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Autore: Nina Ninetta    08/11/2020    9 recensioni
Damìr è un bambino russo adottato da una coppia italiana, con i quali però non riesce a instaurare un buon rapporto. Le stesse difficoltà sociali le riscontra anche a scuola e nella comunità per minori alla quale i genitori si rivolgono per un aiuto. Damìr è violento e aggressivo, eppure il suo nuovo compagno Daniele sembra essere l'unico a tenergli testa...
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Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uno di noi

 
 

“Brother that isn’t a brother,
just like how daddy doesn’t
really mean father”

 

 
Quando Damìr arrivò al centro ne rimase positivamente colpito. Si era aspettato una struttura isolata e forzatamente colorata, con uno spazio verde trasandato e vecchie altalene usurate. Invece si ritrovò all’interno di un appartamento, con due stanze dalle pareti azzurrine nelle quali c’erano quattro cattedre bianche, ciascuna di esse contava sei sedie color pastello. Alle pareti foto di ragazzi e bambini davanti a tavoli imbanditi e a una torta con alcune candeline ancora accese; travestiti per la festa di Halloween; un Babbo Natale donava loro pacchi regalo.
Oltre c’era un ufficio che la direttrice Mara presentò come suo e perciò off-limits per gli ospiti della struttura; due bagni e una cucina abitabile.
Insieme ai suoi genitori Damìr si accomodò sulla punta di una sedia, proprio in quest’ultima stanza. Rimase in silenzio per tutto il tempo, lui che non stava fermo e zitto praticamente mai. Uno scricciolo di bambino venuto da un altro mondo per finire in una casa famiglia. Di nuovo.
Mara, una sessantenne troppo larga per la sua bassa statura, gli chiese come si chiamasse, ma sua madre non gli diede il tempo di rispondere, perché come al solito attaccò con lo sproloquio su quanto lui fosse problematico nella gestione e lei non avesse tempo di stargli dietro.
«Io sono un’insegnante» cominciò. «Lavoro fuori regione e torno a casa solo nel fine settimana. Abbiamo deciso che fosse mio marito a occuparsene poiché il suo lavoro non è fisso».
Damìr osservò di sottecchi suo padre, un uomo sulla cinquantina alto e magro, con pochi capelli bianchi e gli occhiali a coprirgli gran parte del viso. Questo non interruppe sua moglie, come sempre faceva si limitò ad annuire.
«Damìr non l’ha presa bene questa cosa, io gliel’ho spiegato che è anche per il suo bene, ma lui non capisce».
«È normale signora , lui vorrebbe starle vicino. Vero, Damìr?» Mara gli si rivolse con un sorriso e il bambino annuì.
«Ma il nostro vero problema è che non riusciamo a instaurare un buon rapporto con lui, eppure sono ormai sei anni che vive con noi». Era stato il marito a confessare ciò che li affliggeva. «Ovviamente la lontananza di Elvira ha peggiorato la situazione».
«Scusami Enzo se lavoro per il bene di tutti!» rispose stizzita la donna.
Damìr l’abbracciò di slancio, dicendo che voleva stare con lei. Elvira lo allontanò, sembrava che quel contatto la infastidisse, il suo viso magro e arcigno non riuscì a trattenere una smorfia di dissenso. Il bambino si scostò e Mara pensò che fosse una buona idea mandarlo nella stanza adiacente, una di quelle azzurre.
«Adesso i ragazzi sono a scuola, ma vedrai che oggi pomeriggio saranno tutti qui e ti divertirai con loro». Damìr ripensò ai suoi vecchi amici e rabbrividì. «Io devo chiedere delle cose a mamma e papà, intanto ti faccio vedere dove sono i giohi» la direttrice fece per alzarsi.
«Non c’è problema» la fermò Elvira. «Damìr aveva cinque anni quando siamo andati a prenderlo e si ricorda tutto. Conosce la sua storia perché deve capire quanto sia stato fortunato rispetto agli altri bambini. Certe volte però se lo dimentica, quindi è buona cosa rispolverare la memoria ogni tanto. Giusto, Damìr?».
«Sì».
Damìr era stato trovato ai piedi di un cassonetto dell’immondizia nel sud della Russia, in un paesino di poche anime al confine con la Mongolia. Era sopravvissuto perché aveva pianto così forte che qualcuno lo aveva udito e portato all’orfanotrofio più vicino. Dagli esami clinici (e dai tratti somatici sempre più evidenti con il passare degli anni) era saltato fuori che aveva origini mongole. Forse era il figlio illegittimo di una delle tante donne che lavoravano nelle fabbriche e di cui i padroni approfittavano; magari l’ultimo nato di una famiglia che non poteva permettersi un’altra bocca da sfamare.
Damìr era cresciuto sapendo fin da subito che la vita non era una passeggiata e che per alcuni di loro neanche un diritto. Aveva imparato a farsi rispettare con le cattive, dal momento che con le buone maniere si rischiava di diventare facile bersaglio degli altri. Inoltre, era sempre stato mingherlino, più basso e leggero dei suoi coetanei, perciò non aveva mai potuto contare sul fisico per imporsi, ma aveva una forza d’animo e una tenacia che avrebbero smosso le montagne.  
Elvira ed Enzo non si erano di certo aspettati di dover far fronte a un vero diavoletto quando avevano avviato la documentazione per l’adozione. In realtà, a desiderare un figlio era stato soprattutto lui, forse perché aveva scoperto di essere sterile solo dopo molti anni di matrimonio. Adottare un bambino sfortunato era stato come espiare quella specie di colpa che lui imputava quale motivo principale dell’eterno animo insoddisfatto e insofferente di sua moglie.
Damìr era un mucchietto di ossa, vestito di stracci, con i capelli rasati – tutti in quel luogo avevano i capelli rapati a zero, anche le bambine, “per evitare il flagello dei pidocchi” aveva spiegato loro l’assistente che li accompagnava – e il moccio incrostato al naso. Elvira non era riuscita a toccare suo figlio per settimane, a malapena tollerava la sua visione, neanche dopo che suo marito lo aveva lavato e strofinato con la spugna per togliergli di dosso quell’odore di povertà e miseria. Lei aveva continuato ad affermare che puzzava.
«Ma no tesoro, è la tua impressione».
«Forse è la pelle» concludeva Elvira davanti al bambino.
Anche in Italia le cose per Damìr non erano andate meglio e la certezza che la sua vita non sarebbe stata una scampagnata si era radicata sempre più nel profondo del cuore, sebbene molti aspetti quotidiani fossero migliorati. Continuava a non sentirsi desiderato; a scuola non riusciva a stringere amicizia, le maestre - dapprima commosse per la sua storia - iniziavano a diventare intolleranti per la vivacità e l’insolenza.
«È violento!» diceva il preside ai genitori quando puntualmente finiva in castigo per aver tirato i capelli a un compagno di classe o strappato le pagine di un quaderno poiché non riusciva a seguire il dettato.
Damìr in effetti non conosceva altro modo di imporsi e farsi rispettare se non con la violenza fisica. Nei primi tempi l’italiano lo parlava appena, eppure sapeva riconoscere un insulto e di conseguenza attaccava come un cane rabbioso.  
Dopo aver consultato un psicologo infantile e aver provato a iscriverlo a un corso di Judo per canalizzare la sua rabbia repressa, alla fine era finito in comunità.
«Gli servirà per conoscere persone che hanno avuto un percorso di vita difficile e per legarsi a voi genitori» era stato il commento del dottore.
Così adesso Damìr si trovava al cospetto di Mara che, come tutti all’inizio, pareva commossa di fronte alla sua triste storia, mentre gli prometteva che lì avrebbe trovato la famiglia che cercava.

