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Autore: ely_trev    08/11/2020    0 recensioni
Improvvisamente sento di aver perso la mia identità e sono sola in quella stanza così impersonale, in compagnia solo di un passato che, per sua natura, è destinato a non esserci più. Ho sempre pensato che le persone siano la somma delle esperienze vissute e allora perché io, nonostante sia circondata da una montagna di ricordi, mi sento vuota come se fossi un contenitore di cartone pronto per essere gettato via? Cosa sono diventata oggi? Chi sono?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi sveglio di soprassalto, non riesco a respirare. Ormai mi succede sempre più spesso: provo la netta sensazione di cadere nel vuoto o di essere spinta sott’acqua; a volte, perfino da sveglia.
Impiego qualche secondo prima di riprendere piena coscienza di me e di dove mi trovo e, quando alla fine ci riesco, il primo pensiero che mi sovviene alla mente è una domanda: sto facendo bene a tornare?
Apro le imposte della camera d’albergo dove mi sono fermata per la notte e la finestra mi restituisce l’immagine di una città che non mi mancava. Un quartiere “tranquillo”, uno di quelli che la notte si ferma: tante macchine abbandonate in ogni dove, che arrancano persino su strisce pedonali e marciapiedi, muri sporchi e saracinesche imbrattate dalle più volgari scritte, ma, in sottofondo, il silenzio della periferia che dovrebbe trasmettere serenità.
Il pensiero va a qualche anno prima, quando quelle strade apparivano diverse e tra quelle vie ci si giocava in tanti; a volte, in occasioni che a me sembravano di festa, anche fino ad una certa ora di sera, specialmente d’estate. Oggi è raro, se non addirittura impossibile, trovare un cortile con dei bambini.
Torno a respirare con regolarità, ma il sonno ormai è passato e l’afa che attanaglia la stanza non aiuta a conciliare un buon riposo.
Mi sdraio svogliatamente sulle coperte e accendo distrattamente la tv, che mi rimanda l’immagine di alcuni vecchi telefilm, che, però, hanno il sapore amaro della nostalgia: quelli erano i telefilm della mia infanzia e della mia adolescenza, quelli davanti ai quali ho perso ore ed ore, ridendo di cuore o piangendo drammaticamente quando la mia coppia preferita incorreva in qualche intoppo di sceneggiatura, magari perché uno degli attori aveva deciso di lasciare il cast. Oggi si chiamerebbero ship, allora era soltanto una fissazione fuori luogo, che, però, colpiva tutti, indistintamente. I primi neofiti di internet, anche in assenza di social network, riuscivano già allora a scatenare dibattiti su quale fosse il compagno migliore per questo o quel personaggio.
Adoravo quei telefilm, anche se penso che, in un certo qual modo, durante il corso della vita, mi hanno sicuramente causato qualche trauma.
Sorrido davanti alla semplicità di quelle storie: magari nella vita fosse tutto così semplice! Probabilmente non sarei fuggita da questa città che mi ha visto crescere, né mi sarei rifiutata di tornare nei luoghi della mia infanzia. Invece avevo tagliato i ponti con il mondo.
Nonostante sia passato del tempo, non so ancora dire se ho fatto la scelta giusta oppure no, ma un giorno ho deciso di frapporre tra me e il mondo una distanza minima invalicabile. I miei rapporti sociali si sono ridotti quasi esclusivamente a quelli obbligatori per lavoro, ma, se posso, evito anche quelli. Il solo sentir suonare il telefono mi innervosisce. E, forse per questo, ho deciso di non tornare più. Almeno fino ad oggi.
Questo ritorno al passato mi sta rendendo più ansiosa di quanto non sia mai stata, ma non è per il motivo del mio viaggio, anche se è tragico ed inevitabile, perché parte stessa della vita.
Maria mia non c’è più. Maria mia, come la chiamavo da piccola. La mia seconda madre, come il titolo di una delle tante telenovele che lei vedeva assiduamente e che aveva fatto vedere pure a me.
