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Autore: Gaia Bessie    08/11/2020    3 recensioni
La lingua è solamente un’appendice superflua, amputata per chi è così coraggioso da dire solamente una parola, inutile. Lui l’ha persa anni prima, quando s’è lasciato sfuggire un ti amo alla ragazza che intravedeva da un buco nel muro: l’hanno portata via, in una tiepida giornata di aprile, e non è tornata più indietro.
E Suga lo sa, con un sussulto del cuore e un’incrinatura che diviene sempre più profonda in esso, che è sparita. Perduta, dimenticata, è divenuta l’ennesima polvere impastata con il cemento della muraglia: memento mori, è il motto di quella società, ma come fare a dimenticarsene?
[Distopic!AU | OiSuga | Partecipa al "Gioco di scrittura" del Gruppo Facebook Caffé e Calderotti]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Koushi Sugawara, Tooru Oikawa
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Contesto: la storia è ambientata in una distopia dove non è consentito parlare con nessuno, gli abitanti delle città sono sigillati dentro dei cubicoli e possono uscire solamente in caso di necessità dimostrabile.
 
Messaggi in una parete
 
Come on, skinny love, just last the year
Pour a little salt, we were never here
My my my, my my my, my my
Staring at the sink of blood and crushed veneer
 
Le case hanno i muri, no, tutta la città è un muro, tutto il mondo lo è: una muraglia senza fine che separa gli uomini dai propri simili, per evitare ogni contatto, ogni sussurro che potrebbe perdersi in una valle di sconfinata consolazione.
La lingua è solamente un’appendice superflua, amputata per chi è così coraggioso da dire solamente una parola, inutile. Lui l’ha persa anni prima, quando s’è lasciato sfuggire un ti amo alla ragazza che intravedeva da un buco nel muro: l’hanno portata via, in una tiepida giornata di aprile, e non è tornata più indietro.
E Suga lo sa, con un sussulto del cuore e un’incrinatura che diviene sempre più profonda in esso, che è sparita. Perduta, dimenticata, è divenuta l’ennesima polvere impastata con il cemento della muraglia: memento mori, è il motto di quella società, ma come fare a dimenticarsene?
Lui non l’hanno portato via, hanno sorpreso solamente Kiyoko a parlare, ma l’hanno mutilato come una bestia, privandolo per sempre delle parole: ma lui ne ha talmente tante, di parole, che anche senza lingua la sua mente è un gorgogliare di esse – come le onde che fluiscono nella risacca, ma il mare è semplicemente sparito.
Chi se l’è bevuto, il mare, chi ne ha risucchiato via il sale, lasciando solamente il tiepido scorrere di lacrime sciape?
È sparito come il tempo, il mare, in quella matassa grigia e indistinta che lo circonda ogni anno, in ogni mese, in ogni settimana e in ogni dannatissimo secondo in cui guarda dritto davanti a sé e non vede niente. È bucherellato, il muro di camera sua, e scalcinato: potrebbe guardarvi attraverso, se solo sapesse che il nuovo occupante dell’appartamento confinante non è lei.
Vernice scrostata e un muro in decadenza, ma bastano per delimitare l’essenza della sua solitudine, alienandolo con le sue stesse parole. Suga sospira, ma non esce alcun suono, e ormai persino il silenzio assordante è consolatorio, in quella bolla d’aria in cui vive.
Gli manca. L’ha vista solamente una volta, quando ha sbirciato nel buco del muro mentre la portavano via e ha pensato che, in un altro mondo e un altro spazio, sarebbero stati una bella coppia, con dei bambini dai capelli argentei e gli occhi blu oltremare.
