamare paparino il tipo con cui fa sesso che vada a trovarsi uno sugar daddy, io ho due anni meno di lui. In più mi smontava sempre quando… >>

<< No, non voglio sentire questa storia un’altra volta! >> lo interruppe Ada, agitandogli contro il suo sandwich al pollo: << Se non vuoi una storia seria con lui, piantala di andarci a letto e trova qualcun altro! >>

<< Comunque, >> riprese, rivolta a lui: << Kyo ha ragione. La Wallance è bravissima ad insegnare, ma come cartomante fa schifo. Fossi in te non mi farei suggestionare dalle sue predizioni. >>

Niccolò annuì, rassicurato da quelle parole.
E poi, si disse “il tuo passato farà ritorno” poteva voler dire molte cose.
Di che preoccuparsi, quindi?
 
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Quando fu ora di tornare a casa, verso le cinque, Niccolò aveva completamente dimenticato le parole della Wallance, e già pregustava il gelato che si sarebbe mangiato con Romeo.

La radio dava un motivetto allegro, e l’uomo si mescolò presto alle altre macchine in strada.

Per andare a prendere suo figlio all’asilo, Nico doveva obbligatoriamente passare davanti al Toronto Western Hospital, davanti al quale c’era un semaforo che sembrava eterno.

Ovviamente lo beccò rosso.

Mentre aspettava il verde, iniziò ad osservare la vita che scorreva sui marciapiedi attorno a lui.
Le famigliole che passeggiavano, i gruppi di amici che scherzavano, i vecchietti che osservavano l’imbianchino che ridipingeva un palazzo.

Ma tutto sembrò fermarsi quando vide lui.
Camminava verso l’ospedale, un giovane uomo, della sua età, vestito con un paio di jeans e una camicia blu abbottonata fino in cima.
E i capelli… castano rossicci, uguali alla barba curata.

Era Martino.

Era più vecchio, rispetto all’ultima volta che l’aveva visto.
Ma non poteva essere lui, vero?

No, doveva essere qualcuno che gli somigliava.
E poi, era lontano, poteva essersi confuso.

Il clacson dell’auto dietro la sua suonò, e Niccolò si risvegliò dalla trace. Sul marciapiede l’uomo simile a Martino era sparito.
Ripartì, scuotendo il capo.
La suggestione per le parole della Wallance gli avevano fatto immaginare tutto.
Non c’era altra spiegazione.









Note:
Ehiaaà!
Lo so, avevo detto che avrei aggiornato di martedì, ma la settimana scorsa non è uscito niente... d'altrode, chi ben comincia...
Comunque,  spero che il nuovo capitolo vi sia piaciuto! 
Ditemi che ne pensate!
Bacioni!!

 
   
 
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