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Autore: AlessiaDettaAlex    11/11/2020    2 recensioni
[LLS!! Post-canon | KanaMari | presenza di OCs | è la storia di due amiche che si ritrovano dopo essersi perse di vista (di nuovo) | ed era una scusa per scrivere una fanfiction in cui Kanan e Mari flirtano incessantemente, ma a Los Angeles | uso intensivo di cliché e fluff, una spolverata di melodramma | 10 capitoli totali]
City of stars / Are you shining just for me? / City of stars / Never shined so brightly.
[“City of stars”, from La La Land]
«Fino a quando resti qui?» […]
«Settembre, probabilmente. Non sarà una toccata e fuga»
Un sorriso nuovo fiorì sul volto di Kanan, non previsto.
«Quindi rimani»
«Rimango»

[dal cap. 2]
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Kanan Matsuura, Mari Ohara, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 7. Accettare un rischio non calcolato
 
How do we rewrite the stars?
Say you were made to be mine?
[...]
But I can’t have you
We’re bound to break and my hands are tied
 
“Rewrite The Stars”, from The Greatest Showman
 
La piscinetta delle esercitazioni del Centro era gremita di clienti e studenti, tra i quali spiccava il gruppetto di principianti di Nicole e Kanan; la prima era intenta a spiegare alcune procedure di primo soccorso che la seconda avrebbe poi fattivamente mostrato. Ma Kanan, in evidente stato di distrazione, anziché ascoltare picchiava il boccale di uno snorkel sulla gamba della sedia su cui era seduta, con un ritmico e fastidioso ticchettio. Fissava un punto imprecisato dietro Nicole, di cui captava qua e là qualche parola, non sufficiente per strapparla dai suoi pensieri.
«… vero, Miss Matsuura?»
Kanan raggelò, per la seconda volta rimproverata nel giro di un mese. Balbettò qualcosa per scusarsi, mentre si alzava in piedi e si prodigava in inchini riparatori; qualcuno tra gli studenti rise, ma venne immediatamente fulminato da un’occhiataccia di Nicole.
«Come dicevo, Miss Matsuura adesso ci mostrerà alcune tecniche di rianimazione…» le due colleghe si guardarono, Kanan annuì un po’ troppo debolmente per i gusti di Nicole «a meno che non senta la necessità lei stessa di una… procedura di respirazione bocca a bocca da parte di una certa bionda…» aggiunse a denti stretti, ma abbastanza forte perché la sentisse.
Kanan la guardò stordita; gli studenti in loro prossimità ammutolirono, captando la tempesta.
«Scusa?»
«James, Matsuura… tutto a posto?»
La voce intervenuta era quella di uno degli istruttori più anziani, allertato dallo stato di tensione che si respirava nel gruppo delle due più giovani. Nicole sfoggiò il suo miglior sorriso riparatore e fece prontamente un cenno al suo superiore.
«Tutto bene, è solo il caldo che ci sta dando alla testa» scherzò, «… in pausa pranzo ne riparliamo, non pensare di sfuggirmi, Kanan» concluse rivolgendosi sottovoce alla collega, tra il minaccioso e il rassegnato.
Ma il fioco cenno di assenso della ragazza le fece temere che la situazione fosse più grave di quel che si era immaginata.
Nel giro di qualche ora stavano sui tavolini esterni del locale che erano solite frequentare, a metà strada tra il Centro Immersioni e la spiaggia.
«Kanan, ultimamente al lavoro non sembri neanche tu. Di solito sei sempre attenta e ricettiva... un giorno “no” capita a tutti, ma ormai saranno… quanti, quattro?»
«Tre» corresse Kanan posando sul tavolino la bottiglietta ancora piena di Coca-Cola.
Nicole piegò il capo verso di lei con fare interrogativo.
«Mari è un po’ che non si fa viva… è per quello?»
«Risponde in modo evasivo ai messaggi, non risponde per nulla alle chiamate… tutto da un giorno all’altro. Non ha mai fatto così, ho paura che c’entrino i suoi genitori… e non so che fare, non so se dovrei andare da lei il prima possibile oppure è meglio che non mi faccia viva per un po’! Non so nemmeno se è per causa mia e questa cosa mi manda fuori di testa!»
La collega stese una mano in avanti per bloccarla.
«Kanan, calmati. Capisco la preoccupazione e tutto, ma devo dirtelo: scene come quella di oggi al Centro non devono più ricapitare. Sei una gran lavoratrice, lo so bene, e so che normalmente sei perfettamente in grado di tenere separate vita lavorativa e vita privata… questo è un caso più che particolare. Ma è arrivato il momento di riprendere a dividere le due cose… e ti chiedo scusa per la frecciatina che ti ho lanciato, riconosco non fosse per nulla d’aiuto. Tutto questo devo dirtelo in qualità di tua collega e superiore...», e Kanan abbassò la testa colpevole, «… da amica, invece, ti dico: vai da lei. Non ha senso che tu rimanga qui a piangerti addosso come una bamboccia mentre aspetti che ti risponda, non sei mica alle elementari! … facciamo così: domani siamo libere, ti accompagno in macchina a Downtown»
Kanan aveva gli occhi lucidi e un’espressione sconsolata da far impietosire un serial killer; teneva stretta la bottiglia con entrambe le mani, come fosse l’unico solido appiglio rimastole in mezzo a una burrasca.
«E se fosse lei a non volermi vedere? Io non voglio lasciarla andare, Nicole»
«Raggio di sole, assumiti le tue responsabilità. Tu l’hai conquistata, tu ora devi trovare il modo di far funzionare le cose… lei per qualche motivo adesso non può, perciò o ti fai avanti, o lasci che la vostra relazione marcisca nei sotterranei di questa volubile città nello stesso modo in cui ci è nata. E sono sicura che tu non voglia questo»
Nicole alzò il suo tè freddo verso di lei, attendendo che Kanan facesse lo stesso. La più giovane lasciò andare un sospiro misto a una mezza risata; arresa, accettò l’offerta e fece tintinnare la bottiglia contro la sua, per poi portarsela alle labbra.
 