Non è tornata, non lo potrà fare mai più. E adesso c’è qualcosa di rumoroso, al suo posto, qualcuno che continua a camminare, incessantemente, per tutto il perimetro della stanza. Non parla, come potrebbe?
Guardie incessantemente li tengono sott’occhio, da quando l’hanno fisicamente privato delle parole. Ci vogliono settimane, prima che se ne renda conto, e quando quella consapevolezza l’illumina come una stella sull’orlo del collasso – se collassasse, però, sarebbe solamente ferito dai propri spigoli e chi lo salverebbe?
Quei rumori hanno un senso. Così poggia l’orecchio al muro, cercando di registrarne la cadenza: un lungo, un breve, un altro lungo e un altro breve.
Suga sfiora il muro, come se da esso dipendesse la sua vita. Due brevi. Respira profondamente, passando la mano su quel buco, che nessuno s’è preso la briga di tappare – memento mori – e facendovi passare un polpastrello.
Un colpetto breve e uno lungo. Qualcuno gli sfiora il dito, facendolo ritrarre: ma è caldo, quel tocco, e lui non tocca nessuno da così tanto tempo che potrebbe piangere, e forse lo fa davvero, ma che piano è quello privo di suoni?
Tre lunghi. Ciao.
A Suga manca il respiro, mentre replica quell’esatta sequenza, salutando a sua volta lo sconosciuto dietro il muro. Se si potesse replicare un sorriso, con il codice morse, allora cercherebbe di replicarlo con quei colpi sul muro.
Chi sei.
Fatica a rispondere a quella domanda, perché in fondo nemmeno lui saprebbe definirsi: chi è diventato, che esistenza inutilmente squallida lo caratterizza, che suono muto gli risuona dentro? Ma è impossibile dire tutto questo con dei brevi colpi sul muro, e allora tace e si guarda le mani, disorientato.
Mi chiamo Tōru Oikawa. Il ragazzo non s’arrende, e continua a parlare, come se le parole potessero tirarli via di lì.
Ma sono solamente dannose, ha sperimentato Suga sulla sua pelle e nell’antro violato della propria bocca, fanno male quasi quanto quell’incisione innaturale che l’ha dilaniato dall’interno e gli ha riempito la bocca di sangue amaro, sporco, che è semplicemente colato giù, macchiandolo. Eppure aveva già l’anima sporca e macchiata, quindi quel sangue altro non è stato che l’ennesimo e inutile ornamento.
Kōshi Sugawara, risponde con un sospiro muto. Chiamami Suga.
Tōru non risponde subito, ma mastica quell’informazione come fosse cibo, come fosse nutrimento: puoi parlare.
A Sugawara si gela il sangue dentro, nel sentirsi porre quella domanda, nel venire messo di fronte a quel rischio. Nella sua mente compare nuovamente Kiyoko mentre lo chiama per nome, mentre grida quando la portano via, tappandole la bocca.
No, batte contro il muro, appoggiandosi a esso con tutte le proprie forze. Senza lingua.
Sente un sospiro, dall’altra parte del muro, un sospiro che è sonoro – come i suoi, di sospiri, non saranno mai più.
Mi dispiace. Suga vorrebbe piangere, ma piangere senza suono è solamente l’ennesima pugnalata che la vita potrebbe dargli, così le lacrime le lascia scivolare in gola, rischiando di soffocare. È per questo che ti controllano?
.
Sente uno sbuffo esasperato, e qualcosa che si preme contro il muro, in un abbraccio silenzioso e indiretto.
Mi dispiace. Lo sente con la potenza di un sussurro e, per un momento, si domanda se Oikawa non abbia parlato per davvero – ma le guardie se ne sarebbero accorte, pensa, è solamente la sua fantasia malata che lo proietta in quel labirinto di suoni che non esistono.
Nessuno lo meriterebbe. E lui lo sa, ma nemmeno riesce a cavarsi una risposta dalle mani, così che rimane a fissarle, disorientato.
Poi, i colpi cessano improvvisamente per una manciata d’istanti, facendogli sperimentare una sempre più intensa solitudine.
Riesco a vederti.
 
