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Autore: AlessiaDettaAlex    01/11/2020    2 recensioni
[LLS!! Post-canon | KanaMari | presenza di OCs | è la storia di due amiche che si ritrovano dopo essersi perse di vista (di nuovo) | ed era una scusa per scrivere una fanfiction in cui Kanan e Mari flirtano incessantemente, ma a Los Angeles | uso intensivo di cliché e fluff, una spolverata di melodramma | 10 capitoli totali]
City of stars / Are you shining just for me? / City of stars / Never shined so brightly.
[“City of stars”, from La La Land]
«Fino a quando resti qui?» […]
«Settembre, probabilmente. Non sarà una toccata e fuga»
Un sorriso nuovo fiorì sul volto di Kanan, non previsto.
«Quindi rimani»
«Rimango»

[dal cap. 2]
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Kanan Matsuura, Mari Ohara, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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6. Il velo dell’incomunicabile
 
Would you take the wheel
If I lose control?
If I’m lying here
Will you take me home?
 
“Take Me Home”, Jess Glynne
 
«Quindi ho capito bene? State insieme? Insieme… per davvero? Se non me lo dice anche Mari non ci credo»
Mari e Kanan, a braccetto sul divano, sorrisero davanti allo schermo del portatile appoggiato sul tavolino.
«Confermo! Da quattro giorni, per la precisione!»
Dia dall’altro capo del mondo sembrava sull’orlo delle lacrime. Era per lei la notizia più bella di quel lunedì mattina - a Los Angeles era appena tramontato il sole su quella domenica assolata. Tastava sulla scrivania qua e là in cerca forse di un fazzoletto e faticava a trattenere le smorfie causate dalla crisi di pianto che stava per scatenarsi.
«Dia, non penso ci sia bisogno di essere così melodrammatici...»
«Non posso crederci, non devo più ascoltare le lagne di Kanan… mai più… mai più... da sei anni incessantemente… da sei anni» continuava a ripetere tra i singhiozzi.
«Ehi!»
«Oh
Nonostante il palese imbarazzo con stizza di Kanan per lo svelamento di altarini che sarebbero dovuti rimanere tra lei e la migliore amica fino alla tomba, Dia si asciugò gli occhi come se niente fosse e abbozzò un sorriso.
«Gli dèi devono aver ascoltato le mie preghiere»
«Hai finito?» commentò Kanan incrociando le braccia al petto.
«Mi sembra il minimo che ora tu sopporti un po’ me, come risarcimento per tutto il mal d’amore che ho dovuto sopportare io» disse, ma pur volendo suonare pungente, non riusciva a nascondere l’entusiasmo per la notizia.
Mari scoppiò a ridere, sebbene il discorso l’avesse messa in imbarazzo tanto quanto Kanan; una parte di sé, però, pensò a chissà quanto «mal d’amore» si sarebbero potute risparmiare entrambe ad essere state completamente sincere con qualche anno d’anticipo. Diede un’affettuosa spallata a Kanan nel tentativo di farla passare sopra l’alto tradimento dell’amica; poi rivolse la sua attenzione di nuovo alla webcam.
«Piuttosto, quando ci rivediamo, Dia? Mi manca uscire tutt’e tre insieme»
Il volto di Dia si addolcì visibilmente.
«Se tornassimo tutte a Uchiura, questo Natale? Io ho una settimana libera fino a Capodanno. Voi che ne pensate?»
Anche Kanan, merito in parte del cambio di argomento, si riaccese.
«Per me è perfetto! Ma devo prenotare il biglietto già da ora»
L’approvazione sollevata dalla proposta le portò a rivangare i bei tempi della fanciullezza, e cominciarono a raccontarsi storie vecchissime di quando andavano a cacciarsi in guai non richiesti in giro per l’isola di Awashima; esploravano lunghi percorsi scivolosi nei boschi, si arrampicavano sugli scogli, facevano tuffi dal molo e pic-nic improvvisati nei pressi del tempio; allora era Kanan che trainava il gruppetto e proponeva le gite più avventurose durante le stagioni calde. D’inverno, invece, coperta da strati di lana così fina che sembrava avesse il fuoco sotto la pelle, Kanan portava le amiche a pescare col nonno; la sera s’intrattenevano in lunghe chiacchierate in casa Matsuura davanti a tè bollenti e poi seguivano fantasiosi giochi di ruolo che potevano durare ore; almeno finché Mari non veniva portata via di peso da qualche dipendente degli Ohara, stanchi di vederla gozzovigliare in giro come una ragazzetta di periferia qualunque.