 

*

 
All’ora di pranzo la casa si animò, proprio come gli aveva predetto la coordinatrice. Ragazzi e ragazze di ogni età riempirono le stanze vuote e nessuno parve accorgersi di lui, eccetto Daniele.
«E tu chi sei?» Gli chiese sedendogli dirimpetto. Damìr non rispose, continuando a mangiare. Daniele, infastidito da quel suo modo di ignorarlo, gli rovesciò il piatto addosso; la pasta al sugo lo sporcò tutto, anche in faccia. Damìr balzò dalla sedia simile a uno di quei giocattoli a molla, era alto la metà di Daniele e pesava ancor meno. Tuttavia, ciò non lo spaventò, anzi iniziò a inveire contro di lui. Daniele rise forte:
«Cosa sei? Uno gnomo?» Con lui risero anche gli altri presenti, intanto che gli assistenti sociali di turno e Mara accorrevano per calmare gli animi.
Damìr fu ripulito da capo a piedi, ma fu costretto a tenersi gli abiti sporchi poiché non aveva un ricambio pulito; poi sia lui sia Daniele furono convocati in ufficio dove la direttrice li ammorbò con il solito discorso stucchevole:
«Dobbiamo essere una sola famiglia; dobbiamo rispettarci l’un l’altro…» dobbiamo qua e dobbiamo là. Cose già sentite mille volte. Da entrambi.
Damìr capì che neanche lì avrebbe avuto vita facile. Gli restava difficile legare amichevolmente con chicchessia: compagni, assistenti sociali, maestre, genitori.
Daniele, dal canto suo, sembrava aver trovato il suo passatempo preferito facendogli dispetti subdoli ed evitando così le ramanzine degli adulti. A ogni suo sfregio Damìr aveva reazioni spropositate, anche dinnanzi a una battuta che non voleva essere offensiva.
Non del tutto almeno.
In questo modo era l’unico a prendersi ripetute strigliate di testa.
La stessa coordinatrice Mara un giorno convocò i genitori per discutere del figlio intrattabile:
«È oppositivo!» esordì. «Non riesce a socializzare e cerca sempre lo spunto per litigare. Proprio oggi abbiamo dovuto farlo mangiare nella stanza con noi per far stare tranquilli gli altri. È aggressivo. Ha graffiato il volto di un suo compagno e datogli un morso sul braccio».
Damìr, che era proprio lì sebbene la donna parlasse di lui come se non fosse presente, provò a difendersi spiegando che Daniele gli aveva messo lo sgambetto e solo per miracolo non era caduto faccia a terra. A quel punto la direttrice aveva fatto chiamare lo stesso Daniele per mostrare ai genitori le conseguenze della violenza del figlio.
Daniele si presentò nella sua veste migliore: espressione mesta da bravo ragazzo, occhi bassi e modi super gentili. Lievi graffi erano evidenti sulla guancia destra, una piccola crosta stava guarendo sul labbro superiore e, quando Mara glielo chiese, mostrò il livido violaceo sul braccio mancino, dovuto al morso di Damìr.
«Ecco qui!» disse la direttrice.
«Quella cosa sulla bocca ce l’aveva già!» Esclamò Damìr.
«Stai zitto!» Lo redarguì Mara. «Sei un bugiardo!», poi fece cenno a Daniele che poteva andare. Quest’ultimo salutò con tanto di inchino, ma chiudendosi la porta alle spalle lanciò un’occhiata beffarda nella direzione del compagno rimproverato e, accertatosi di avere la sua attenzione, gli mostrò la lingua.
Damìr sentì una grande rabbia montargli dentro. Lui conosceva la verità, eppure nessuno voleva credergli – e ovviamente Daniele si era tenuto la cosa per sé. Sapeva, infatti, che quella crosticina sul labbro era un vecchio herpes, aveva sentito lo stesso Daniele lamentarsi con un’assistente sociale poiché gli prudeva.
Damìr a poco a poco imparò ad ignorare il ragazzo più grande e le sue frecciatine, che non sempre erano cattive. A volte gli cedeva la sua merenda quando non ne aveva voglia o provava ad aiutarlo nei compiti di scuola nel momento in cui lui li aveva già terminati. Damìr non accettava il suo aiuto, temendo che dietro a quei gesti gentili si nascondesse un secondo fine e perciò di finire in punizione.
 