Un male incurabile l’ha portata via in meno di venti giorni. Meglio per lei, che non aveva sofferto, ma, egoisticamente, peggio per noi, che non avevamo avuto modo neanche di abituarci all’idea.
Non la vedevo più tutti i giorni, non andavo più a cena a casa sua, ma il solo sapere che lei era lì riusciva a donarmi una sicurezza che improvvisamente non ho più.
Lei non mi ha mai perdonato il colpo di testa che mi ha portato lontano e ora, mentre sto facendo ritorno, per un attimo ho anche pensato che me l’abbia fatto apposta: morire e lasciarmi tutte le sue cose… Così, tanto per farmi tornare…
Il sole comincia a fare capolino dagli spiragli delle persiane, mentre le immagini continuano a scorrere sullo schermo della televisione, ritmate quanto quelle canzoni di sottofondo, che rievocano alla mente il ricordo di momenti spensierati ormai perduti.
Mi alzo svogliatamente; il solo pensiero di rimettere piede nel mio vecchio quartiere mi fa venire voglia di risalire in macchina e scappare il più velocemente possibile. Ma Maria era così: metà della sua vita trascorsa sempre nella stessa casa, tra cose dette e cose non dette. E ora mi sta costringendo inesorabilmente a tornare sui miei passi.
Camminare per quelle vie mi mette addosso una sensazione stranissima. Riconosco le strade, i palazzi, lo spiazzo dove giocavo a pallone, ma tutto mi sembra immerso in un’atmosfera quasi surreale: più della metà degli appartamenti e dei negozi sono sfitti e quel vuoto che vedo intorno a me, a tratti, sembra amplificare il disagio che mi porto addosso. Non riconosco nessuna delle persone che incontro, in giro ci sono molti stranieri. Se non fosse per qualche sparuto riferimento spaziale, stenterei quasi a dire di aver vissuto qui.
Mi avvio verso il portone, zigzagando tra le moto parcheggiate nel vialetto e ripensando a quando, un tempo, nonostante la protesta di qualche condomino, quello spazio era tutto per noi bambini, ma soprattutto per me e per il mio amichetto. E, in un solo istante, torno indietro nel tempo di più di tre decadi.
Entro nell’androne del palazzo, un androne largo e spazioso, tipico delle costruzioni degli anni ’60, che, però, lascia intravedere l’incuria di un immobile sul quale vengono effettuati i soli improrogabili interventi obbligatori, ma non anche quelli di ordinaria gestione: la proprietà, infatti, unica e appartenente ad una società, non ha mai manifestato interesse ad effettuare una manutenzione che andasse oltre i meri obblighi di legge. Così è sempre stato e, probabilmente, così sarà per sempre.
Sono a un bivio: la scala A, sulla sinistra, è quella dove abitava il mio amico del cuore e la scala B, sulla destra, quella dove abitava Maria. Mi avvio da quest’ultima parte, percorrendo il breve corridoio che conduce alle scale. Salgo al primo piano, giro la chiave nella toppa – rigorosamente al contrario, circostanza che mi ha sempre colpito – e finalmente entro in casa, avvolta da un’infinità di sensazioni, che mi riportano alla mente una pari quantità di ricordi. Al contrario dell’esterno, qui tutto sembra familiare: gli odori, i colori, la semioscurità che ha sempre segnato un appartamento soffocato da mobili, suppellettili, piante e animali. Per quanto Maria fosse sempre stata una persona elegante, con il tempo, era finita per diventare quella che ho sempre definito una mezza accumulatrice.
All’improvviso, però, ho di nuovo cinque anni: canticchio felice il ritornello della canzone “Mamma Maria” e mangio pennette al burro e parmigiano seduta sul letto, mentre in tv scorrono le immagini dei cartoni animati che Italia Uno mandava in onda alle otto di sera, appuntamento fisso al termine del quale Maria mi riaccompagnava a casa.
Quasi senza accorgermene sono davvero in camera da letto, seduta di nuovo su quel materasso troppo alto, che ancora oggi non mi permette di arrivare con i piedi per terra, mentre osservo con nostalgia questo piccolo appartamento troppo pieno, dove, però, sono stata felice negli anni della mia infanzia.