«Mari» venne allora in mente a Dia, «ma i tuoi genitori lo sanno? Di te e Kanan»
La domanda era stata posta con molta attenzione, perché Mari aveva la tendenza a nascondere ai genitori molte cose, anche decisive; e Dia riconosceva tuttavia che la natura della sua relazione con Kanan poteva essere argomento particolarmente delicato per la sua famiglia.
«Mia madre lo sa, ma non perché ho voluto dirglielo… non ho avuto scelta»
Kanan si voltò verso di lei, stupita.
«Non lo sapevo! E che ha detto?»
«Niente, che doveva dire? Quello che faccio nella vita privata è affar mio»
Aveva risposto con un’improvvisa malcelata stizza, tanto che sia Kanan che Dia rimasero interdette. I tentativi successivi di indagine, però, non valsero a ottenere le risposte che cercavano.
Nell’ora successiva alla videochiamata il malumore di Mari migliorò un po’, mitigato dalla presenza affettuosa della compagna. L’appartamentino di Culver City era avvolto in un assordante silenzio; Kanan le gettava rapide occhiate mentre controllava il dolce che aveva in forno: Mari apparecchiava la tavola, assorta in qualche mondo parallelo, tanto che si era persino dimenticata di indossare il suo sorriso di circostanza; pur essendo visibilmente impensierita dall’ultimo discorso fatto con Dia, non si era ancora decisa a rispondere alle domande a riguardo. Kanan allora pensò che valeva la pena fare un altro tentativo.
«Ti va di dirmi cosa è successo con tua madre?»
Non ricevette risposta, quasi che non l’avesse neanche sentita parlare; ma le lesse negli occhi un’estenuante lotta interiore.
«Mari» riprese più dolcemente, «se cominciamo già a non dirci la verità, quanto dureremo?»
Si guardarono un istante, Kanan posò sul piano cottura lo straccio che aveva tra le mani. Mari dovette ammettere a se stessa che aveva ragione da vendere; inspirò lentamente nel tentativo di trovare la forza che le era venuta meno.
«Mia mamma mi ha preso da parte, ieri sera» cominciò lei allora, ma nel parlare le si era già formato un groppo in gola, «è convinta che io abbia bisogno di conoscere nuove persone, che dovrei smettere di stare sempre con le solite amiche… è incredibile, da quando abbiamo fatto il viaggio in Italia dopo il diploma è come se non avessimo risolto nulla, ma solo spostato il problema: ora invece che parlare esplicitamente di obbedienza svia il discorso su ciò che crede sia il meglio per me… ma il risultato è comunque che cerca di impormi il suo volere…» fece un pausa in cui prese un altro profondo respiro, la prossima parte sarebbe stata la più difficile da riportare, «alla fine ha cominciato a parlarmi di certi “ragazzi interessanti” che conosce lei, figuriamoci… allora le ho dovuto dire di te e lei ovviamente mi ha risposto con le solite stupidaggini, arrogante come se avesse la verità in tasca… mi ha detto che tu non sei adatta a me, che mi distrai dal mio dovere… io l’ho odiata»
Aveva appena finito di parlare quando si ritrovò stretta tra un paio di braccia salde. Kanan non le disse nulla; avrebbe voluto darle un consiglio che le risolvesse il problema con un colpo di bacchetta, o quanto meno che caricasse magicamente su di sé tutta la sofferenza che Mari viveva con la sua famiglia. Ma si ritrovò impotente come e più di lei. La sentì nascondere gli occhi sulla sua spalla e iniziare a singhiozzare: e Kanan realizzò in quell’istante ancora, come già le accadeva da molti anni, che avrebbe dato la vita per lei milioni di volte.
 