Seduta in macchina con Nicole, il giorno dopo, Kanan ebbe un po’ di tempo per pensare. La città le scorreva davanti agli occhi, vitale e indaffarata come sempre; si rese conto di quanto le sembrasse molto più monotona e grigia, senza Mari. Le cose che un tempo l’avevano stupita - i viali alberati, i cinema storici, i monumenti contemporanei - non sortivano più alcun effetto su di lei da quando si era chiusa nel suo silenzio: era come se la luce delle cose fosse venuta meno e la realtà stessa fosse piombata in un buio abisso. L’insegna di Hollywood era una scritta di cartapesta che campeggiava in un prato di sterpaglie bruciacchiate dal sole estivo; le strade secche, crepate, nascondevano l’incuria e l’indifferenza di quei vialoni tutti uguali, che fungevano da cornice arrugginita alle ben curate attrazioni principali: la Vanità mascherata sorrideva ai visitatori in forma di ville e di stelle e di impronte e di supercar parcheggiate tra i negozi di lusso. Los Angeles era sempre stata così mediocre?
«Questa stupida città è un inutile connubio di traffico e celebrità rifatte» arrivò il puntuale commento di Nicole, che si innervosiva spesso quando doveva guidare per quelle strade.
Kanan rise tra sé; ma subito dopo la colse una sorta di angosciosa malinconia, e le scavò un vuoto addosso che pareva riflettere il nulla esistenziale che in quel momento, per la prima volta, aveva sorpreso oltre il sipario della gloriosa capitale del cinema. Forse Nicole non aveva tutti i torti.
Il navigatore le condusse all’hotel a colpo sicuro, in poco meno di mezz’ora. Nicole scambiò con lei uno sguardo di complicità e poi le diede delle vigorose pacche sulla schiena.
«Vai a torna vincitrice! Chiama pure se hai bisogno»
Kanan annuì e scese, ma attese immobile che la sua collega ripartisse: inspirò a fondo, chiuse gli occhi qualche secondo, poi li riaprì; solo dopo si avviò all’interno dell’hotel. Una volta davanti al bancone chiese al receptionist di Ohara Mari, la figlia dei proprietari: questi la squadrò con sospetto da dietro gli occhialetti spessi.
«Chi cerca la signorina?»
Nel tentativo disastroso di balbettare il proprio nome – già pensava a tutti i possibili scenari apocalittici in conseguenza all’esser beccata dalla madre di Mari –, fu definitivamente zittita dalla mano di un uomo adulto sulla sua spalla. Gelò.
«Me ne occupo io, questa ragazza è con me»
Kanan riconobbe il timbro in un battito di ciglia e si voltò, l’espressione totalmente trasfigurata dal sollievo.
«Zachary!»
L’autista le sorrise, bonario come sempre; poi le fece cenno di seguirlo all’esterno, mentre già si infilava una mano nel taschino del gilè quadrettato e ne estraeva la scatolina dei sigari. Una volta sul marciapiede, appoggiò le spalle al muro e se ne accese uno, con una gestualità precisa e rituale. Kanan lo lasciò fare: essere con lui l’aveva investita di uno stato di semi-pacificazione; non avvertiva più la frenetica fretta di trovare Mari: la sua pista migliore era proprio davanti ai suoi occhi, che aspirava il cubano con l’usuale dedizione.