A pensarci bene, non credo di essere più stata felice come allora.
Apro il cassetto del comodino e sobbalzo quando, osservando la luce verde della radiosveglia che per anni ho avuto il compito di riposizionare ad ogni cambio di orario, noto con stupore che sono passate quasi due ore da quando ho rimesso piede in questa casa. Ma il tempo, si sa, è relativo, e io mi trovo nuovamente a guardarmi attorno, senza decidermi ad iniziare la stesura dell’inventario per il quale sono tornata. Un po’ perché, sicuramente, non ho voglia di chiudere definitivamente uno dei pochi capitoli veramente sereni della mia vita e un po’ perché sento che mettere mano in quei cassetti, seppure non mi sia mai stato formalmente negato, equivale comunque ad entrare nell’intimità di una persona che, invece, ha sempre tenuto per sé i suoi segreti e lo ha fatto talmente bene che perfino io, che ero la persona affettivamente più vicina, ho riscontrato difficoltà addirittura a fornire alcune informazioni burocratiche necessarie per la sepoltura.
Punto dritto agli oggetti considerati più importanti da Maria e da lei esplicitamente indicati come quelli da prendere subito: l’oro chiuso nella cassaforte sotto la finestra del salone – e in particolare un orologio – e un piatto d’argento nascosto dietro un considerevole numero di buste vuote, infilate nell’intercapedine che si forma tra due mobili contigui, che non possono aderire l’uno all’altro a causa delle rifiniture.
Ecco fatto, Maria! E adesso? Da dove continuo?
Comincio dalla camera da letto, dai cassetti pieni di gioielli, finti o di alta bigiotteria, per arrivare all’armadio: otto ante piene di qualunque cosa, dalla tuta alla pelliccia: una quantità infinita di borse e vestiti sembra quasi voler esplodere da quegli sportelli, troppo pieni per riuscire a rendersi veramente conto di quello che contengono. E poi la vedo: una scatola come tante che nasconde un’enorme sorpresa per me. Lettere. Tante. Ricevute da Enrico, il marito. O pseudo tale, non ho mai capito bene. Nella vita di Maria, anche la cosa più banale diventava un mistero e forse queste lettere sapranno darmi delle risposte in più. Un’altra immagine mi passa all’improvviso davanti agli occhi: sono sempre bambina, in quella casa stracolma; era una giornata di grandi pulizie, una di quelle che mi piacevano tanto perché il mio compito era quello di arrampicarmi dappertutto, tra armadi e soppalchi, gatti e una varietà infinita di piante, per fare da passamano e sistemare tutte quelle lenzuola e quelle coperte che lei diceva dovevano essere il corredo per il mio matrimonio. Ero proprio arrampicata su quella scala alta, troppo per una bambina così piccola, e l’ho vista: quella scatola di cartone blu, nascosta sopra quell’armadio immenso, lontana dagli occhi indiscreti: i miei, quelli del suo secondo compagno Ennio e, probabilmente, quelli dello stesso Enrico.
Che cos’è?” le chiesi.
Me lo ricordo come se stessi vivendo quel lontano istante proprio oggi. Era una domanda innocente la mia; di certo, non potevo immaginare che dentro quella scatola ci fosse uno spaccato di vita così intimo.
Decido di portare quella scatola con me: non so se Maria vedrebbe bene questa invasione della sua privacy, ma forse servirà a me per conoscere un po’ di più la mia seconda madre. Con lei sono stata bene. L’ho abbandonata, in un certo senso, quando, da adolescente, sono diventata insofferente agli adulti, ma con lei ho vissuto dei momenti molto belli, di quelli che considero i migliori della mia vita. Ecco, la mia vita. Non so se in questo momento sono proprio in grado di rituffarmi nel mio passato: sono scappata dai luoghi e dalle persone che lo rappresentano e non ho mai avuto il coraggio di affrontarlo. Sono consapevole che ci sono persone che vivono situazioni ben più gravi e difficili della mia, ma so anche che ho sofferto, tanto. E che l’equilibrio che mi sono creata oggi è talmente precario che questo viaggio che mi sono trovata costretta ad affrontare può farlo saltare del tutto. Tutto è stato particolare nella mia vita: il mio ruolo all’interno della famiglia, il mio rapporto con i miei pochi amici e perfino il mio rapporto lavorativo. Fino a quando sono diventata così cinica che ho preferito nascondermi anche da me stessa piuttosto che prendere coraggio e affrontare quelli che erano i miei problemi. E che, in fondo, lo sono ancora oggi. Sempre lì, sempre presenti, anche se chiusi dentro la valigia che mi sono portata dietro il giorno che ho deciso di andarmene.
