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Autore: _EverAfter_    03/11/2020    1 recensioni
Tobio Kageyama è un giovane pianista prodigio che ha vissuto tutta la sua vita in Austria. Vive in una vasta tenuta in periferia, circondato dalla dedizione dei servi e del fedele, seppur imbranato, maggiordomo Ittetsu Takeda.
Un giorno, a causa d'un impedimento fisico, comprende di non essere più in grado di suonare come vorrebbe e ciò lo porta a chiudersi in sé stesso e a rifuggire le occasioni di confronto col mondo esterno. Si mostra irascibile e scontroso, licenziando i copisti che assume per concentrarsi unicamente sulla composizione.
Finché un giorno Takeda si presenta alla tenuta con un ragazzino dai bizzarri capelli rossi e lo sguardo trasognato.
Tra liti, verità e segreti, Tobio si scopre più umano di quel che avrebbe creduto.
Genere: Hurt/Comfort, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Cantuccio di Ever

Ebbene sì, sono tornata!
Specifico subito che questa storia nasce, cresce e muore come mini-long, per cui non sarà nulla di così lungo d'ammorbarvi - qualcuno penserà "che sollievo", me lo auguro! ^^"
Come svarione iniziale, mi piacerebbe subito informarvi di com'è nata questa idea. Premetto che è stato più un colpo di testa che una vera e propria ispirazione. La verità è pura e semplice: ho passato un periodo davvero orribile, sotto ogni punto di vista. Da settembre a novembre non ho fatto altro che mostrarmi in continua apatia, e persino la mia "produzione" scritta ha risentito molto di questo mio stato mentale. Mi ero fatta addirittura l'idea che forse scrivere non sarebbe stato sufficiente a rimettermi in sesto, c'è una parte di me che continua a pensarlo.
Eppure, eccomi qui. Forse perché la scrittura trova sempre un modo per attrarmi a sé, in un modo o nell'altro.
Quindi questa storia vedetela come una specie di grido dell'anima, sì. Mi piace definirla in questo modo.
Tengo a sottolineare che ho scritto questa mini-long con uno stile molto "artificioso"; è qualcosa che può piacere e non piacere, ma mi scuserete se, per una volta, scrivo qualcosa che piaccia davvero a me, a scapito degli altri. E' un desiderio egoista, me ne rendo conto. Ma avevo bisogno di farlo, per cui sono contenta di averla scritta così com'è.
Come sempre, vi chiedo scusa se i protagonisti - soprattutto Hinata, maledetto - vi appaiono OOC, anche se vi giuro che ho sprecato settimane del mio tempo per riuscirlo a rendere il più IC possibile - anche perché lo ammetto, senza di lui questa storia non sarebbe mai nata.
Ringrazio chiunque legga questa storia, a prescindere dal fatto che si fermi a dirmi cosa ne pensa. E' un po' il mio ricominciare, per cui grazie davvero.
A presto,

Ever



Ottantotto



PRELUDIO



Le mani scivolavano veloci lungo i tasti del pianoforte a coda. Suonare era parte del gioco.
Ottantotto.
Ottantotto le volte in cui aveva creduto di non farcela. Ottantotto i tentativi. Ottantotto i fallimenti. Ottantotto le imprecazioni che gli ci erano volute per non arrendersi.
Ottantotto i tasti su cui viveva.
Respirò, riprese del fiato che non gli serviva davvero. Egli suonava, era sufficiente. D’altronde, chi diavolo se ne fregava di respirare, quando poteva suonare della musica così?
Aveva gli occhi chiusi, ma andava bene lo stesso. Non gli serviva guardare, per capire cosa stesse suonando.
Gli bastavano le orecchie. Un dono che gli era stato concesso, insieme alle dita affusolate che danzavano sul bianco accecante dei tasselli di luci e ombre, eterni rivali in uno scontro fatto di note alte e basse, binari paralleli di una musica che non si poteva suonare, se non con il cuore.
Sorrideva, mentre la melodia arrivava al suo attimo più importante. Era come una droga, per lui. Una dipendenza da cui non era mai riuscito a svincolarsi. Era preda di una bizzarra estasi, ed i Do maggiori riempivano la sala, e i Do minori la svuotavano.
Riempire. Svuotare. Un conflitto fatto di anime incapaci di poter afferrare quel briciolo di libertà che solo la musica poteva concedere loro.
Profani. La gente che sentiva, ma che non era più in grado di ascoltare.
Su quale musica avrebbe mai potuto ballare, quella gente? Se l’era chiesto molte volte, ma trovava solo risposte dai toni troppo cupi. Perché quella era una musica che non sapeva suonare.
E ciò che non si poteva suonare, non meritava d’esser ascoltato.
Le dita si fermarono, l’indice della mano sinistra non premette il tasto da cui s’animava il Si bemolle.
I timpani non avvertirono il placido tepore degli applausi. Si voltò verso il pubblico, l’indaco degli occhi s’offuscò alla vista delle bocche lasciate semiaperte per lo stupore.
Ritornò con lo sguardo sulle sue dita: il primo tremava; le seconde non si muovevano più.





Il giovane copista scese, accorto a che il gradino in ferro del treno non si facesse beffe di lui 
come al solito. Scaricò a fatica la pesante valigia in pelle, prestando attenzione al grande cartello posto all’ingresso dell’edificio: probabilmente doveva essere la cartina della stazione, ma egli non era granchè portato per le lingue.
S’accinse a tradurre quel poco ch’era stampato in inglese – non che se la cavasse meglio del tedesco –, ma le uniche due parole che comprese furono uscita e binario, cosicché iniziò a guardarsi attorno nella speranza di trovare colui che avrebbe dovuto prelevarlo.