«Stai cercando Miss Mari?» iniziò lui dopo un lungo minuto di pausa.
Kanan annuì.
«Sai dirmi dov’è?»
«Sì, ma mi preme dirti una cosa, prima» fece un tiro, trattenne il fumo in bocca e poi lo espulse, «sono confidenze che mi ha fatto la signorina… ma siccome riguardano anche te, vorrei mettertene al corrente» aspirò ancora, facendo una pausa più misurata «così potrai decidere consapevolmente se proseguire o farti da parte»
«Sì, certo» gli rispose Kanan staccandosi dal muro, un formicolio al petto la riportò di nuovo in uno stato di preoccupata sospensione.
«Mister Ohara ha proposto alla signorina di scegliere tra succedere all’azienda oppure vivere liberamente la vostra relazione. Ma il problema è che, naturalmente, non riesce a decidere»
L’uomo si lasciò andare a un sonoro sospiro. Kanan si era già visibilmente irrigidita, sembrò voler subito intervenire ma le parole le si seccarono in gola.
«Io devo confidarlo, ho a cuore la felicità di Miss Mari come se fosse figlia mia», passò la fiamma dell’accendino sulla punta bruciacchiata del sigaro, per riattizzarlo, «mi preoccupa che affronti questa situazione da sola, per questo ho provato a parlarle: ma la signorina alle volte sa essere testarda tanto quanto il suo vecchio! Non sente ragioni, anche se ormai è evidente che non risolverà nulla incaponendosi. Io ho paura che finisca semplicemente per gettare la spugna. Sono convinto che parlare con te l’aiuterebbe, ma significa anche prenderti il rischio di entrare in faccende che riguardano la sua famiglia» fece un altro tiro, poi si voltò verso la ragazza, «al netto di queste informazioni, ti chiedo: cosa vuoi fare?»
A Kanan, in verità, era crollato il mondo addosso. Non riusciva a credere alle sue orecchie: ogni volta che il loro rapporto si poteva dire solido, ogni volta che lei si poteva finalmente definire felice, riuscivano a finire nelle situazioni più spinose, sbattendo la faccia su muri che sembravano fatti di cemento armato. Lo scoraggiamento era palese nei suoi occhi, ma lottò dentro di sé perché non avesse la meglio: ci doveva per forza essere una soluzione, qualcosa che non le obbligasse sempre a separarsi di fronte al quell’ingrato, recidivo, bivio. Qualcosa che permettesse loro di rimanere se stesse.
Afferrò il braccio dell’uomo, col cuore che aveva iniziato a galoppare con impazienza.
«Portami da lei, ti prego»
Zachary le sorrise e spense il suo mozzicone su un posacenere posto fuori le porte dell’hotel, per poi conservarlo nella scatolina. Tirò fuori dal suo borsello le chiavi argentate della Mercedes e le aprì la strada. Kanan non aveva assolutamente idea di cosa le avrebbe detto: l’unica sua certezza era che non avrebbe fatto passare un giorno di più senza aver provato a parlarle.
 
