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Autore: Koome_94    29/10/2020    0 recensioni
"Aveva quarantatré anni, un lavoro avviato, una vita intera alle spalle. Lasciare Parigi per uno sputo di cittadina nel Vermont sarebbe stata una follia che avrebbe fatto rivoltare mamma e papà nella tomba.
E quindi era partito."

Teufort, Vermont, 1976
Spy torna in città dopo diciassette anni per ereditare la libreria dello zio, ma la quiete che immaginava viene presto interrotta da un favore che è costretto a concedere.
Scout l'ha combinata grossa e sua madre ha una trovata geniale per rimetterlo in riga: andrà a lavorare nella libreria dell'insopportabile amico d'infanzia della donna, e tanti saluti alle vacanze estive.
Pauling le vacanze le ha scordate da un pezzo: fra mille lavoretti risparmia per il suo sogno irraggiungibile e, nel frattempo, tenta in tutti i modi di riportare il sorriso sul volto del suo migliore amico.
Sniper è appena tornato dal Vietnam e, nonostante gli sforzi di Pauling, sorridere o uscire di casa sono le ultime cose che ha voglia di fare. Almeno finché, nel modo più impensabile, la libreria di città non inizia ad attrarlo oltre ogni previsione.
Quattro vite si incontrano fra gli scaffali della Forteresse Aux Livres.
Tutto a Teufort sta per cambiare.
Genere: Angst, Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Miss Pauling, Scout, Sniper, Spy
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ed eccoci qui, tornate operative in un fandom che andava di moda ormai un secolo fa. Che ci volete fare? Arriviamo sempre tardi alle feste.
Team Fortress era già entrato nei nostri cuori nel lontano 2015, ma ci è voluta una pandemia in varie ondate per farci venire davvero la voglia di scrivere di questi personaggi meravigliosi e squinternati.
Avevamo voglia di sei cose: Spy come titolare di una libreria, un po' di sano angst fornito dalla Storia con la S maiuscola, un pasino rurale degli Stati Uniti, una bizzarra relazione padre/figlio e tanta sana amicizia che tutto sommato sa più che altro di found family. E la speeding bullet, ovviamente.
In questa storia ce le abbiamo messe tutte.
Hope you enjoy! <3











1. Homecomings

 



 

 

Teufort, Vermont, Febbraio 1976

 

 

L’ultima volta che aveva visto Teufort era estate, come tutte le altre volte.
Le giornate erano lunghe e afose, le ombre nella calura del mezzogiorno come spilli e i ragazzini schiamazzavano correndo come matti lungo il sentiero che portava al lago. Anche a lui piaceva il lago, anche lui ci andava spesso. Era bello studiare al riparo delle fronde di un albero, con il tranquillo specchio d’acqua a riempire gli occhi e la risata bassa e serena di Rebecca dopo una sua battuta.

Di Teufort ricordava il verde dei prati, il giallo dei campi, la spensieratezza delle sere d’estate quando la Francia era distante un oceano e non doveva preoccuparsi di nulla se non di essere felice.
Erano passati tanti anni, e il ricordo di quei giorni spensierati aveva finito per scolorirsi come panni stesi troppo a lungo ad asciugare sotto il sole, fino al punto in cui non avrebbe saputo più dire cosa fosse accaduto davvero e quali vicende invece fossero frutto della sua immaginazione a posteriori.
La mano di Rebecca era davvero così morbida e piccola in confronto alla sua? I frullati in città sapevano davvero così tanto di frutta?
Soprattutto, quell’ultima notte, la Fiera di Fine Estate, le fiaccole e la banda che suonava nel gazebo… era successo davvero, o era tutto frutto di un sogno, un dormiveglia in cui i desideri si mescolano alla realtà fino a illuderci di aver vissuto una vita non nostra?
Non sapeva più dirlo, e il fatto che adesso, nel freddo polare della Teufort di Febbraio tutto fosse coperto dal bianco asettico della neve non era d’aiuto.
Erano passati diciassette anni dall’ultima volta, e tante cose erano cambiate. Il gazebo gli sembrava più piccolo di come lo ricordava, le vie del paese meno colorate. E Rebecca? Che ne era stato di Rebecca?
Grégoire sospirò, la mano gelata nonostante i guanti a stringere saldamente la maniglia della valigia.
Non aveva più senso pensare a Rebecca, non dopo tutti quegli anni, non dopo che le loro strade si erano ormai irrimediabilmente separate.
Certo era bizzarro che dopo tutto quel tempo il destino lo avesse ricondotto proprio a Teufort, ma dopotutto non era mai stato il tipo di uomo da credere alle forze superiori ed era per questo che alla fine aveva scrollato le spalle e aveva inserito la chiave nella toppa, spingendo piano finché la porta della vecchia abitazione non si era aperta.