— Signor Hinata —, sentì chiamare da una voce in lontananza, con un bizzarro accento perso in un connubio tra il giapponese e l’austriaco. — Signor Hinata, guardi qui!
Il giovane si voltò in direzione di un uomo alto, dai folti capelli bruni e un paio d’occhiali talmente grandi da sfumare i lineamenti delicati del volto pallido e smagrito. Shōyō chinò lievemente il capo, grattandosi nervosamente la nuca: probabilmente non era stata una decisione granché ponderata, ma qualcosa nell’affanno tormentato di quell’uomo sembrava accendergli ben più d’un campanello d’allarme.
— Buongiorno, — rispose con titubanza, — la stavo cercando.
— Domando perdono, ma Vienna oggi è affollata come non mai! — sbottò il bruno, sistemandosi gli occhiali sul naso sudaticcio. — Le chiedo scusa per il ritardo. Prego, da questa parte. — Gl’indicò la direzione opposta a quella che Shōyō aveva avuto intenzione di prendere qualche istante prima – il che sottolineava la sua poca familiarità con le indicazioni – e gli fece un cenno con la mano: — Lasci pure a me la sua valigia.
Il rosso fece come gli era stato detto; in un’altra occasione avrebbe certamente insistito per portarla da solo, dato che credeva pesasse troppo per un tipo mingherlino come quell’accompagnatore, ma aveva sentito dire ch’era un segno di profonda scortesia, in Europa, rifiutare un aiuto.
— Se possibile, — provò a dire, spaesato, — lei chi è?
L’uomo si voltò paonazzo verso il più giovane, sbraitando un isterico: — Mi scusi, sono un maleducato! Era tanta la fretta di venire qui a prenderla che ho scordato completamente di presentarmi! La supplico di perdonarmi!
Shōyō rimase inebetito per qualche istante, non comprendendo il significato di alcune parole che, nella fretta d’esser pronunciate, apparivano come di un’altra lingua – forse austriaco[¹], o forse ostrogoto, egli non avrebbe saputo proprio dirlo.
— Il mio nome è Ittetsu Takeda, sono il capo-maggiordomo di Mister Kageyama.
Il copista sbarrò lo sguardo, sorpreso e in parte rilassato all’idea di trovarsi di fronte ad un suo compaesano. — Quindi è giapponese anche lei?
— Sì, ma ho vissuto pochissimo in Giappone. — Uscirono all’aria aperta, attorno alla Stazione Centrale il frenetico via vai di Vienna pareva inghiottire le strade di cemento e il febbrile passare della gente appena arrivata coi treni. L’uomo s’avvicinò ad una lussuosa Mercedes carbonata, passando il pesante bagaglio ad un omone vestito di nero che Shōyō intese come l’autista. — Ho seguito i coniugi Kageyama qui in Austria quand’ero solo un infante, poi mi sono preso cura di loro figlio.
— Quindi il signor Kageyama non è mai vissuto in Giappone? — domandò ingenuo il ragazzo, mentre s’accomodava sul morbido sedile in pelle del veicolo.
— Esatto. — Takeda sospirò, dando delle breve indicazioni al conducente, poi riprese: — Ma nonostante questo, le posso assicurare che dispone della conoscenza d’un giapponese molto forbito.
— Non sarebbe comunque stato un problema —, borbottò il copista, pensando ch’egli non fosse ciò che si sarebbe propriamente definito come un madrelingua. A volte, se non vi avesse prestato attenzione, avrebbe sbagliato persino a scrivere.
— Le sono davvero grato per essere venuto, signor Hinata, — continuò il maggiordomo, sorridendo placidamente, — ultimamente non sono molti, coloro che accettano di lavorare per Mister Kageyama.
— E perché?
— Come posso spiegarle senza che lei fraintenda? — rise l’uomo, sistemandosi i ciuffi dei capelli che gli offuscavano la vista. — Diciamo che ultimamente il padrone è di pessimo umore, ecco tutto. È molto preciso, puntiglioso e pedante, il che manda nel pallone chi decide di lavorare per lui. Non è cattiveria la sua, solo…
— Beh, se bisogna fare qualcosa, allora è importante impegnarsi a farla bene, no? — chiese sorridendo il copista, lasciando il suo interlocutore ingiustificatamente perplesso.
Dalle poche battute che aveva scambiato con il ragazzo, Takeda era certo che appartenesse a quella comune categoria di persone che il suo padrone disprezzava di più: gaio, ingenuo, ottimista e con un bizzarro luccichio nello sguardo che pareva annientare il bagliore dei raggi solari. Un giovane trascrittore che probabilmente amava la vita e tutto ciò che da essa avesse mai potuto ottenere. Per certi aspetti, forse sarebbe stato più corretto avvertirlo di come Kageyama rispecchiasse fedelmente il suo più antitetico riflesso: cresciuto attraverso una rigida educazione tedesca, il piccolo prodigio s’era avvicinato al pianoforte ad un’età durante la quale il resto dei bambini si dilettava a sognare. Tuttavia, i sogni di Kageyama non erano nei cassetti, ma sugli ottantotto tasti del pianoforte a coda che suo padre gli aveva regalato per il suo settimo genetliaco. Non passò mai giorno senza che il suo padrone non si dilettasse nell’imparare un nuovo spartito, e col passare del tempo il bambino comprese che suonare una melodia già scritta lo ammorbava, procurandogli noia e null’altro.
Cominciò a comporre all’età di nove anni. Kageyama non aveva bisogno di un maestro, poiché egli la musica non la componeva; semplicemente, la trovava: nel fruscio delle fronde dei salici, nell’odore penetrante dell’humus autunnale, nel placido ronzio delle api durante le infiorescenze dei gelsi. Tutto ciò che la gente normale avrebbe definito come ispirazione, per Kageyama era come uno spartito già scritto e che andava solamente tradotto nella lingua della musica. Era un romantico, ma senza che ne fosse a conoscenza.