***
 
Tōru parla continuamente, così che Suga se lo immagina con le nocche spellate e arrossate, ma vuole sapere, sapere e sapere. Non fa altro che fargli una domanda dietro l’altra, stordendolo, sulle cose più assurde e insensate: quanto sei alto, di che colore hai i capelli, hai le orecchie a sventola?
E Suga si arma di pazienza e risponde, piano piano, a ogni domanda. E poi Oikawa risponde alle proprie stesse domande, facendogli scoprire che è poco più basso del metro e ottantacinque, ha i capelli castani e un bel sorriso e, no, non ha assolutamente le orecchie a sventola, scherziamo?
Dalla luce scarna delle loro camere è quasi impossibile distinguere forme e colori, ma Suga – che si sente osservato e sotto esame – sa che Tōru ci prova ogni giorno, azzardandosi a guardare dentro il buco nel muro.
Non farlo gli dice una mattina che potrebbe essere un pomeriggio o una sera. Porteranno via anche te.
Sente una risatina soffocata, e un colpo di tosse da una delle guardie, in un tacito avvertimento che, però, probabilmente Oikawa non coglierà.
Anche me? Domanda, picchiettando sulla parete, e Suga ne intuisce l’espressione divertita. Parli della ragazza che era qui prima?
Suga sospira, il silenzio, e un dolore familiare gli accende il cuore, costringendolo a stringersi nella propria pelle per attenuarlo.
Sì.
È un’ammissione che lo dilania, come una seconda asportazione di quella lingua che, anche volendo, adesso troverebbe comunque inservibile: perché muti orrori sono i suoi incubi, e muto orrore è quella vita da quando il Congresso ha preso il potere. Tōru sbircia dal buco e pare cogliere quei pensieri, nella penombra, sfogliandoli come quei fiori estirpati dai giardini.
L’amavi molto, batte sul muro e lui se l’immagina assumere un’aria inzuppata di comprensione. Ma l’amore non è più permesso.
È concessa la riproduzione, talvolta, quando il Congresso decide che lo spopolamento inizia a divenire un problema ma l’amore, quello mai. Suga lo percepisce con terribile chiarezza che, amandola, oltre alla lingua s’è fatto tagliar via anche un pezzo di cuore.
Nemmeno le parole, risponde laconicamente. Ha un sorriso amaro che gli sfregia il viso. Ma parli.
E come farei a smettere? Chiede di rimando Tōru, ironicamente. Il tempo non passa mai, senza di te.
Suga si ritrova a sorridere, ma è solamente l’ennesima smorfia in un mare d’infinita apatia: e, comunque, lui non riuscirebbe nemmeno a vederlo.
L’amavo molto ammette, infine, mentre permette a due lacrime solitarie – non ce ne saranno altre, se l’è promesso – di insozzargli il volto. Troppo.
Ma il viso di Kiyoko, il suono delle sue urla, sono già lontanissimi, come un eco attutito da un oceano di discorsi – i suoi: no, riflette, i loro che l’assale come un’onda anomala in una spiaggia priva di mare – che pian piano lo sommerge.
Non puoi amare qualcuno senza vederlo, constata amaramente Oikawa. Io non ho mai amato nessuno.
Suga rimane a fissarsi le mani, che si sono spellate e arrossate per davvero, e non riesce a dire una parola.
Fino ad ora, ammette Tōru.
 