Per un singolo istante, nel varcare la soglia di quella casa che per così tanti anni della sua giovinezza era stata sinonimo di estati felici e di libertà, aveva provato una malinconia pungente. Era ancora tutto come lo ricordava: l’ingresso con il portaombrelli di ceramica, le mensole cariche di libri, il corridoio che portava alle stanze da letto…
Se nella valigia non avesse avuto una copia del testamento di Zio Rémy avrebbe potuto giurare che, voltato l’angolo, lo avrebbe trovato come al solito seduto al tavolo della cucina con la pipa fra i denti e il giornale aperto alla pagina della cronaca internazionale.
“Il mondo sta andando a rotoli, mon fils, ed è tutta colpa nostra… Ce ne stiamo andando uno dopo l’altro e vi stiamo sbolognando tutte le nostre gatte da pelare. Ho pietà per la tua generazione, Grégoire.” gli diceva indicando con la testa i titoli dei giornali che riportavano le tensioni con la Russia.
Ma lo Zio Rémy non era un brontolone, e quando Grégoire, allora poco più che adolescente, lo guardava spaesato, lo zio piegava il giornale e gli rivolgeva un ghigno divertito, infilava la Guerra Fredda nel cassetto della credenza assieme alle altre notizie e si dedicava al suo nipote preferito, gli chiedeva come fosse andata la giornata, a che punto fosse con i suoi studi e se si divertisse davvero a trascorrere le estati in quel buco di Teufort.
Grégoire non aveva mai bisogno di mentire, con Zio Rémy. Non era come la mamma, ossessionata dal procurargli un matrimonio vantaggioso con una qualche figlia di parlamentare, né come papà, che già lo vedeva a dirigere l’azienda di famiglia. Zio Rémy era più come la nonna, testardo, originale, a modo suo rivoluzionario, e per questo gli era sempre piaciuto.
Era capitato in Vermont ancora prima della Grande Guerra per cercare fortuna, era finito a Teufort e si era sposato una ragazza del posto, Zia Lisette, che era mezza francese e quindi tutto sommato era stata vista di buon grado dalla famiglia a casa. Avevano aperto insieme la libreria, e quando Zia Lisette era morta subito dopo la Guerra, Zio Rémy aveva dedicato la sua anima al negozio.
Grégoire, che all’epoca aveva appena quindici anni, era stato spedito a Teufort per imparare l’Inglese, che a scuola era, secondo il modesto parere di papà, insegnato da un incompetente, e il vecchio prozio lo aveva accolto come un raggio di sole nell’improvviso e disturbante silenzio in cui la morte di Lisette lo aveva piombato.
Grégoire aveva iniziato a vivere in funzione di quei tre mesi estivi passati in America, lontano da casa, lontano dalle aspettative che i suoi genitori avevano per lui, lontano dai noiosi calcoli del fatturato dell’azienda di papà e finalmente vicino ai libri, alla Letteratura, alle sterminate foreste del Vermont che lo avevano accolto come un figlio, proprio come aveva fatto Zio Rémy.