Quel quieto entusiasmo, ch’era sempre stato l’anima del suo creare, divenne presto offuscato da una banale diagnosi medica che veniva chiamata col semplice appellativo di distonia focale del musicista[²]. Non era nulla di complesso, né tantomeno mortale. A ben pensarci, se una cosa del genere fosse capitata ad un’altra persona, forse non avrebbe suscitato chissà che grave avversità. Ma per Kageyama, che aveva vissuto la sua vita solamente su quegli ottantotto tasti del pianoforte a coda, la consapevolezza di non essere più all’altezza di ciò che immaginava aveva rappresentato la totale perdita di senno: aveva cominciato a saltare i pasti, non si presentava alle cene organizzate dai facoltosi genitori, se la prendeva con la servitù e per tutto il tempo rimaneva rinchiuso nel grande salone dove c’era il pianoforte, strimpellando note discordanti, le quali apparivano come il lamento ostile dei reietti del Tartaro[³].
Takeda aveva osservato il padrone perdere la passione e cannibalizzarla in un’odissea per la perfezione, che tuttavia la malattia non gli concedeva il beneplacito di raggiungere; era come osservarlo correre verso un traguardo che s’allontanava ad ogni suo passo, il che aveva reso il giovane talento ancora più ostile nei confronti dei copisti che aveva cominciato ad assumere. Lo aveva fatto perché, se non avesse più sprecato tempo a riscrivere gli spartiti, forse i suoi muscoli lo avrebbero graziato dall’impasse di non funzionare più come avrebbero dovuto. Ma ogni volta che si ritrovava a leggere i trascritti, le urla di Kageyama arrivavano fin sulla torre più a nord della villa, facendo tremare l’intonaco disossato degli scantinati e le povere serve che gli preparavano il pranzo. C’era sempre qualcosa che non andava, un Do diesis omesso o scritto male, una nota saltata, un semitono di troppo. Ma la cosa che più irritava il prodigio non era l’errore tout court, quanto piuttosto le banalità con cui i copisti tentavano di giustificarsi: chi per sbadataggine, chi per noia o chi per un eccesso di tracotanza avesse cercato di modificargli la melodia, privandolo del sottile vanto della composizione, avrebbe finito per pentirsi del proprio operato, perdendo il lavoro e – attraverso continue mortificazioni – la dignità.
Il giovane copista accanto a sé, probabilmente, avrebbe dichiarato forfait nel giro di qualche giorno, se non ora. A Takeda non sembrava affatto un cattivo ragazzo, ma s’era scoperto più d’una volta incapace di giudicare apertamente il profilo caratteriale delle persone. Forse persino Kageyama gli era sconosciuto, sebbene gli fosse rimasto accanto per tutta la vita. Sperava solo che quella triste messinscena che durava ormai da anni finisse, e che il giovane prodigio desistesse dall’intento di chiamare a sé altri trascrittori.
— Com’è il signor Kageyama? — domandò infine la voce sbarazzina del rossiccio.
Takeda deglutì; forse non era un bene avvertirlo su ciò che stava rimuginando. — Non è un signore, al contrario. Credo che abbiate più o meno la stessa età.
— Sul serio? Credevo fosse più vecchio. — Lo vide portarsi una mano dietro la nuca e sorridere spensierato. — Immagino di essere più tranquillo adesso.
— E perché?
— Beh, perché lei l’ha chiamato Mister Kageyama. Per un attimo ho pensato che fosse un vecchio panzone con la barba. — Shōyō s’interruppe, portandosi una mano alla bocca per quanto appena detto: — Cioè, con questo non voglio dire che i panzoni con la barba siano delle brutte persone, intendevo solamente che è piacevole pensare che sia una persona della mia stessa età.
Il maggiordomo sorrise impercettibilmente. Con ogni probabilità la persona al suo fianco era una di quelle che straparlava quando si trovava in situazioni di disagio o imbarazzo – il che, sicuramente, non gli sarebbe servito per entrare nelle grazie del suo padrone.
Tuttavia, durante il resto del viaggio, Takeda pregò in cuor suo che quel ragazzo fosse diverso.





La Mercedes sfrecciava veloce sull’asfalto fumoso, inghiottito dal seducente lastricato di foglie ingiallite e rossicce, così vagamente rassomiglianti al colore che tingeva i capelli del copista, immerso nella contemplazione della natura nel suo lapalissiano soccombere al bussare violento dei primi freddi. La campagna viennese cedeva il passo al lussureggiante e ben curato manto conifero di Sankt Pölten, la cui vasta vegetazione di canneti accerchiava con le proprie poacee gli stagni lacunosi e dall’odore ruspante, lentigginati dalle piccole lenticchie d’acqua che parevano distendersi come un tappeto sopra lo specchio d’acqua. Con l’inasprirsi del periodo più algido era pressocché impossibile scorgere, in quell’immensità, la massiccia presenza faunistica ch’era appannaggio della bella stagione e che in quell’istante probabilmente s’apprestava ad abbandonarsi al dolce sonno del letargo.
Sankt Pölten era una di quelle realtà che trovava la sua realizzazione nel comune epiteto di ridente cittadina, ma per Shōyō costituiva ben poca cosa rispetto al frenetico brusio delle metropoli in cui era vissuto: Tokyo, Hamamatsu, Sendai; erano tutte realtà così immense che lambivano un concetto puramente astratto, lontano dalla vista farlocca dello sguardo. Non si potevano toccare, quelle città. Perché, banalmente, per lui erano troppo: le luci sgargianti della notte nipponica, il continuo calpestio delle scarpe sui marciapiedi sempre affollati, la ressa che si accalcava all’ingresso dello Shinkansen, l’intermittenza fastidiosa dei grandi tabelloni pubblicitari sui giganti di cemento e vetro, così alti che, a volerne vedere la punta, ci si sarebbe potuti smarrire nell’immensità del cielo plumbeo.