Richiudo la scatola e, per quella sera, decido che può anche bastare così. Lascio preparate all’ingresso le prime buste che ho predisposto ed esco da quella casa, chiudendo bene a chiave la porta d’ingresso. Ripercorro di nuovo il portone, con i suoi corridoi che portano alle due scale, e mi tornano in mente le mille corse di una bambina spensierata, che presto si sarebbe sentita schiacciata da tutto quello che la circondava. Eccola là, la scala A, quella dove abitava Alessandro, il suo più caro amico. Almeno così credeva quell’innocente bambina che ancora riusciva a fidarsi di qualcuno.
Chissà che fine avrà fatto” mi domando istintivamente. Il mio buon vecchio ex migliore amico, come l’avevo soprannominato in quella specie di diario epistolare scritto per anni ed iniziato proprio in quello che io avevo sempre ritenuto essere il momento più cupo e triste della mia vita, quello in cui avevo cominciato a vivere la mia quotidianità senza di lui, trascinato via da quello che, per me, allora, era un insensato trasloco che mi stava allontanando da una delle persone più importanti della mia vita. Ci ho creduto in quell’amicizia… Dio solo sa quanto ci ho creduto e quanto ho cercato di impegnarmi perché quella distanza, minima ma comunque incolmabile per un’adolescente in crisi, non mi portasse via il mio migliore amico. E alla fine ho fallito. Miseramente. Di tanto impegno e di tanta fiducia non è rimasta che la delusione provata quando ho preso coscienza che di me non gliene importava più niente. No, non è vero: mi sono rimasti anche ricordi. Tanti. Di due bambini che si amavano come fratelli e che hanno condiviso tantissimo. Peccato che oggi facciano un male tremendo, che quando mi sovvengono alla mente, mi torturino come lame affilate che giocano su una ferita ancora sanguinante.
Scaccio via il pensiero di Alessandro - l’ho detto di non essere pronta ad affrontare i fantasmi nel mio passato - ed esco dal palazzo con una strana sensazione di mancanza d’aria.
Ma perché mi fa ancora questo effetto?” mi domando alzando lo sguardo verso quel balcone del terzo piano dove abbiamo passato interminabili giornate a giocare. È il dolore di quella perdita, che razionalmente non attribuisco lui direttamente, quanto ad una crescita diversa che ha portato le nostre differenze caratteriali ad avere la meglio su di noi, uno degli ostacoli che non riesco a superare. E lo sento da quel fiato che mi manca e da quegli occhi che mi bruciano se solo ripenso a quel bimbetto biondo e riccioluto, che è stato una parte importante di me e che all’improvviso ho perso, in un modo che ancora oggi, a distanza di anni, non riesco a comprendere fino in fondo.
Salgo in macchina guardandomi attorno e faticando ancora a sentirmi a casa, anche se quelli sono i luoghi dove sono cresciuta. Metto in moto e inizio a camminare, senza sapere neanche bene dove andare e quando, alla fine, torno in hotel, provo un misto di nostalgia e di senso di rifiuto che mi mette a disagio. Apro il pc e istintivamente inserisco nel campo di ricerca il nome che avevo dato a quel file dove scrivevo il mio diario, custode di una buona parte della mia vita: “The empy book – A story about life and friendship”. Come dedica, una frase di un filosofo iraniano che recita molto direttamente: “Ecco: una mano amica ti si tende. Stringila, dunque, e intanto a te domanda se un giorno da nemica ti colpirà”. Perché Alessandro mi aveva colpito, eccome… Anche se, con il senno di poi, capisco che non c’era cattiveria in lui, mi ha comunque causato una ferita che non si è ancora rimarginata e che forse non lo farà mai del tutto. È strano riprendere in mano quei testi: a distanza di così tanti anni, tutto sembra perdersi nei meandri della memoria. Eppure una volta avevano senso. Una volta tutto aveva senso.