Poi un giorno tutto cambiò.
Erano a scuola. Nonostante Damìr frequentasse la quinta elementare e Daniele la seconda media – pur avendo tredici anni – le classi condividevano lo stesso spazio aperto durante l’ora di ginnastica. Gli insegnanti si stavano godendo l’ultimo sole ottobrino, mentre gli alunni erano stati lasciati liberi di fare ciò che desideravano. Le bambine si erano unite a fantasticare sui ragazzi più grandi; quelle delle medie chiacchieravano di make-up e di giovani cantanti dei talent show; i maschi delle medie stavano organizzando una partita di pallone contro i mocciosetti delle elementari.
Daniele invece se ne stava seduto in disparte, le cuffiette nelle orecchie ad ascoltare il suo rapper preferito. Non amava molto lo sport e il calcio meno di tutti. D’improvviso però si accorse che qualcosa non andava, la partita si era interrotta e si stava formando un capannello al centro del campetto. Temeva di sapere cosa stesse accadendo.
Infatti, quando si avvicinò vide Damìr in procinto di scagliarsi contro il suo compagno di classe Nicola: un fighetto figlio di papà che si credeva chissà chi! Il preferito dai professori, ottimi voti a scuola, tutte le ragazze gli andavano dietro. Perfino i maschi della classe sembravano pendere dalle sue labbra e in quel momento stava facendo il prepotente con un bambino delle elementari.
«Perché io non posso giocare?» stava chiedendo Damìr.
«Perché ho deciso così!» rispose Nicola.
«E chi ha detto che devi decidere tu?».
«Uffà! Che noia! Non ti vogliamo, ok? Sei stato in orfanotrofio, chissà quali malattie hai!».
Daniele si domandò come facesse quell’inetto a sapere che Damìr veniva da un orfanotrofio. Sicuramente qualcuno – maestre, genitori – aveva spifferato tutto. Brutta gentaglia gli adulti!
«Non sono malato!» Damìr gli si gettò addosso, la voce spezzata dall’umiliazione. Nicola, alto e grosso il doppio di lui, lo spinse via senza affanno. Il ragazzino atterrò con il culo sul cemento e tutti scoppiarono a ridere.
«Guardati, sembri un cane bastardo. E puzzi anche come un cane!» Nicola sorrideva nel pronunciare quelle parole, perché uno come lui non poteva neanche immaginare cosa significasse sentirsi realmente il fetore addosso e non poterselo togliere.
Daniele sì.
Daniele al contrario aveva vissuto in una roulotte per anni, insieme ad altri tre fratelli, la madre e il padre. Si era lavato in una bagnarola dove prima di lui erano stati i suoi familiari; aveva dormito avvolto in una vecchia coperta di lana che gli pungeva e arrossava la pelle del viso; mangiato direttamente dalla spazzatura che la gente gettava al momento. Fin quando un vecchio carabiniere in pensione aveva deciso di aiutarli mettendo in moto la lentissima macchina della burocrazia sociale, togliendo lui e la sua famiglia dalla strada e donandogli una parvenza di vita dignitosa.
«Pezzo di merda!» Daniele mise una mano in faccia a Nicola e lo spinse indietro, questo riuscì a tenersi in equilibrio aggrappandosi a un altro compagno. «Te la prendi con i bambini?! Verme! Chiedigli scusa, verme!».
«Oh, ma che cazzo vuoi?» Nicola a sua volta lo spintonò.
«Sei un verme che striscia. Andrai strisciando dai professori o da paparino adesso che ti gonfierò?».
Damìr rimase a bocca aperta, ancora seduto sul terreno polveroso.
Cosa stava succedendo?
Perché Daniele lo difendeva?
Ne derivò una lite furibonda che sarebbe degenerata se non fossero intervenuti i professori. Sia Nicola, sia Daniele finirono dritti in presidenza, sul volto i segni evidenti della litigata. Com’era prevedibile la punizione più grossa spettò a Daniele, il quale si beccò ben tre giorni di sospensione. Poteva scordarsi la promozione, anche quell’anno.
 