Per Shōyō quella vastità aveva posto un freno alla sua immaginazione, poiché in Giappone non si poteva vedere alcuna linea dell’orizzonte. E, dopo averlo capito, Shōyō s’era lesto accorto che il serafico quanto banale concetto d’infinito a lui, in realtà, spaventava. Per questo se n’era andato, e l’opportunità di farlo era balenata davanti alla sua persona sottoforma di una missiva in carta pregiata e che recava un bizzarro sigillo in cera rossa.
Sankt Pölten, a ben vederla, era una città che iniziava e finiva. Non era piccola, ma neanche grande. Forse avrebbe potuto perfino vederla tutta in un giorno – e la cosa, se vi avesse prestato l’opportuna attenzione, non gli sarebbe dispiaciuta affatto.
La macchina passò veloce lungo la strada che costeggiava il lembo acquifero del fiume Traisen, lasciandosi alle spalle il centro urbano per tuffarsi ancora una volta nella rigogliosa e familiare campagna austriaca, accarezzata dall’ondeggiare sereno dei prati smeraldini e dai cirrocumuli lattiginosi che correvano veloci sul cielo cianotico dell’autunno tardivo. In lontananza il copista scorse l’austera presenza d’un grande villone dai cancelli in ferro battuto, plasmati secondo la volontà d’un buongustaio, mentre all’orizzonte s’ergevano dei giganti torrioni in pietra, più larghi che alti e che parevano minacciare coloro che, incautamente, s’approssimavano all’edificio. Shōyō non poté esimersi dall’apparir rigidamente intimidito, e si strinse nelle spalle, facendosi più piccolo di quanto già non fosse.
— Non si preoccupi, — lo rasserenò il maggiordomo, — è un po’ inquietante, ma accogliente.
Il copista non rispose, certo che non fosse un buon momento per spiegare al suo interlocutore che attributi come inquietante e accogliente non venissero mai deliberatamente usati nella stessa frase. Rimase in silenzio, osservando i monumentali contrafforti che sorreggevano l’edificio, della stessa tonalità dell’argilla ancora fresca. Non poteva dire di non sentirsi in soggezione, eppure quella costruzione, ch’era così dissimile da tutte quelle che gli era capitato di vedere in Giappone, lo affascinava, così come la vasta pineta che sembrava avvolgere e proteggere la tenuta da occhi indiscreti.
— Non è come le case che c’erano in città —, disse infine, perplesso.
— No, non lo è, — convenne Takeda, sorridendo cordiale, — perché questa è una villa gotica. È stata costruita sul modello della Hermesvilla viennese[⁴].
Shōyō storse il naso: non era mai stato una cima in storia dell’arte, figurarsi poi trattare di architettura europea di cui a stento riconosceva i tratti più caratteristici. Tuttavia, il copista odiava mostrarsi impreparato su qualcosa, persino quando si fosse trattato di un argomento a lui del tutto sconosciuto. E fu così che, piuttosto incautamente, si ritrovò ad annuire come un architetto che non avesse fatto altro che progettare ville per tutta una vita.
— Capisco. — In verità non comprendeva affatto, ma questo il maggiordomo non poteva saperlo – né forse gli sarebbe importato davvero.
L’autovettura si fermò nell’eden antistante al grande ingresso sfarzoso, ricco d’intarsi barocchi che ricalcavano lo stesso motivo che fuggiva su per gli archi rampanti, perdendosi sulla mosaica pietra dei torrioni più grossi. Shōyō chinò il capo per ringraziare l’uomo che cordialmente gli aveva aperto la portiera e rimase imbambolato di fronte alla marmorea fontana che conquistava il suo sguardo nocciola: quattro eleganti cigni incastonati nell’eterno attimo di librarsi in volo, mentre l’acqua della sorgente scorreva tra le loro zampe palmate. Il copista non s’arrischiava a definirsi certo un critico d’arte, tuttavia era sempre stato uno di quei rari soggetti sensibili alla bellezza in ogni sua più intima forma. Era per siffatta ragione che non vi pensò due volte, prima d’esclamare con sommo entusiasmo: — Ma è meravigliosa!
I domestici, che s’erano radunati attorno alla vettura per concedere la riverenza al nuovo ospite, rimasero in silenzio scrutandosi preoccupati: quel giovane ragazzetto basso e dai capelli insolitamente arruffati doveva essere estraneo all’etichetta e al cerimoniale ch’era monopolio della più alta borghesia – e forse non era neppure mai stato ad una galà o ad un ricevimento. Dunque risultava a tutti evidente che quel copista, da solo, risultasse già una nota ben più che banalmente stridente.
— Buongiorno a tutti —, disse infine, voltandosi verso di loro e concedendosi ad un rigidissimo inchino col busto. — Chiedo scusa per non essermi presentato. Mi chiamo Shōyō Hinata e sono un trascrittore.
Uno di quelli più anziani s’avvicinò al ragazzo, scrutandolo con attenzione; nessuno tra i presenti era granché avvezzo all’inglese – tanto più a quel rottame di lingua con cui s’esprimeva il giapponese – e comprendere cos’avesse detto risultava ostico a molti di loro. Lo sguardo di Shōyō, ch’era così intelligibile da poterci leggere sopra le pupille, richiamò l’attenzione del capo-maggiordomo, il quale ripeté con perfetto accento austriaco quanto era stato appena annunciato dal giovane.