***
 
Odore di vernice e cemento: un giorno si decidono a chiuderlo, così non possono nemmeno più vedersi e sfiorarsi la punta delle dita – o, almeno, Oikawa non può farlo. E nemmeno batte i suoi compulsivi colpi sul muro, lasciandolo annegare in una marea di silenzio cui Suga non era più abituato: eppure sono muti anche i suoi pensieri, riflette, perché dovrebbe temere il silenzio?
Ci sei?
Suga si stupisce dell’aver picchiettato quella domanda, per primo, ma non è riuscito a frenare la mani, come avrebbe potuto? – d’altronde è incorporea esigenza, quella che lo muove, incorporea ma dolorosamente reale e ha voce.
Sente il sospiro di Tōru, dall’altro lato del muro, è esausto, svilito: gli hanno tolto la vista che, forse, è più importante della parola. Perché adesso tace e non vede niente, se non la propria spaventosa solitudine.
Ci sono.
Persino i suoi colpi sono sfiancati e privi di energia, risuonano pianissimo nel silenzio glaciale che li avvolge, come una benda troppo stretta sull’ennesima e inutile ferita.
Non è così male, sai. Commenta Sugawara, cercando di trasmettere la propria consolazione con degli sterili colpetti sul muro. Anche prima non vedevi granché.
Vedevo il tuo stupidissimo sorriso, commenta Tōru con amarezza. Mr. Refreshing.
Suga china il capo, imbarazzato. Smettila, picchietta, a disagio. Non ti ho mai sorriso, mi sembra.
Dall’altro lato della parete, si sente una risata muta, che viene interrotta dai passi di una guardia, che pericolosamente insinua la propria testa nella camera per controllare che nessuno stia compiendo quell’azione proibita – parlare.
Lo hai fatto, commenta Tōru e Suga se lo immagina sorridere trionfalmente. Ma non te ne sei reso conto.
Lui si sfiora il viso come non gli appartenesse più, come fosse solamente l’ennesima appendice irrazionalmente superflua la cui mancanza riesce a sperimentare: è ancora tutto lì, ma se guardasse dentro la propria bocca ricorderebbe quel vuoto esistenziale che lo affligge, sotto la pelle. Vi sono ossa che sbucano come spuntoni acuminati, che potrebbero ferirlo con un singolo sorriso o un qualunque altro muoversi inutilmente dei muscoli, zigomi talmente taglienti che sembrano voler bucare la copertura di pelle che li abbraccia dolcemente.
Ha ancora due occhi, perché vede e vede tutto il grigiore che li circonda perennemente, e ha due orecchie perché sente e sente che nessuno parla, soprattutto non lui, e quindi v’è solamente un silenzio soffocante ad avvolgerlo. Ha ancora un naso, le piccole rughette al fianco di esso, i capelli crescono incolti sulla sua testa.
Me lo immagino, sai. Oikawa picchietta il muro con dolcezza, come lo stesse accarezzando. Starai sorridendo anche ora.
Suga scuote vigorosamente il capo, come se l’altro potesse vederlo. Non lo sto facendo, risponde, piccato. Smettila di dirlo.
Eppure continua a toccarsi il viso – sì c’è tutto e sì gli appartiene ancora – e ne percorre i contorni, pensieroso. Occhi, naso, bocca.
E lì i suoi pensieri urlano, storditi, perché è costretto a rendersi conto di avere per davvero un sorriso sulle labbra.
 
***
 
And in the morning I'll be with you
But it will be a different kind
And I'm holding all the tickets
And you'll be owning all the fines
Come on, skinny love, what happened here?
Suckle on the hope in light brassieres
 
Dicono ci sia speranza, in questo mondo, o qualcosa che le somiglia: Suga se ne rende conto il giorno in cui Tōru batte sul muro, così piano che pensa di esserselo immaginato, quella frase che gli frantuma la mente, ossessionandolo.
C’è una resistenza. Ha detto, quasi sussurrandolo. Verranno a liberarci, vedrai.
In quel momento, gli si rompe qualcosa dentro, forse un argine, e delle lacrime gli s’insinuano fin dentro la pelle. Non ci crede, come potrebbe? Sono rinchiusi da un tempo indefinito e persino la banale luce del sole è un miraggio. Però.
Però la salvezza, con quella frase, sembra tangibile: un mondo che si spiana, davanti a lui, come l’impasto di un lievitato. E se scoppiasse, come una semplice bolla d’aria salata?
Ci credi davvero? Domanda, incerto, guardandosi attorno come se potesse accadere che la salvezza gli si presentasse davanti. Che ci porteranno via di qui?
Ma Tōru non riesce a rispondergli.
 