In cima al monte di Hollywood, sul versante dell'Osservatorio Griffith carico di turisti, si godeva di una delle viste più iconiche della Contea di Los Angeles. Circondato dall’ampio Griffith Park, l’Osservatorio troneggiava al di sopra dell’immensa metropoli, svelando un panorama che sfiorava le coste dell’Oceano Pacifico. Sul grande parcheggio simmetrico, puntellato di auto metallizzate, Zachary si era fermato per far scendere la sua ospite. Kanan si voltò verso di lui, ancora immobile sul sedile: colse una buona dose di coraggio dal suo sorriso paterno; quindi fece per scendere ma venne bloccata dalla cintura di sicurezza, di cui si era dimenticata, che la riportò ingloriosamente sul sedile. Zachary non poté trattenere una risata.
«Rilassati»
«Spero andrà meglio di come ho cominciato!»
«Ne sono certo»
Scese dalla Mercedes: il luogo, fortunatamente, la metteva a proprio agio: ci era stata altre volte e lo conosceva piuttosto bene. Guidata dall’abitudine, prese il percorso esterno all’aiuola, in direzione del lato ovest dell’edificio; camminava lentamente, per avere il tempo di pensare a cosa le avrebbe voluto dire al momento di incontrarla. Scese le scalette e raggiunse i balconcini che davano sulla vallata, bianchi e assolati; il mare vasto della città catalizzò subito la sua attenzione: perciò si avvicinò al muretto per goderne meglio. Istintivamente prese il cellulare dalla tasca per fare una foto, ma appena sbloccò lo schermo si ritrovò davanti agli occhi la chat di Mari; aggrottò le sopracciglia e mise via l’apparecchio, nuovamente ferita.
Da tre giorni non le parlava. Zachary sosteneva che non riuscisse a scegliere, ma in fondo questa chiusura non era già essa stessa una scelta? Dopotutto non si era più presentata al Centro, e l’aveva tagliata fuori da una faccenda che la riguardava. Sapeva bene che Mari si trovava di fronte a un’impasse: non sapeva se avrebbe reagito in maniera diversa, nei suoi panni. Ma il problema era, appunto, che si trattava di un’impasse; un nodo che andava sbrogliato all’origine. Facilmente, ne conseguiva una valanga di lavoro e di rischi. Gettò fuori un sospiro rumoroso, incurante di essere in un luogo pubblico.
Dietro di lei alcuni turisti percorrevano la passeggiata, parlando una lingua che non conosceva; nel movimento istintivo del girarsi a guardarli, Mari entrò inaspettatamente nel suo campo visivo: lei era proprio lì, qualche metro più avanti sotto il porticato, con le mani appoggiate al muretto e gli occhi persi tra i grattacieli argentati. Kanan ebbe un tuffo al cuore: e si rese conto che aveva esaurito il tempo per autocommiserarsi. Prese un profondo respiro e le si accostò, imitandone la postura.
«Ehi»
Un leggero movimento al suo fianco le dette la certezza di essere stata sentita.
«Che ci fai tu qui?»
«Cercavo te»
Non udendo risposta, raccolse tutto il coraggio che aveva e si girò verso di lei, persuasa che la soluzione migliore fosse arrivare al punto il prima possibile.
«Sei sparita tre giorni senza alcuna spiegazione e nascondendomi la verità… avrei potuto pensare che ti fosse successo qualsiasi cosa se non avessi parlato con Zachary. Venire a cercarti mi sembrava il minimo che potessi fare»
«Mi dispiace… lui ti ha detto tutto, immagino»
«Tutto quello che speravo mi dicessi tu»
Pur senza desiderarlo davvero, non poté fare a meno di lasciar trasparire, dal tono della sua voce, una punta di delusione. Mari in risposta si staccò dal muretto e le stette di fronte, faccia a faccia, cosicché Kanan ebbe modo di vedere quanto stanchi fossero i suoi occhi, gonfi, arrossati; l'immagine la trafisse più di quel che avrebbe voluto.
«Allora non mi sembra ci sia bisogno di dirci altro. Perché sei venuta a cercarmi lo stesso? Io non voglio più metterti in mezzo a tutti i casini della mia famiglia… e io… io sono stanca di lottare contro di loro»