Al sentir pronunciare le parole del domestico più autorevole, quegli altri rasserenarono i volti e intiepidirono le smorfie arcigne, facendo un decoroso inchino. S’erano così assuefatti all’idea che anche quel moccioso sarebbe andato via presto, che non s’erano neppure premurati di chiedergli cosa gradisse per pasto: in fondo, nessuno di loro distingueva con chiarezza le tradizioni orientali, né tantomeno quelle nipponiche. I Kageyama potevano facilmente essere descritti come il più laido rigetto delle proprie origini, e lo s’intuiva guardando alla tenuta in rigido stile occidentale, privata in toto di quei piccoli dettagli ch’avrebbero potuto manifestare il loro malinconico sguardo al passato.
Il copista entrò nel vasto salone, il cui pavimento era ricoperto da pesanti quanto eccentrici tappeti persiani che risalivano sinuosi lungo la maestosa scalinata al primo piano; un po’ più in là della balaustra in ottone s’ergevano boriosi dei pretenziosi candelabri d’oro, e sull’intero locale torreggiava un lampadario adamantino, così sfarzoso da oscurare il ricco soffitto ricamato da manieristici scorci cavallereschi. Tutto, in quella regia, appariva assai borioso, come il dito ingioiellato d’un patrizio puntato contro la sozzeria della plebe.
Shōyō seguì il maggiordomo su per le scale blasonate in marmo, sorridendo al delizioso ticchettare delle suole in cuoio. Era piacevole come la pioggia che picchiettava sui vetri: scandiva i secondi, e i minuti e le ore, come un sempiterno orologio che gli ricordasse costantemente quanti passi facesse.
— Quest’ala del palazzo è riservata agli alloggi, — iniziò Takeda, scortandolo per un lungo corridoio affollato da pesanti armature lucidate a nuovo, — qui vi sono le camere di tutti i servi che s’interfacciano direttamente con Mister Kageyama. — Fece un ampio gesto con la mano e indicò una scala più stretta che conduceva al piano terra. — Da questa parte, invece, vi sono le stanze della servitù addetta ai mestieri.
— Mestieri? — ripeté Shōyō, che non era ben certo di comprendere il significato di quella parola.
— Sì, coloro che hanno precisi compiti da svolgere. Cuochi, domestiche, sellai, scudieri, camerieri, vi sono molti compiti da svolgere in una tenuta così vasta.
— Capisco —, ribatté il copista, sorpreso. — E perché al signor Kageyama serve tutta questa gente?
Se una simile domanda gli fosse stata rivolta da qualcun altro, forse Takeda avrebbe potuto apparir stizzito; eppure, osservando la limpidezza sul volto del suo ospite, comprese che quel quesito non era affatto velato da sarcasmo o da una sottile ironia: era ciò che avrebbe potuto chiedergli un bambino, né più né meno.
— Mister Kageyama è votato solo alla sua musica, sir Hinata.
Shōyō si strinse nelle spalle e assottigliò le labbra nel vano tentativo di trattenere una risata: non era affatto abituato a sentirsi dare del sir, tanto più che non ne conosceva l’elegante etimologia. Fu così che, stringendo i denti per non essere maleducato, si ritrovò a dire: — Signor Takeda, vede, potrebbe chiamarmi semplicemente Hinata? Non ho granché familiarità coi titoli che usate voi europei.
Takeda si fermò, fissandolo sgomento. — Non potrei mai, sir. È contro il protocollo.
— Sì, però se siamo da soli il protocollo non può dire niente, giusto? — rise il ragazzo, massaggiandosi la nuca.
— Certamente, ma dovrà abituarsi. — Takeda sistemò meglio gli occhiali sul naso. Shōyō lo notò solo in quell’istante, ma quel maggiordomo doveva essere un tipo abbastanza puntiglioso, sebbene fosse cordiale. — In questa casa tutti la chiameranno sir, è nostro costume. La prego di non scambiare questa mia pedanteria per arroganza, ma le cose vanno chiamate coi loro nomi.
Il copista non replicò; avrebbe volentieri obiettato circa la sua natura di cosa – ché lui non si sentiva affatto inanimato – ma soprassedé in merito alla precisazione, limitandosi a seguire in silenzio il suo anfitrione.
Proseguirono lungo un androne addobbato con grandi arazzi stilnovistici e pesanti cornici d’ulivo, le quali custodivano i dipinti d’illustri battaglie e di ninfe sulle sponde delle acque lacustri. E proprio lì, rimbalzando tra i cassettoni dorati dell’alto soffitto, Shōyō sentì giungere all’orecchio una tenue melodia in Fa maggiore, ricca di temperamento seppur soffice nella sua semplice composizione. Appariva distante e non si riusciva a comprenderne l’origine, ma il copista – forse più per istinto che per l’acutezza dei suoi timpani – volse lo sguardo verso degli scalini in pietra grezza che si perdevano nella chiocciola stretta della torre più alta.
— Quelle scale portano al salone del pianoforte. — Takeda sorrise, mentre socchiudeva le palpebre al delicato ritmo di quella melodia. — È la stanza dove Mister Kageyama passa la maggior parte del suo tempo.
— È lui che sta suonando?
— Sì.
— Che musica meravigliosa. — Shōyō non era una persona incline alla falsità; quando una cosa gli sembrava bella – nella stessa identica misura in cui gli appariva brutta – si limitava a sottolinearne l’incanto, la magia. — È come se fosse suonata dagli angeli.
— Già. — Il maggiordomo, per chissà quale sconosciuta ragione, stava ancora sorridendo.