***
 
Un giorno, un calcio sulla schiena gli spezza il respiro, ed è tutto talmente luminoso e rumoroso da far male. Le guardie entrano correndo, lo afferrano, lo portano solamente in un’altra stanza: abbacinante, la luce delle lampadine neon che l’illuminano, e ha di fronte un ragazzo con un occhio nero.
Suga non l’ha mai visto, ma lo riconosce: è lui, che lo guarda con dispiacere muto e muove il pugno come per colpire qualcosa. Mi dispiace.
«Oikawa Tōru» una voce riempie la stanza vuota, facendoli tremare entrambi. «Il Congresso ti ha chiamato a rispondere dei tuoi crimini».
Lui apre la bocca e, con sgomento di Suga, parla, pronuncia parole con una voce flautata che gli produce uno spiacevole rimescolio nello stomaco.
«Non ho fatto niente» dice, con un ghigno. «Non ho detto una parola, non avete prove che io l’abbia fatto».
Una guardia gli preme la canna di una pistola sulla fronte, ma Oikawa non trema, fermo e immobile è il suo sguardo. E Sugawara capisce: ci salveranno, ha detto, ma adesso è dolorosamente chiaro ed evidente – volevi salvarti da solo.
«Hai cercato di sovvertire gli equilibri» risponde la voce, calma. «E pagherai per questo, Oikawa. Ma adesso confessa e la pena sarà lieve, altrimenti… non ci sarà indulgenza. Dura lex, sed lex».
Le guardie chinano il capo, in sincrono, di fronte al secondo motto crudele di quella società: la legge è dura, ma è legge.
«Non ho niente da dire» risponde Tōru, con ardore. «Non avete modo di dimostrare che ho complottato con qualcuno, a stento sono uscito dal mio cubicolo».
Ne riceve duro silenzio e dure azioni: una guardia s’avvicina, afferrando Suga per i capelli, in modo tale che Oikawa ne scorga il volto sfigurato dalla paura.
Ma, quando una guardia gli ferisce il volto con un pugno che sa di metallo e sangue, Tōru distoglie semplicemente lo sguardo.
«Quindi non ti importa niente, Oikawa?» domanda, secca, la voce metallica. «Nemmeno se decidessimo di porre fine alle sofferenze del ragazzo?».
Si sente il rumore sterile e stentato di un’arma che viene caricata, la canna ancora tiepida appoggiata sulla fronte di Suga. Che non ha nemmeno la forza di spalancare gli occhi o chiuderli completamente, così lo guarda e basta, con uno sguardo arido e disinteressato che non lascia scampo.
Perché Tōru china il capo e non dice una parola.
O, forse sì.
Perché alza il pugno e bussa dei colpetti sul proprio petto: suonano come una campana a morto, e il significato forse è il medesimo.
Mi dispiace.
 
***
 
«Sei tornato».
Kiyoko gli sorride radiosa, illuminata di luce, e Suga si rende conto finalmente di poterle rispondere. Ma preferisce tacere e prenderle la mano – non glielo perdonerà mai, a Tōru, il grande tradimento della loro vita, non potrà mai.
Ma c’è una vocina, dentro di lui, che s’esprime in codice morse e sussurra continuamente qualcosa, frastornandolo.
È solo un colpo di pistola, Suga.
 
 
And now all your love is wasted
And then who the hell was I?
And I'm breaking at the breaches
And at the end of all your lines
(Birdy - Skinny love)
 

Spiegazioni:
Partiamo con una noticina: "dura lex, sed lex" è una ripresa dalla saga di Shadowhunters, quindi non è farina del mio sacco.
Fine. La storia è questa, è la mia prima AU Distopica da sempre, quindi spero sia riuscita nonostante la difficoltà dello scrivere senza dialoghi.
Buona domenica a tutti e grazie per avermi letta.

Gaia
   
 
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