Eppure, per quanto amasse il Vermont, per quanto i mesi trascorsi con Zio Rémy, con Rebecca e gli altri amici fossero i più belli dell’anno, Grégoire aveva sempre saputo che il suo futuro non sarebbe stato a Teufort e non vi aveva mai nemmeno sperato. Prima o poi, lo sapeva benissimo, le estati di vacanza sarebbero finite e lui se ne sarebbe tornato a Parigi una volta per tutte, avrebbe lavorato nell’azienda di papà e avrebbe detto addio ai libri, agli scaffali stracolmi, alle facce curiose dei clienti e ai bicchieri segreti di Cognac sorseggiati con Zio Rémy mentre discutevano delle faccende del mondo.
Era andata esattamente così, Teufort era rimasta chiusa a doppia mandata nella sua giovinezza e Zio Rémy era diventato solamente una grafia sottile ed elegante nelle lettere che riceveva due o tre volte all’anno dall’America. Almeno fino a Dicembre.
Lo aveva chiamato il notaio, era così che era venuto a sapere della morte dell’uomo. Una telefonata intercontinentale addebitata al ricevente, un “è il parente più prossimo del defunto” che gli aveva immediatamente fatto capire la natura della conversazione e la sorpresa di avere il suo nome citato nel testamento, accanto alla voce della casa e della libreria.
“E’ richiesta espressa del defunto che sia lei ad ereditare la proprietà e la gestione dell’esercizio commerciale.”
Grégoire era rimasto nel più totale silenzio per una manciata di secondi, poi aveva concluso la telefonata con un “vi farò sapere.”
Aveva quarantatré anni, un lavoro avviato, una vita intera alle spalle. Lasciare Parigi per uno sputo di cittadina nel Vermont sarebbe stata una follia che avrebbe fatto rivoltare mamma e papà nella tomba.
E quindi era partito.
Mosse qualche passo silenzioso all’interno della casa, guardandosi attorno per passare in rassegna gli oggetti, i mobili e i quadri. Sembrava che non fosse trascorso un giorno da quando era partito definitivamente per la Francia.
Appoggiò la valigia accanto al muro ed entrò in cucina rispettosamente, come se avesse profanato un luogo sacro, raggiunse la vecchia stufa e la mise in funzione, dando in pasto al fuoco un paio di pesanti ciocchi di legno accatastati al solito posto.
Al piano di sotto le vetrine della Forteresse Aux Livres, o Book Fortress, come la chiamavano gli abitanti di Teufort, erano coperte di giornali e impedivano ai passanti di indovinare il cambiamento che la piccola libreria di paese si apprestava ad affrontare.
Grégoire si scaldò le mani davanti alla stufa, senza ancora azzardarsi a sfilarsi i guanti, e un sorriso spontaneo finalmente occupò le sue labbra sottili.
- Bien - sussurrò fra sé e sé.
- Sono tornato a casa. -