La figura slanciata sedeva sul morbido pouf cenerino davanti al pianoforte, coperta da un elegante abito in cotone leggero; il doppiopetto grigio fasciava il corpo asciutto e le maniche del blazer coprivano l’epidermide pallida delle braccia, ch’era tuttavia ben visibile sulle mani grandi, perse nell’atto d’accarezzare i sonanti tasti d’avorio. Le dita lunghe e curate sfioravano le note come un amante ch’avesse atteso per tutta una vita di poter toccare la donna da lui adorata, ed egli in quella mite supplica sembrava celare un’appassionata dichiarazione, confidando al re degli strumenti i suoi più segreti pensieri. Il volto spigoloso e affilato pareva astretto dal liquefatto timbro melodico, soffice, tuttavia così potente da riuscire a curvargli la rigida bocca in un sorriso appena accennato.
Le palpebre serravano le iridi d’un colore ignoto, senza mostrar affatto le rughe tipiche degli incubi, bensì la placida levigatezza ch’era appannaggio del bel sogno, mentre i capelli neri si scontravano a tenzone con il cereo incarnato del viso rilassato.
Shōyō, rimanendo rigido sulle gambe snelle, avrebbe potuto – avrebbe dovuto – pensare a molte cose, eppur non s’espresse: l’unica cosa che riusciva a contemplare, nell’idilliaco preludio d’una melodia a lui sconosciuta, era la venusta grazia di quelle dita e il leggiadro modo ch’esse avevano di lambire i tasti del pianoforte, come dieci cavalieri che sfiorassero con le labbra il dorso liscio delle mani cortesi delle fanciulle. Incantato, il copista si sporse oltre l’uscio della balconata da cui stava osservando il giovane compositore, finendo per sbattere il ginocchio contro la rigida balaustra di ferro. In un contesto diverso, probabilmente, avrebbe imprecato dandosi dell’imbecille, ma s’accorse di non averne il tempo.
La melodia s’interruppe, e si sentì trafitto da un gelido sguardo cobalto che puntava dritto al corridoio più alto, proprio nel punto in cui si trovava lui. Shōyō non ricordava d’aver mai visto degli occhi così torbidi, pozze d’oceano ch’apparivano alla stregua di fiamme ferventi e arcigne, in quell’eteroclito ossimoro per il quale l’acqua s’era fatta fuoco.
Trattenne il fiato, e più non riuscì a deglutire. Rimase paralizzato lì, in quell’eterna frazione tra la gioia della dolce melodia ed il terrore per quel ragazzo, dimentico per un istante della presenza del maggiordomo al suo fianco.
— Mister Kageyama —, disse la voce calma di Takeda. — Questo è il nuovo trascrittore.
Shōyō chinò leggermente il capo, confondendo il gesto di rispetto nipponico con un motivo ben più nefando: l’unica cosa che voleva, in quel momento, era smettere di guardare quello sguardo iracondo e austero che sembrava percuoterlo senza la necessità d’alzare un singolo dito.
— Sei quello venuto dal Giappone? — La voce imperiosa parve saettargli tra i timpani, mentre la mente ripeteva la parola quello con lo stesso disprezzo con cui sembrava esser stata pronunciata. — Non lo sai che è maleducazione interrompere il pianista mentre compone?
 — Non era certo mia intenzione —, si scusò il copista, alzando il capo e tornando ad affrontare il volto severo del suo interlocutore. — Ero solo curioso.
Takeda s’ammutolì stringendosi nelle spalle, come se le parole del ragazzo l’avessero scottato. Le pupille di Kageyama si ridussero a due fenditure impenetrabili e furiose.
— Curioso? Eri curioso? — Shōyō s’irrigidì, serrando la mandibola e attendendo la furia di ciò che avrebbe seguito quella domanda retorica. — Si è curiosi quando si va allo zoo a vedere degli animali in gabbia. Ti sembro per caso un animale?
— No, non direi.
— O forse ti riferisci all’accezione più figurata di curiosità, quella che gli ignoranti nutrono verso i colti o i sapienti? Dì, è questo a cui ti riferivi?
— No. — Shōyō serrò le labbra tremanti, a disagio. — No, neanche questo.
Il pianista incrociò le braccia al petto, curvando la bocca in una smorfia pungente. — Allora dimmi, copista. Cosa intendevi con il termine curioso?
Il ragazzo deglutì, scoprendosi senza parole. In Giappone gli era capitato molte volte di trovarsi di fronte a situazioni sgradevoli o mortificanti, ma davanti a Kageyama ciò che provava era il panico nella sua forma più acerba e soffocante, l’impossibilità di reggere lo sguardo inquisitore e la voglia di scappare via. Se fosse stata una persona diversa, Shōyō gli avrebbe voltato le spalle e si sarebbe incamminato verso l’uscita, sforzandosi di dimenticare quanto gli era stato detto.
Eppure, non lo fece. Rimase a fissare il pianista, la cui arcata sopraccigliare s’era via via fatta più bassa e corrucciata. Erano tante le cose che avrebbe voluto dirgli, ma non era mai stato granché bravo a mettere ordine nella sua stanza, figurarsi tra i suoi pensieri: l’oceano s’appropriava degli occhi del pianista, ma faceva altrettanto con la mente di Shōyō, ch’era sì vasta da non poterla solcare tutta con una sola risposta. Così, l’unica frase che potesse replicare dignitosamente a quella domanda fu: — Volevo vedere le tue dita. Tutto qui.
Lo sguardo blu si smarrì. Un istante, forse meno. Ma in quell’attimo perso nell’eterno, le iridi del pianista tremarono e il cuore si strinse, corazzandosi d’astio. — Vuoi prendermi in giro? Ti sembra divertente? — Kageyama si voltò verso Takeda, vomitandogli addosso: — Non ti sarai azzardato a dirglielo!
— No, signore —, replicò agitato il maggiordomo. — Le posso assicurare che sir Hinata non ne è a conoscenza.
Shōyō inclinò la testa, perplesso. — Ma di cosa state parlando?