Caro amico ti scrivo / così mi distraggo un po’ / e siccome sei molto lontano / più forte ti scriverò. / Da quando sei partito / c’è una grossa novità: / l’anno vecchio è finito ormai / ma qualcosa ancora qui non va”. Cominciava così la prima lettera, come l’incipit della canzone di Lucio Dalla. Me la ricordo ancora la giornata in cui la scrissi, come fosse oggi. Alessandro e la sua famiglia avevano traslocato da poco più di tre mesi, ma, con l’estate di mezzo, quasi non me ne ero accorta fino a quel momento: una grigia giornata autunnale, un’assemblea scolastica a cui io, come le altre volte, non avevo partecipato, una giornata passata totalmente in isolamento, senza incontrare nessuno, neanche i miei genitori, impegnati nell’attività di famiglia… All’improvviso, avevo visto davanti a me un lungo periodo di solitudine. Insieme a quell’anno scolastico, aveva preso il via anche uno dei momenti più brutti di tutta la mia vita. Fu per questo che, su quel quaderno immacolato che avevo comprato per la scuola, mentre ero seduta su una panchina in attesa di cominciare la prima lezione del nuovo anno di catechismo, decisi di mettere nero su bianco i miei pensieri, la mia voglia di stare con Alessandro, il rimpianto di non aver passato più tempo con lui e la ferma determinazione a far in modo che nulla ci separasse, neanche quella distanza che il destino aveva frapposto tra noi.
Beata ingenuità!
Alessandro si ambientò quasi subito nella nuova città e, a poco a poco, anche il nostro legame scemò. Anche se io non sono riuscita ad ammetterlo per tantissimo tempo e, forse, alla fine, l’ho fatto con modi e tempi del tutto sbagliati, accusandolo di aver tradito un’amicizia, senza considerare che, forse, in realtà, eravamo solamente cresciuti con modi e tempi del tutto diversi. Magari a causa di quella separazione, sì, ma che lui, in fondo, aveva subito quanto me. Ci ho messo nove anni a staccarmi da lui e alla fine l’ho fatto, forse malamente, decidendo di dare un taglio netto riempiendolo di recriminazioni. Ma anche subendo il taglio che aveva voluto dare lui, quando, tempo dopo, rispose al mio invito a trovare un modo nuovo di stare insieme, scrivendomi che non mi sarei potuta integrare nella sua nuova vita e che, al tempo stesso, non voleva più dedicarmi spazio, perché – cito le sue testuali parole “non era capace di dividere la sua vita in vari compartimenti”. Anche se non era questo che gli chiedevo. Ma è stato a quel punto che ho deciso di prendere un’accetta e rompere definitivamente tutti i legami, compreso l’affetto che ancora provavo per lui, nascondendo a me stessa anche quello che di bello c’era stato. E solo adesso mi sto rendendo conto che ho sempre fatto così: quando le cose smettono di andarmi bene, preferisco cancellare tutto, forse nell’ingenua convinzione che, in quel modo, io possa seppellire anche tutti i miei rimorsi e tutti i miei rimpianti, come, però, non sono mai riuscita a fare. E, forse, oggi posso dire che è stato questo modo di affrontare le avversità che mi ha portato ad allontanarmi da questi posti che un tempo consideravo casa mia e che oggi fatico addirittura a riconoscere; come, d’altro canto, fatico a riconoscere quel ragazzo ritratto nelle foto postate sui vari social network, tra mille altri compagni e in cerca di mille altre avventure. È strano constatare come due persone che sono state così unite possano, invece, trovarsi ad essere totalmente estranee l’una per l’altra. I ricordi, però, soprattutto quelli belli, sono lì, indelebili, come macchie d’inchiostro che il pennarello della vita ha lasciato sulle dita di due bambini allegri e spensierati.