La madre l’aspettava in camera, quella sera, nonostante Mari avesse fatto di tutto per evitarla al suo ritorno. Al vederla provò un moto ribellione così acuto che le sembrava di essere tornata alle superiori; non si scomodò nemmeno a nascondere il suo disappunto, tanto che la donna, seduta a gambe accavallate sul suo letto, dovette esitare un istante.
«Ho parlato con tuo padre»
Mari strinse i pugni.
«Beh, grazie di avermi risparmiato la fatica»
Rimase in piedi davanti a lei, a testa alta; poteva dirle quel che voleva, non avrebbe ceduto di un passo.
«Secondo noi dovresti stare con qualcuno che invece di distrarti dal tuo compito, ti aiuti a svolgerlo»
«Non ancora questo discorso, mamma. Non sposerò uno dei vostri “caldamente consigliati” giovani imprenditori»
La donna si alzò in piedi, infastidita da certa sfrontatezza che percepiva in Mari.
«E chi vorresti sposare? La ragazzina che passa la metà del tempo sott’acqua? Tu hai dei doveri… hai un futuro»
«Non parlare così di Kanan!»
«Lo sai che io non ti allontanerei mai dalle tue amiche! Ma questo è oltrepassare il limite!»
«Siamo innamorate, mamma, e non certo da ieri! Lei mi ama! Io la amo! E non credevo che avrei dovuto farti un discorso del genere per giustificarmi di qualcosa che riguarda me e solo me!»
Quelle parole quasi urlate echeggiarono tra le mura della stanza per un po’ di tempo ancora, a riempirne il silenzio. Sua madre la guardò, parve più addolorata che arrabbiata della risposta di sua figlia; si sarebbe quasi potuto dire che ne fosse mortificata, ma Mari non riuscì ad esserne certa, perché lei non disse più nulla: si diresse verso l’uscita e nel passarle accanto le lasciò una piccola pacca sulla spalla, che per qualche ragione alla più giovane fece più male di uno schiaffo in faccia. Non riusciva a capirla. La compativa, forse? Era un modo per dirle che dei suoi sentimenti a lei non importava niente, oppure che gliene importava abbastanza da dispiacerle per le cose che era costretta a dire? Costretta da chi, poi? Silenzio stampa. Senza dubbio le difficoltà comunicative erano un’amara costante dei suoi rapporti.
Lanciò la borsa sul letto con un grugnito infastidito e nello stesso istante le venne in mente suo padre: lui lo sapeva. Raggelò. Le sembrò già sufficientemente strano che non fosse venuto quella sera stessa a parlarle, al posto suo; ma ne era in realtà sollevata, perché non sapeva se sarebbe riuscita ad affrontarlo nel suo stato attuale. Sarebbe stato un osso duro. Si gettò a faccia in giù sul letto; le poche volte che nella sua vita si era dovuta arrendere al volere dei suoi era stato a causa dell’intervento di suo padre, sempre particolarmente perentorio. Allungò un braccio verso il guanciale e se lo trascinò fino a poterci nascondere la faccia; guidata dalla rabbia, desiderò per un istante essere risucchiata in un’altra dimensione, una in cui lei non era erede di un bel niente, non aveva responsabilità, non aveva su di sé nessun tipo di aspettative; una in cui non aveva genitori che non si erano nemmeno sposati per amore. Perché altrimenti, si ritrovò a pensare amaramente, l’avrebbero capita. Addolorata dai suoi stessi pensieri presto si ritrovò svuotata, un guscio fatto di stanchezza che non aveva più nemmeno la forza di arrabbiarsi; completamente accartocciata su se stessa, si addormentò.