Quando quel pomeriggio, al centro sociale, Damìr si accostò a Daniele – il cui occhio sinistro stava assumendo una preoccupante sfumatura color melanzana – per chiedergli perché lo avesse fatto, perché lo avesse difeso, la risposta lo sbalordì ancor più del gesto in sé:
«Perché sei mio fratello, no? Sei uno di noi, Damìr».
Uno di noi”.
Quelle parole Damìr se le scolpì nel cuore e crescendo se le sarebbe anche fatte tatuare sulla pelle, letteralmente.
Decise allora di raccontare dell’accaduto al padre, la sua intenzione era parlarne con il preside in persona e spiegare come erano andate realmente le cose. Enzo ascoltò il ragazzino, scuotendo più volte il capo. Alla fine della storia affermò che non solo voleva fare una chiacchierata con il signor preside – come lo chiamò – ma  soprattutto intendeva avere un confronto con il padre di questo Nicola.
«È impensabile che un ragazzetto maleducato si rivolga così a nostro figlio!» Damìr lo sentì chiaramente mentre era al telefono con sua moglie Elvira.
Di fronte al preside e al papà di Nicola, di nuovo Enzo usò le parole “mio figlio” per rivolgersi a Damìr, il quale silenzioso e composto in un angolo sorrideva felice.
Il preside della scuola decise di revocare la sospensione a Daniele, mentre Nicola fu obbligato da suo padre a scusarsi con Damìr per ciò che gli aveva detto.
Quando Daniele apprese che sarebbe potuto tornare a scuola il giorno dopo e che quindi l’anno scolastico non era più in bilico – fu lo stesso Damìr ad annunciargli la notizia tutto contento – finse di esserne seccato:
«Adesso non potrò più stare a casa a dormire!» disse, eppure i suoi occhi parevano esprimere il contrario.
Una volta fuori dalla scuola, dopo il confronto con il preside e le scuse di Nicola, Damìr abbracciò suo padre, ammettendo:
«Non vedo l’ora di rivedere mamma».
Enzo prese il cellulare dalla tasca del giubbotto e avviò la chiamata verso sua moglie:
«Tesoro, tuo figlio vuole dirti una cosa», poi porse il telefono al ragazzino. «Tieni, diglielo tu stesso».
Damìr sorrise.
 
Che avesse finalmente trovato quella famiglia tanto sognata che neanche sapeva di volere?

 

Fine

 
Angolo autore
Salve a tutti!
Non sono solita rivolgermi a voi lettori a fine storia, ma questa volta credo che il racconto abbia bisogno di una spiegazione.
Come ho specificato nell’introduzione, questa one-shot partecipa al contest di Soul Dolmayan e la frase in inglese che trovate all’inizio è il prompt che mi è toccato.
Tradotto, la frase dice che “un fratello non è un vero fratello, così come un papà non è il vero padre”. Da qui ho immaginato un bambino adottato che trova la propria famiglia dove mai aveva sperato.
In ogni caso spero vi sia piaciuta, alla prossima
Nina^^
  
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