Sfoglio senza leggere il mio “empty book”, quel diario lungo quasi 150 pagine sulle quali ho versato le lacrime più amare della mia vita, quindi apro la cartella “Music” sul mio pc, un contenitore che, nel tempo, si è riempito della musica più disparata, e mi lascio andare alla colonna sonora della mia esistenza. Quando ho veramente voglia di casa faccio così. Non importa che, poi, dalle casse, si spargano le note della sigla del cartone animato o del grande classico; ogni canzone mi dice qualcosa. E poi ho sempre amato la musica. E cantare. Non che io sia particolarmente intonata, ma cantare mi ha sempre donato una gioia immensa. Quando canto è come se fossi leggera come l’aria e non trascinata giù da tutti i pensieri negativi che mi inchiodano a terra.
Ed eccomi di nuovo piccola: sono nel giardino condominiale, sotto casa di Alessandro, e lo chiamo urlando a squarciagola la sigla di “Holly e Benji”. Oppure quella di “Forza Sugar”. Te lo ricordi Sugar, Alessandro? Quando lo abbiamo conosciuto, abbiamo passato interminabili giornate correndo intorno all’isolato, facendo finta di affrontare uno dei suoi faticosissimi allenamenti, impegnati anche, non ricordo per quale motivo, a non farci vedere dai negozianti di turno quando passavamo davanti ai loro locali. E Sam? Te lo ricordi “Sam, il ragazzo del west” e quell’assurda abitudine che avevamo preso di legarci al collo un fazzoletto ripiegato, come se fosse stata la sua bandana? Che scemi che eravamo! Ma che risate!
Oppure no, ora lo sento: c’è Umberto Tozzi in sottofondo, con la sua celeberrima “Ti amo”. La sto ascoltando nella macchina di Luigi, un amico di mio cognato, mentre con lui e un’altra decina di persone, tra le quali mia sorella, ci dirigiamo nella provincia senese per trascorrere un sereno ponte festivo sulla neve. In quell’occasione ho praticamente costretto mia sorella a portarmi con lei, perché, tra i tanti partecipanti alla gita, c’era anche la figlia di una sua amica, altra presenza costante nella mia vita fino agli anni dell’adolescenza: Marika. Buffo come, anche in questo caso, ho visto diminuire, fin quasi a sparire, tutti gli incontri che avevamo. Eppure c’è stato un tempo in cui quelle ore trascorse insieme erano quasi sacre, tanto da non poter sprecare nemmeno un minuto di quelli che ci venivano concessi, svegliandoci all’alba anche nelle giornate di festa per vivere appieno tutto ciò che avevamo la fortuna di condividere. E poi nulla, l’adolescenza si è messa di mezzo e i nostri giochi di bambine sono stati accantonati, con meno dolore rispetto a quanto è avvenuto con Alessandro, forse perché, in realtà, il distacco da Marika è avvenuto con molta più naturalezza e molta meno rabbia. Ci siamo viste ancora, di tanto in tanto, fino alla mia definitiva partenza, ed ogni volta era bello e nostalgico allo stesso tempo, perché non c’era più quel tempo quotidiano dopo la scuola a renderci complici nei giochi e nel divertimento, ma, allo stesso tempo, c’eravamo sempre noi, io e lei, ancora insieme nonostante tutto.
Sorrido richiamando alla mente quella gita in montagna estorta ai nostri familiari: io e lei, vestite con delle improponibili tute dai colori sgargianti, coperte da cappelli di lana calzati fin sopra gli occhi, impegnate a sconfiggere la nostra paura di lasciarci andare, a bordo del nostro bob preso in affitto, giù per una discesa che ci sembrava fin troppo ripida. Fu un’Epifania molto ricca quella: a parte la vacanza e la gioia di condividere una camera d’albergo senza la supervisione di un adulto, ci furono regalati moltissimi giochi in scatola, che ancora tengo gelosamente custoditi nell’angolo destinato ai ricordi. Molti doppi, però, a dimostrazione di un’assenza di furbizia di chi ci era vicino: che ce ne saremmo dovute fare di due giochi uguali quando quei giochi si facevano in compagnia e noi eravamo sempre insieme?