 

 

*

 

 

La jeep scassata dell’Esercito lo aveva lasciato alle porte del paese, lo aveva chiesto lui. Non gli andava che la gente di Teufort lo sentisse arrivare, non gli andava che lo ricevessero con tutta la fanfara che spettava ai soldati. Aveva solo voglia di andare a casa, di percorrere il lungo viale sterrato in mezzo ai recinti, di lasciare il borsone sulla panca nel portico e ritirarsi al piano di sopra, nella sua camera, con il suo letto e le sue cose.
Sapeva benissimo che se lo avessero visto arrivare lo avrebbero fermato, gli avrebbero fatto un sacco di domande e non lo avrebbero più lasciato in pace.

“Allora, buon vecchio Mundy, che racconti dal fronte?”, “Gliel’hai fatta vedere, eh, a quei bastardi Viet Cong?” o ancora “Raccontaci, quante teste hai fatto saltare con il tuo bel fucile americano?”
No, decisamente non aveva voglia di dover rispondere a quelle domande, e per questo motivo si era caricato il borsone sulle spalle e si era incamminato a piedi lungo la strada coperta di neve.
Faceva freddo, eppure non provava alcun fastidio. Anzi, era grato alla nevicata che rendeva difficile, dall’interno delle case, distinguere le figure in strada.
Come sempre, la prima cosa che aveva visto arrivando era stata l’insegna di legno. “Welcome to Mundy Ranch”, citava la scritta in parte coperta dalla neve. Poi era stato il turno degli steccati, dei tronchi spogli degli alberi e infine aveva visto la luce calda di casa. Sapeva che lo avrebbero aspettato dentro.
- E’ arrivato! E’ lui, è lui per forza! Svelti, corri! Aspetta! - sentì gridare dopo che ebbe bussato alla porta.
Udì prima un rumore di passi, poi qualcosa di pesante cadere per terra e un’altra voce esclamare qualcosa di incomprensibile, poi finalmente l’uscio si aprì e l’uomo si ritrovò costretto a lasciar cadere il borsone per prendere al volo la ragazza che si era fiondata fra le sue braccia.
- Sniper! - fu l’urlo con cui lo accolse, l’unico rumore che era pronto ad accogliere senza fastidio. Dio, se gli era mancata quella voce.
- Snipes sei tornato, sei tornato davvero! -
- Ciao, Pauling! - la salutò a sua volta, stringendola a sé e sentendo il calore del suo corpo entrargli fin nelle ossa.
Tre anni, erano passati tre anni dall’ultima volta in cui l’aveva abbracciata, e ricordava benissimo gli occhi della giovane arrossati dallo sforzo di non piangere. Aveva sedici anni, all’epoca, ed era davvero poco più che una bambina.
- Fatti vedere… - sussurrò piano, portando le mani sulle sue spalle esili e allontanandola da sé quel tanto che bastava per guardarla in faccia.
La Pauling che si trovava di fronte era la Pauling di sempre, eppure vi era qualcosa di completamente nuovo in lei, una maturità che non aveva mai avuto l’onore di scorgere. La ragazzina che lo aveva salutato dritta e fiera come un cipresso quando era partito per la guerra era adesso una donna, nonostante gli occhiali storti e le guance rigate di lacrime.
- Oh scusa, avevo promesso che non avrei pianto e invece guarda qua che macello! Ah, Snipes, mi sei mancato tanto! Sei mancato a tutti! - continuava a ripetere senza quasi prendere il respiro, le braccia ancora allacciate attorno alla sua vita.
Solo a quel punto si accorse che dietro di lei, appoggiato allo stipite della porta, Dell Conagher stava sghignazzando, il braccio attorno alle spalle del giovane Pyro.
- Siete… siete venuti tutti. - osservò, stupito dalla sua stessa constatazione.
- Cosa pensavi, ragazzo, che ti lasciassimo tornare dalla guerra come una recluta qualsiasi? Venite dentro, voi due, che potete continuare ad abbracciarvi anche di fronte al camino. - rise l’uomo, facendo un cenno della testa verso l’interno della casa.
Pauling sciolse l’abbraccio e raccolse il borsone prima che potesse fermarla, e gli scappò da ridere a vedere la sua espressione concentrata nello sforzo di camuffare la fatica.
Appena ebbe varcato la soglia, tuttavia, fu il turno di Pyro di stritolarlo, come sempre eccessivo nel dosaggio della sua forza.
- Piano, figliolo, o lo spezzi ancora prima che possa essersi seduto! - lo riprese Dell, con il risultato di farlo immediatamente indietreggiare.
Pyro, con un enorme sorriso, zufolò qualcosa che interpretarono come uno “scusa” e tutti scoppiarono a ridere.