Kanan deglutì, la gola le si era seccata di botto nel sentirla così prostrata.
«Mari, ma tu non sei da sola, ci sono io con te...  se tu non riesci più a lottare posso farlo io per te!»
«Tu non capisci!» ribatté alzando inaspettatamente il tono, al che Kanan trasalì, «non possiamo fare nulla se mio padre decide che non è d’accordo! Ha avuto il coraggio di propormi di abbandonare tutto quello per cui ho lavorato duramente! Tutto! Io sono stanca… forse semplicemente non siamo destinate a stare insieme, alla fine troviamo sempre qualcosa o qualcuno che si mette in mezzo. Io non vorrei scegliere, Kanan, ma mi vogliono costringere a farlo»
«Non devi scegliere, infatti! Io stessa neanche ti chiederei mai di rimanere con me di fronte a un bivio simile, lo sai bene… perché non è giusto che tu scelga! Questo è ciò che dobbiamo dire a tuo padre: che noi abbiamo diritto di stare insieme tanto quanto tu hai diritto di riavere il tuo posto! È mostruoso che ti ricatti in questo modo! Ma dobbiamo essere unite e dirglielo insieme!»
«Pensi che riusciremmo a convincerlo? Non lo conosci abbastanza, Kanan. Devi smetterla di insistere!»
Nonostante il groppo in gola che cominciava a percepire, Kanan strinse i pugni e fece un passo verso di lei.
«Devo smetterla? Quando ti ho lasciata andare te la sei presa! Ora che non ho intenzione di tirarmi indietro non va bene lo stesso?»
«Kanan, ti prego...»
«Che cosa vuoi che faccia, Mari? Torniamo amiche e facciamo finta che l’ultima settimana non sia mai esistita? Io finalmente so che cosa voglio veramente e so che lo vuoi anche tu! Come puoi chiedermi di non lottare?»
«Ma questa non è una battaglia! Quando mio padre si mette in testa una cosa non c’è verso di convincerlo! Insieme a mia madre, poi…»
«Non mi sembra che il loro giudizio fosse un problema quando scappavi dall’hotel per venire a incontrare me e Dia!»
«Eravamo solo bambine, Kanan!»
«Anche quando sei tornata all’Uranohoshi di testa tua eri una bambina? Anche quando eravamo in Italia? Io capisco che tu non ce la faccia più, ma io sono qui proprio per questo! Io sono qui per te!»
Le prime lacrime dall’inizio della discussione scesero proprio sul volto di Kanan; Mari non riuscì a sostenerne la vista e si girò dal lato opposto, dandole la schiena e nascondendo con le mani il turbamento che le traspariva dal viso.
«Tu sei venuta da me, Mari! Tu hai deciso che valeva la pena rischiare, mi hai cercata, mi hai… mi hai fatta innamorare di nuovo di te! E non ti sto dando la colpa perché lo rivivrei cento volte… ma mi sembra un po’ tardi adesso per chiedermi di dimenticare tutto e rimanere solo amiche! Perché io ora so che affronterei tuo padre per poter restare con te!»
Le spalle di Mari tremavano; allora Kanan avanzò e la circondò con le sue braccia, decisamente e allo stesso tempo senza forzarla. Appoggiò il mento sulla sua spalla, incrociò gli avambracci sul suo addome e chiuse gli occhi, dando un profondo sospiro.
«Se davvero vuoi che io mi faccia da parte, allora devi convincermi del fatto che non mi ami»
Mari rimase immobile nel suo abbraccio, col respiro spezzato e le labbra semiaperte, incapace di replicare. Fece correre le proprie mani sui suoi polsi, tra le dita, accarezzandole piano. In un moto istintivo spostò la testa come a voler girarsi per darle un bacio, ma si fermò a metà movimento, combattuta tra il desiderio di abbandonarsi e il continuare a resistere; allora sfregò la guancia su quella dell’altra, per un breve momento.
«Pensi che per me sia semplice, Kanan?» trovò la forza di rispondere a un certo punto, ma la voce le usciva esile «Mi vedi! Vorrei con tutta me stessa che fosse facile come dici tu, ma non lo è»
Prendendo coraggio strinse la presa sulle mani di Kanan e la indusse a sciogliere l’abbraccio; poi, senza mai voltarsi, se ne andò.
 