Il mattino successivo, con suo disappunto, si rese conto che l’escalation di tutte le sue paure era appena all’inizio. Fu infatti fatta chiamare da suo padre nel suo ufficio e sapeva che stavolta non sarebbe stato per una rilassante seduta di lavoro insieme, condito da gesti paterni a riempire le pause; Mari non aveva voglia di prolungare oltre la sua agonia, per cui si affrettò a presentarsi. L’uomo stava controllando alcune carte, probabilmente riferite ai lavori di ristrutturazione, ma quando la vide entrare posò tutto sulla scrivania e scostò le sue scartoffie da un lato, con gesto lento della mano grande; poi incrociò le braccia e si appoggiò alla poltrona: un movimento che da bambina gli aveva visto fare tante volte quando doveva sgridarla. Da parte sua Mari, come la sera prima, una volta presa posizione all’interno dell’ufficio proprio davanti alla scrivania, non si mosse di un centimetro; ma nonostante l’attitudine fiera, aspettava che il padre cominciasse a parlare come se si trovasse di fronte a un giudice che stesse per pronunciare il suo verdetto. Se ne rimproverò mentalmente: era ridicolo che dovesse sentirsi giudicata su una questione così personale.
«Siediti pure»
Ma Mari non volle: rimase immobile nella sua posizione, lo sguardo torvo. Suo padre allora fece un lungo sospiro.
«Mari, lo sai che non voglio fare la parte del cattivo. Io non avrei niente contro le tue scelte se non dovessi affidarti un giorno la direzione di questo posto: avrai una grande responsabilità, difficile da gestire. Io e tua madre ci saremo il più possibile per te, ma ciò non toglie che sarà un incarico davvero oneroso. Credo che di questo tu sia consapevole»
Padre e figlia si guardarono un momento: lui, sebbene abituato a parlare, pareva ricercare con più attenzione del solito le parole da usare. Lei preferì non rispondergli: sapeva che c’era ancora dell’altro e aspettava che arrivasse al vero punto con impazienza.
«Noi ti consigliamo dei giovani del tuo rango non perché ci divertiamo a programmare la tua vita: lo facciamo perché sappiamo quanto un giorno potrà essere utile avere qualcuno al tuo fianco che ti aiuti concretamente nel tuo ruolo. Questo è il primo motivo per cui credo che stare con quella ragazza non ti sia d’aiuto» l’uomo chiuse gli occhi un attimo e prese un respiro, pensoso, «Su un altro piano, invece, sono del parere che non solo non possa aiutarti, ma potrebbe addirittura esserti dannoso»
Mari aggrottò le sopracciglia. Immaginava che la questione potesse rivelarsi più spinosa di quanto già non fosse: allora raccolse il coraggio a due mani e si decise a rispondergli.
«In che modo quello che faccio nella mia vita privata dovrebbe avere ricadute negative sul mio lavoro?»
Il padre non si scompose: tenne testa per qualche secondo allo sguardo della figlia coi suoi occhi vitrei, in cui si intravedeva il peso degli anni e delle sue proprie fatiche.
«Il lavoro imprenditoriale svolto ai nostri livelli ti rende in tutto e per tutto un personaggio pubblico, Mari. Le scelte che compi nella tua vita non sono mai solamente tue, appartengono a tutta l’azienda: la tua reputazione personale è collegata a quella di coloro che hai sotto la tua responsabilità. Tu ne rappresenti l’immagine. E deve essere un’immagine il più possibile scevra da… scandali»
Il volto di Mari si scuriva man mano che il padre aggiungeva argomentazioni che le sembravano senza capo né coda; ma l’ultima parola le fece montare una rabbia amara, di chi vorrebbe ribellarsi ma sa già che ogni replica sarebbe probabilmente inefficace come una goccia nell’oceano.
«Con chi sto non deve interessare a nessuno! Se la gente vuole scandalizzarsi, che si scandalizzi, a me non è mai importato di cosa pensano gli altri»
«Allora forse non sei più adatta a questo ruolo»