- Sei diventato più alto! - constatò Sniper con un sorriso affettuoso, uno di quelli che dedicava solo a coloro che si meritavano l’appellativo di famiglia.
Il ragazzo, che proprio come Pauling aveva lasciato ancora acerbo nel suo corpo di adolescente, drizzò la schiena e gonfiò il petto, annuendo tutto orgoglioso.
- Sì, ormai è più alto di me, lo sgorbietto… - commentò Dell, beccandosi un’occhiata divertita dagli altri.
- Beh, non che ci volesse molto! - replicò Sniper con un ghigno obliquo, facendoli di nuovo scoppiare a ridere tutti.
- Vacci piano, Sniper, non me le merito queste fucilate a bruciapelo dopo che ti ho tenuto in piedi il ranch per tre anni! - e senza il minimo rancore, con un sorriso caldo e amichevole, gli fece strada attraverso il suo stesso salotto fino al caminetto acceso e scoppiettante.
Assaporò ancora una volta quel soprannome, che indossava ormai da almeno vent’anni come una seconda pelle. Non aveva il sapore aspro dei comandi del Sergente, né l’aspetto consumato dei richiami dei commilitoni. No, il suo soprannome, in bocca ai suoi amici, tornava ad avere il profumo di casa, il colore delle fiere di paese in cui buttava giù tutti i barattoli di latta con una sola cartuccia. Sapeva di risate, non di guerra, ed era bello potersene riappropriare.
Pauling, asciugatasi sgraziatamente la faccia con una manica del maglione, lo spedì a farsi una doccia calda, e quando fu tornato in salotto la vecchia tavola era imbandita a festa, con pasticci farciti e torte fumanti.
- Quante ore avete speso per preparare tutta questa roba? -
Pauling lo prese per mano e gli fece un occhiolino.
- Le ore necessarie. - replicò, con quella lievissima vena saccente che gliel’aveva fatta stare simpatica fin dal primo giorno.
Risero molto, parlando dei vecchi tempi, degli anni trascorsi, delle faccende del ranch e delle novità di Teufort. Il fuoco scoppiettante nel caminetto li teneva al caldo e quando finalmente si salutarono gli sembrava passato il tempo di un sorriso da quando era entrato in casa.
Dell gli batté una pacca sulla spalla e coprì la testa calva con un berretto di lana, mentre Pyro accanto a lui si intabarrava nel cappotto e Pauling lo aiutava a riparare il viso con una spessa sciarpa colorata.
- Domani pomeriggio passo a darti una mano con la stalla, così ti riprendi le tue bestie. Te le ho tenute da conto mentre non c’eri. - fu il congedo di Dell e Sniper si ritrovò a pensare che non avrebbe potuto desiderare vicino di casa migliore: generoso, onesto e soprattutto discreto.
- Grazie, ti devo un favore. Buonanotte, ragazzi! -
L’uomo e il ragazzo si allontanarono lungo il sentiero, la torcia che fendeva ostinata il buio della notte, mentre lui e Pauling li guardavano sparire oltre la curva fino al confine delle due proprietà.
Quando l’ultimo bagliore fu inghiottito dal buio, finalmente, la ragazza si voltò a guardarlo in viso.
Sniper non se ne accorse subito, rimase ancora qualche istante a fissare il buio a labbra serrate, e fu solo quando sentì la mano delicata di Pauling posarsi sul suo braccio che le parole lasciarono le sue labbra senza che potesse censurarle.
- Ti fermeresti qui, stanotte? Ci penso io ad avvisare i tuoi genitori, gli dico che fa freddo e ti riaccompagno a casa domani. -
Pauling finalmente riuscì ad incontrare i suoi occhi, e Sniper vide nel suo sguardo la stessa consapevolezza che vi aveva sempre scorto, perché Pauling era un’attenta osservatrice, perché Pauling capiva, sapeva.
Gli sorrise dolcemente, più come avrebbe fatto una madre che una sorella, e prendendolo per mano lo ricondusse all’interno.
- Snipes, lo sai, con me non hai bisogno di chiedere. - esordì, chiudendo la porta e sbarrando fuori il freddo dell’inverno, della guerra e di quei tre anni trascorsi lontani e soli e spaventati.
- Sei a casa, Snipes. Sei tornato a casa. - ripeté accarezzandogli delicatamente una guancia ruvida di barba, perché voleva che si imprimesse nella coscienza quella realtà.
Sniper sorrise, un sorriso molto più debole di quelli che si era imposto di esibire a cena con i ragazzi.
- Dio, grazie. - sussurrò.
Non riuscì ad aggiungere altro, quando scoppiò a piangere Pauling lo stava già abbracciando.