Il sole era tramontato da una ventina di minuti: il suo chiarore ancora s’irradiava dall’orizzonte, regalando tonalità indaco e azzurre alla volta del cielo. Kanan era in piedi sul molo di Venice Beach con le mani in tasca e lo sguardo rivolto all’oceano, la bicicletta malamente abbandonata un centinaio di metri dietro di sé, vicino alla pista ciclabile. Un rimescolio continuo si poteva ascoltare da sotto il pontile in legno, stanche carezze del mare che concludevano l’avvicendarsi affannoso delle maree; il molo era in penombra, faticosamente illuminato da qualche lampione freddo e frequentato solo da qualche coppietta. Kanan respirò l’oceano: l’odore di salsedine la tranquillizzava, ma non valeva a toglierle dalla testa lo scontro avvenuto con Mari quella mattina. Passeggiò con una fiacca quasi senile fino alla fine del pontile, in ascolto dei propri passi e delle onde gorgoglianti; c’era il mare, c’era la pace, c’era la quintessenza della sua vita senza alcun rischio preso, se non quelli già calcolati, se non quelli già vissuti e superati. La sognava da sempre, questa vita, tra le onde del mare e le quattro mura di casa e del negozio, con nessuna preoccupazione che non fosse il suo immediato presente: ma subito al pensarlo sul volto le si disegnò una lacerante afflizione, perché in quel suo sogno non vedeva accanto a sé Mari. Un misero presente, quello in cui lei non c’era. Mari, in questo quadro, era il rischio non calcolato: senza accettarlo, la sua bella vita in riva al mare non valeva la pena neanche di essere immaginata. Era un rischio che chiedeva di essere rischiato fino in fondo; era il punto di crepa che sfregiava un muro meticolosamente cementato: se gli avesse dato lo spazio per allargarsi, chissà cosa poteva rivelare.
Si fermò alla fine del molo. Sfilò le mani dalle tasche e chiuse gli occhi: quel che c’era da fare lo sapeva da ore, ad essere sincera con se stessa. Sapeva già per cosa valeva la pena combattere, sebbene cercasse di distogliere la mente e tentasse di convincersi che era tutto vano, che Mari aveva tristemente ragione. Era un aut aut: una vita con lei o una senza di lei. Prese un ultimo profondo respiro, riempiendosi i polmoni, poi dette le spalle all’oceano e avanzò verso la bici, a passo spedito. Avrebbe preso su di sé la responsabilità di quel rischio e affrontato faccia a faccia la famiglia Ohara.



 
Note finali
*parte musica della boss battle in lontananza*
Questo è il capitolo in cui dimostro con un complicatissimo teorema (aka narrazione patetica, cioè piena di pathos) che Kanan ha imparato qualcosa dagli errori passati *rumori molesti di fangirl di Kanan*

Prossimo aggiornamento: 21 novembre

Grazie di aver letto!
Alex
   
 
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