— Ehi, tu! — Ancora una volta il tono altero del pianista si rivolse a lui. — Non immischiarti in cose che non ti competono. Sei qui solo per trascrivere degli spartiti, per cui non ti azzardare a rivolgerti a me dandomi del tu o pensando di poterti considerare un mio pari. — Poi, vedendolo spiazzato, aggiunse: — Siamo intesi?
Il rosso fece un cenno del capo, ma non osò parlare. Erano troppe le cose a cui s’era concesso di pensare, e in un secondo s’era ritrovato ancora una volta smarrito nel vortice di domande che non avrebbero avuto risposta, almeno non per quel giorno. Shōyō seguì con lo sguardo il pianista voltar loro le spalle e congedarsi senza neppur l’avvedutezza d’un saluto. Probabilmente era quello il modo con cui era più avvezzo a comportarsi con i suoi sottoposti.
— Quello, sir Hinata, era Tobio Kageyama.
— Sì, l’avevo capito.
Takeda aggiunse, con insolita foga: — Fa sempre così con i nuovi arrivati, non deve preoccuparsi. È una prassi, diciamo. Un po’ alla volta smetterà d’arrabbiarsi, vedrà.
— Probabilmente per quell’ora mi avrà già licenziato —, rispose impassibile il giovane, ridendosela. — Sembra piuttosto antipatico.
— No. — La voce del maggiordomo tradì un filo di tristezza. — Le posso assicurare che non è sempre stato così.
Shōyō tornò serio, soffermando lo sguardo nocciola sulla ruga che solcava la fronte dell’uomo accanto a sé. Non era un osservatore eccezionale, tuttavia il copista comprese subito che il legame che univa quel giovane maggiordomo al suo padrone non fosse un mero vincolo professionale, quanto affettivo. Per certi versi, quello sguardo scuro mangiato dagli spessi occhiali gli faceva pena.
— Ho capito, signor Takeda —, disse infine, sospirando. — Cercherò di farmelo andare a genio.
L’uomo sbarrò gli occhi, sorpreso.
Non era mai accaduto prima che qualcuno si fosse mostrato così indifferente verso il disprezzo del pianista.





Erano ottantotto.
Ottantotto cavalli bianchi e neri che battevano gli zoccoli contro il legno dei martelletti, facendone vibrare le corde. Da quel nitrire sfumato parevano prender vita storie che non si potevano raccontare a voce, melodie dal fascino travolgente che sarebbero state in grado di carpire l’anima di chiunque vi prestasse l’orecchio.
Shōyō, ch’era pur sempre umano e quindi, per diretta conseguenza, vulnerabile al sottile magnetismo della bellezza, pativa gli effetti di quell’ipnosi nascosta tra le dita di Kageyama, che appariva allo sguardo come un incantatore ch’avesse in pugno il più feroce dei basilischi: il copista ne rimase intontito, vittima del bell’inganno; continuava a guardare le pallide dita del pianista, chiedendosi se avessero il dono d’animar di suoni persino ciò che non fosse uno strumento e, perso in un limbo di pensieri ben lontano da ciò che avrebbe dovuto fare in quel momento, s’accorse che la musica s’era d’un tratto arrestata.
— Che stai facendo? — si sentì domandare, sorprendendosi di come la voce di Kageyama apparisse grave. — Perché hai la testa fra le nuvole?
Lo sguardo blu s’inasprì e, con esso, il suo proprietario; costui, rigidamente ossessivo verso la copiatura degli spartiti, non comprendeva le ragioni che avevano spinto il ragazzo ad interrompere il certosino lavoro di trascrittura e, sdegnato, si ritrovò ad afferrare il foglio che Shōyō stringeva tra le mani, accartocciandolo.
— Ehi! — Il copista allungò un braccio nella vana speranza di riottenere lo spartito, ma Kageyama lo cestinò con un lancio rigido e nervoso.
— Sei così bravo da concederti il lusso di vagheggiare? — La voce dispotica del pianista si tinse di un’astiosa vena sarcastica. — Vuoi che ti prepari del thè, magari?
Shōyō non rispose subito. Forse perché cercava di trovare una risposta accettabile o, più realisticamente, perché non era un soggetto capace d’includere a sé il concetto di sottile ironia. Se ne rimase lì, a fissare lo sguardo blu, e in un istante gli sopraggiunse alla mente una domanda che sarebbe stato più saggio non pronunciare: — Come fa uno che suona una musica così bella, avere uno sguardo così cattivo?
Avrebbe potuto rispondergli in molti modi, Kageyama. Avrebbe potuto dirgli ch’egli, con quegli occhi, c’era nato e cresciuto, vedendo sempre le stesse cose, gli stessi volti. Avrebbe potuto dirgli che non sapeva far altro, con la vista, se non scrutare il mondo, concependone i difetti. Perché era così che funzionava con la musica: una nota stonata rovinava la sinfonia, ne comprometteva la sua natura perfetta. Per uno che non aveva fatto altro che vivere su ottantotto tasti, ciò che il copista aveva chiesto risultava di difficile comprensione, perché rasentava un concetto illogicamente astratto.
Gli occhi si soffermarono un istante sul volto perplesso del ragazzo; non sembrava intimorito dalla sua scenata, quanto piuttosto curioso di sapere cosa gli avrebbe risposto. Era un soggetto parecchio stravagante, con la zazzera scompigliata e le lentiggini che gli pitturavano la faccia, conferendogli un colorito rosato che gli ricordava similmente il volto paffuto dei neonati. Ma la cosa che più lo confondeva era la sua totale mancanza di formalità: Shōyō era estraneo all’etichetta e alle convenzioni dell’alta borghesia, ma invece di trovarsi a disagio sembrava passare gran parte del suo tempo ad osservare. Forse il copista faceva proprio questo, studiava. E, per la prima volta, il pianista s’accorse di cosa volesse dire essere libero.
Libero di andarsene, libero di tornare, libero di viaggiare.