 

 

*

 

 

Jeremy chiuse la porta con un tonfo sordo, mentre un refolo di vento riusciva a intrufolarsi all’interno e a depositare un mucchietto di neve sul pavimento.
- Ma’, sono a casa! - urlò, togliendosi guanti e cappello e lanciandoli sulla cassapanca nell’ingresso.

Dalla cucina la radio accesa cantava allegra una canzone uscita da poco e sua madre fischiettava il motivetto azzardando qua e là qualche parola che stava imparando a mano a mano che il ritornello si ripeteva.
- Buongiorno tesoro! Andata bene oggi la scuola? - chiese la donna, il grembiule bianco legato stretto attorno ai fianchi e il cucchiaio di legno saldamente impugnato nella mano destra.
A chiunque sarebbe sembrata una domanda innocente, ma Jeremy sapeva riconoscere le velate minacce nella sua postura, e si ritrovò a rispondere con un sorriso tirato.
- Abbastanza bene, non… - ma la donna lo bloccò.
- Com’è andata l’interrogazione di Matematica? -
Jeremy arrossì violentemente, consapevole di essere stato messo con le spalle al muro.
- Dai, Ma’, l’ho fatto per sopravvivenza! Lo sai che il prof mi odia, ho studiato, te lo giuro, però… -
- Jeremy Doyle, non è così che ti ho educato! Ho incontrato il professor Williams, cosa avrei dovuto dirgli quando mi ha raccontato che hai di nuovo marinato la sua ora? - lo rimproverò, le mani sui fianchi morbidi e le sopracciglia scure aggrottate in un cipiglio severo.
- Tanto anche se vado a scuola non cambia niente, te l’ho detto, ce l’ha con me… - borbottò il ragazzo mettendo su un piccolo broncio e ficcando le mani nelle tasche dei pantaloni.
Becky Doyle sospirò e si passò una mano sugli occhi in un gesto stanco.
- Jeremy, io non so più come dirtelo, sei troppo grande ormai per buttare via la tua vita in questo modo. Capisco che la scuola non sia il posto più divertente del mondo… - e qui il figlio esibì una smorfia schifata che la donna finse di ignorare.
- Però devi capire che è importante per te prendere il diploma. Non voglio che tu rimanga confinato a Teufort senza prospettive, e stai pur certo che se non ti metti d’impegno adesso non avrai molte alternative quando sarà l’ora di cercarti un lavoro. -
Jeremy sbuffò e si sedette a tavola, incrociando le braccia con fare contrariato.
- Beh, con gli altri sette figli ti è andata alla grande, quindi potresti anche accontentarti per una volta. -
Si accorse subito di aver detto qualcosa di inopportuno, e l’espressione severa e ferita sul volto di sua madre lo fece arrossire di nuovo.
- Scusa Ma’, non dicevo sul serio… -
Becky tacque qualche istante, poi si avvicinò al tavolo e prese il mento del figlio fra indice e pollice.
- E questo cos’è? - inquisì ancora, facendogli voltare appena il capo ed esaminando lo zigomo destro, sul quale svettava un segno rossastro che presto si sarebbe mutato in un livido.
Jeremy chinò il capo e non disse nulla, del resto sua madre conosceva benissimo la risposta.
Una rissa, l’ennesima, quelle da cui proprio non riusciva a tenersi alla larga. Ma doveva rimanere al passo con gli altri, doveva far vedere ai ragazzi che non era uno smidollato, un buono a nulla. Se si fosse tirato indietro davanti a una scazzottata chi avrebbe voluto più essere suo amico? Sarebbe diventato immediatamente uno sfigato, e questo proprio non poteva permetterlo.