Mari gelò la sua furia immediatamente e stette col fiato sospeso di fronte a lui. Suo padre le suonava all’improvviso mortalmente serio, più di quanto avesse mai percepito in precedenza.
«Se non sei disposta a fare dei sacrifici forse non è questo il luogo per te. Io e tua madre ne abbiamo fatti e ne facciamo ogni giorno. Te lo dico col cuore in mano: non voglio più obbligarti a vivere una vita che non desideri… se sei decisa stare con lei allora l’Ohara Corporation non fa per te. Finirai il tuo percorso di studi in Italia e poi, laurea alla mano, sarai libera di decidere da sola per il tuo futuro. Sono certo che hai le carte in regola per avere successo qualunque strada tu scelga. Se ci vedremo costretti a designare un nuovo erede per l’azienda, però, dovremo dirottare su di lui una parte del patrimonio che ti spettava intero»
Mari era senza parole. Non riusciva a percepire se questo assurdo discorso fosse una sincera proposta di scelta oppure un’arma di un puro e semplice ricatto. Si era impegnata tutta la vita per ereditare ciò di cui aveva pieno diritto, aveva studiato, sudato, lavorato; grazie anche a quei tre anni a Bologna aveva realizzato che desiderava quel futuro per se stessa: non si capacitava di come proprio ora suo padre le proponesse a cuor leggero di sottrarglielo. Boccheggiò, sopraffatta dal ritmo accelerato del suo cuore; i pugni che aveva stretto le si sciolsero, sudati e tremanti.
«Aspetta… aspetta io… devo pensarci» si ritrovò a balbettare, dolorosamente disarmata.
Ridotta al silenzio, spogliata. Come tutte le volte che suo padre si esprimeva col pugno di ferro del risoluto imprenditore. Avrebbe voluto aprire il suo cuore, far uscire il dolore che lo gonfiava come una spugna, ma più guardava l’uomo davanti a sé più le parole le marcivano sulla lingua: lo fissava persa, impossibilitata a ricucire la figura del padre con quella dell’uomo in carriera; si sentiva vergognosamente docile, prosciugata delle proprie forze, stupida e indifesa. Inveì dentro di sé contro quel velo di incomunicabilità che li separava. Tutti loro.
Il padre fece un segno d’assenso e la invitò a congedarsi. Mari uscì, a passi lenti ed estraniati; nel fare le scale incrociò un paio di operai della sala meeting che la salutarono rispettosamente, ma lei passò loro accanto come un fantasma. Fuori dalle finestre, Downtown Los Angeles era pietrificata in una scultura bollente fatta di acciaio, vetro, bitume. Il sole compiva i suoi giochi di luce riflettendosi sulla superficie lucida dei grattacieli, cuocendo a fuoco lento tutta la vallata; non c’era un filo di vento. Eppure Mari tremava, e a incontrarla tra i corridoi la si sarebbe certamente data per malata: ma nessuno di quelli che la incrociava giudicò di doversi fermare.
Alla fine si era giunti di nuovo a questo. Il suo futuro o Kanan. Quando era più piccola, quando erano solo buone amiche, avrebbe senza dubbio privilegiato la seconda; provò vergogna nel rendersi conto che, in fondo, adesso non era per nulla scontato mettere da parte tutto per lei.
Dopo ore, ormai smarrita nella sua disperazione, decise che aveva bisogno di tempo per riflettere. Non andò a Santa Monica quel giorno, né il giorno dopo.




 
Note finali
Angst per Mari a tradimento? Angst per Mari a tradimento!
Il finale (dalla discussione col padre in poi, ma soprattutto quando Mari esce dall'ufficio) a mio giudizio è uno dei pezzi che mi sono espressivamente venuti meglio dell'intera storia (grazie al Maestro Carlo Emilio Gadda per gli spunti) <3

Prossimo aggiornamento: 11 novembre

Grazie di aver sofferto letto,
Alex
   
 
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