Per Shōyō la vita era un’eterna giostra sulla quale correre: salire su una carrozza, provare il dorso di un cavallo, pilotare un aereo. Le emozioni che sentiva non finivano mai perché, nel tragitto tra un’attrazione e l’altra, Shōyō viveva. E forse vi sarebbero stati momenti in cui sarebbe caduto e si sarebbe sbucciato un ginocchio, ma a lui tutto questo non sembrava affatto importare, giacché gli sarebbe bastato mettere un po’ d’acqua sopra la ferita e soffiare, proprio come avrebbe fatto un bambino.
Kageyama, così alieno dall’ingenuità che gli era stata sottratta da fanciullo, lo invidiava. Era strano, perché nella vita non gli era mai mancato nulla, eppure nel vedere gli occhi limpidi del ragazzo di fronte a sé si ritrovò a pensare.
Anche io. Anche io avrei voluto salire su quella giostra.
— Tu sei solo un ragazzino stupido e senza talento. — Era ciò che gli rispose, seppur non vi avesse prestato attenzione. — Ti sei ritrovato per caso a fare il copista perché pensavi fosse un lavoro semplice? Per questo te ne stai tutto il giorno con la testa fra le nuvole, pensi di essere così talentuoso da permetterti il lusso di distrarti? Hai mai pensato, almeno una volta, che tu non fossi così brillante come credi? — Avrebbe dovuto aspettare una risposta, ma non lo fece, ch’era troppo furioso per arrestare la colata di rabbia che gli spremeva i polmoni. — La verità è che tu sei un moccioso viziato che non è neanche in grado di reggere una penna se qualcuno non gli spiega come si fa. Immagino che i tuoi genitori si siano accontentati di ciò che avevano e hanno fatto il possibile per fare in modo che potessi riuscire almeno in qualcosa.
Il copista abbassò lo sguardo, mentre Kageyama cercava invano di riprendere fiato. Non gli era mai capitato d’urlare in quel modo. Neppure quando s’era trattato di licenziare i suoi trascrittori, mai. S’era sempre limitato a dir loro che non aveva più bisogno dei loro servizi.
Ma con quel ragazzo di fronte a sé era diverso. Perché Shōyō lo indisponeva col suo volto rilassato e felice, così schifosamente allegro da spingerlo a chiedersi ogni volta cosa diavolo avesse da sorridere. E più tentava di sminuirlo, più lui appariva determinato a dimostrargli il contrario. Ma la risposta che seguì poco dopo, il pianista non se la sarebbe proprio aspettata.
— Penso che, dopotutto, sarebbero stati felici di aiutarmi —, rise Shōyō. Rise. — A mia madre piaceva molto la musica. Mio padre forse avrebbe fatto un po’ di storie, ma sono convinto che anche lui alla fine avrebbe accettato l’idea di vedermi fare il conservatorio. Anche se non è mai riuscito a vedere un musical o una sonata. Diceva che era roba per femminucce.
Vi fu silenzio, nella grande stanza del pianoforte. Kageyama, che s’era sempre vantato della sua singolare capacità di mostrarsi estraneo agli accidenti del mondo, si ritrovò con la bocca socchiusa e il fiato che riusciva a malapena ad entrare da quella stretta fenditura. Gli occhi fissavano il volto del copista, nell’attesa di veder comparire sul suo viso una smorfia addolorata o delle lacrime. Ma Shōyō sorrise, mostrando i denti bianchi e gli zigomi paffuti che gl’incorniciavano lo sguardo luminoso.
Forse Kageyama aveva solo compreso male. Forse non era affatto come aveva inteso. — Perché parli di loro al passato?
— Perché sono morti.
Il pianista spalancò lentamente lo sguardo. Era diverso da come l’aveva immaginato: egli, che aveva sempre avuto tutto, non comprendeva bene cosa significasse la morte nella sua accezione più concreta. Certo, se n’era fatto un’idea, ma non credeva potesse esser concepita come qualcosa di bello.
Allora perché…
Alzò la voce, mostrandosi più sconvolto di quel che avrebbe dovuto: — E allora perché diavolo stai sorridendo, idiota? Che c’è, li odiavi così tanto?
Questa volta fu Shōyō ad apparire sorpreso, ma Kageyama non se ne spiegava affatto la ragione. Poi lo vide sorridere ancora, e forse solo Iddio poté capire quanto il pianista avesse voglia di sbatterlo contro un muro e prenderlo a schiaffi. Dopotutto, solo un folle poteva comportarsi in quel modo. O un giullare di corte.
— No. Io li amavo. — Il sorriso del ragazzo si fece più tiepido e i suoi occhi tremarono per un istante, luccicando come fiammelle. — E non si può mai piangere quando pensi a qualcuno che hai amato così tanto.
Il pianista s’ammutolì e più non rispose.
Forse il pazzo, tra i due, non era Shōyō.




NOTE:
[¹] Ci tengo a fare una precisazione, in Austria si parla il tedesco austriaco, per cui ho volutamente sottinteso il tedesco per specificare la differenza sia a livello fonetico che sintattico.
[²] La distonia del musicista (conosciuta anche come distonia focale primaria task-specifica, crampo del musicista o crampo occupazionale) è un disturbo che si manifesta con la perdita di controllo motorio volontario di alcuni schemi usati per suonare lo strumento.
[³] Luogo della mitologia greca e latina, dove Zeus relegò i Titani vinti.
[⁴] La Hermesvilla è un palazzo situato nel Lainzer Tiergarten di Vienna, ex residenza di caccia che fu proprietà della famiglia degli Asburgo. L'Imperatore Francesco Giuseppe d'Austria la donò alla moglie Elisabetta di Baviera definendolo il "castello dei sogni" {Wikipedia}.

  
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