- Jeremy… -
Scosse la testa rassegnata, ma aveva già finito di essere arrabbiata, per qualche motivo con il suo figlio più piccolo non riusciva mai a essere rigida troppo a lungo. Gli accarezzò dolcemente i capelli e gli posò un bacio sulla fronte, e finalmente vide le spalle del ragazzo distendersi.
- Stai facendo una torta? - chiese Jeremy per cambiare argomento.
Becky sorrise e annuì, tornando a dedicarsi all’impasto che aveva abbandonato nella ciotola accanto ai fornelli.
- Non è per te. L’altro giorno è tornato il figlio dei Mundy dalla guerra, è una specie di regalo di bentornato. -
Jeremy si alzò in piedi e aprì il frigo in cerca di qualcosa da sgranocchiare, ma non trovando nulla tornò a sedersi a tavola, tamburellando le dita sul piano di legno.
- I Mundy? - domandò, confuso.
- Sì, forse non te li ricordi, sono mancati qualche anno fa e il figlio è partito subito dopo per il Vietnam. Hanno il ranch vicino a Dell Conagher. - spiegò.
Jeremy alzò le sopracciglia e si strinse nelle spalle.
- Nah, mai sentiti, non me li ricordo. E quindi sto tizio è tornato dalla guerra? Figo! Spero sia più in bolla del vecchio Soldato! -
Becky si lasciò sfuggire una risata e prese a mescolare l’impasto, i folti capelli scuri tenuti lontani dal viso da un cerchietto azzurro.
- Decisamente, ed è anche molto più giovane. Povero caro, deve essere dura per lui… - osservò fra sé e sé, ma il figlio non la stava già più ascoltando.
- Uh, Ma’, a proposito di morti! - esclamò.
Becky si voltò di nuovo, un sopracciglio arcuato di fronte a quella frase bizzarra.
Jeremy rise e prese a dondolarsi sulla sedia, bilanciando il peso sulle gambe posteriori.
- Lo sai che riaprono la Book Fortress? E’ arrivato qualcuno a rimpiazzare il vecchio Rémy! - fece.
Sua madre arrestò di colpo il rimestare e poggiò la ciotola sul ripiano della cucina, voltandosi di scatto.
- Cos’hai detto?! -
Jeremy fece spallucce e quasi si ribaltò sulla sedia, recuperando il baricentro all’ultimo secondo.
- Non lo so, è arrivato uno nuovo. Non l’ho ancora visto, ma Tavish ha detto che non è di qui. -
Becky non disse niente, lo sguardo stupito tutto concentrato sulle parole del figlio.
- E non sai chi è questo straniero? -
- Boh, Ma’, no, non è che ho chiesto altro… - si giustificò Jeremy, alzandosi in piedi e ficcando un dito nell’impasto per assaggiarlo. Rimase sorpreso quando sua madre non lo rimproverò, ma non questionò oltre e approfittò della distrazione per prendere un secondo assaggio.
Per un momento ebbe la sensazione che sua madre volesse chiedergli qualcos’altro e gli sembrò che ci fosse una patina di malinconica speranza sui suoi occhi sempre allegri, ma durò solamente un istante.
- Non importa, lo scopriremo quando sarà il momento. - concluse finalmente la donna.
Jeremy annuì, lo sguardo ora posato fuori dalla finestra, dove la nevicata di poco prima si era trasformata in una vera e propria tormenta.
Per fortuna era già tornato a casa.

   
 
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