La musica, ora, è cambiata di nuovo: c’è Vasco Rossi e la sua “Stupendo”. La prima volta che l’ho ascoltata avevo undici anni; mi sembrava una canzone strana, trasgressiva. Un po’ come la proprietaria della musicassetta, Annetta, un’altra amica di mia sorella dai comportamenti un po’ border line. In quel periodo, però, aveva un bambino piccolo e passava molto tempo a casa. E io con lei, a trascorrere le mie mattine d’estate, giocando con il piccolo di casa e mettendo in mostra il mio innato istinto materno, mentre aspettavo Alessandro che tornava dal centro estivo dove era stato iscritto. Io no. Ho sempre odiato quegli agglomerati di persone e quelle poche volte che mi sono lasciata tentare ho sempre rimpianto la mia decisione di aderire a quelle iniziative.
La seconda volta che l’ho ascoltata con attenzione ero più grande e lavoravo da poco. Gino, il capo, lo vedevo come un alieno da temere. E poi, un pomeriggio, disse di non disturbarlo perché doveva portare a termine un lavoro quando sua madre mi mandò da lui per chiedere informazioni su un’altra questione. Spaventata, attraversai il corridoio che portava alla sua stanza e mi sorpresi nel trovarlo a scrivere con la musica accesa, il sorriso sulle labbra e una positività che non ho più visto in nessun altro. In quel momento è cambiato qualcosa: non era più Gino il capo, un’entità astratta di cui avere paura. In quel momento, si era trasformato in una persona, forse una delle migliori che abbia mai conosciuto. Non che non abbia avuto i miei problemi con lui, in fondo siamo tutti esseri umani, ma non ho mai più trovato nessuno come lui, capace di farmi sentire sicura di me stessa e delle mie capacità, rispettata e speranzosa nei confronti di un futuro che, davanti ai miei occhi, si è sempre colorato di nero, tranne quando lui diceva che avrei potuto ottenere dalla vita tutto quello che desideravo. Anche se poi non è stato così. Sono andata semplicemente avanti, in realtà rimanendo immobile in tutti quelli che sono stati i miei problemi da sempre.
Ora le casse risuonano “Il treno” di Cocciante. La ascoltava sempre Franco, il marito di mia cugina, un’altra di quelle persone che mi ha fatto porre più perché di quelli che si meritava. La canzone, però, è bella: quando l’ascolto, penso sempre alla vita che scorre, come i paesaggi descritti in quelle strofe poetiche accompagnate da una musica melodica che trasmette un’immensa nostalgia. Dove mi aveva condotto il mio di treno?
Improvvisamente sento di aver perso la mia identità e sono sola in quella stanza così impersonale, in compagnia solo di un passato che, per sua natura, è destinato a non esserci più. Ho sempre pensato che le persone siano la somma delle esperienze vissute e allora perché io, nonostante sia circondata da una montagna di ricordi, mi sento vuota come se fossi un contenitore di cartone pronto per essere gettato via? Cosa sono diventata oggi? Chi sono?
Il caldo è asfissiante, nonostante il condizionatore acceso, e la mia insofferenza si fa sentire sempre di più. Spengo il computer e faccio nuovamente quello che avrei fatto a vent’anni: seguo l’istinto e mi metto in macchina, alla ricerca di me stessa, inseguendomi nei luoghi che hanno fatto parte di me. Nel mio quartiere no, questo è appurato. Allora ricomincio da un luogo più facilmente raggiungibile: Contigliano.
Come quando avevo vent’anni, mi ritrovo alla guida della mia macchina, a tarda notte, diretta verso la provincia reatina. Allora per trascorrere un’ora insieme al mio buon vecchio ex migliore amico, oggi non lo so neanche io perché. Ma il cuore mi dice di andare e voglio agire senza pensare troppo a cosa possa essere giusto e cosa no.
   
 
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