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Autore: EffyLou    13/11/2020    1 recensioni
Nessuna donna al mondo ha mai avuto un destino come il mio. Ero nessuno e poi ho avuto tutto, al di sopra di ogni speranza, di ogni sogno. In un batter di ciglia ho perso ogni cosa: lo sposo potente, il regno sconfinato, la libertà e infine la vita, giovane com'ero, insieme a mio figlio.
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Ha venti anni quando incontra per la prima volta quegli occhi, lo sguardo fiero del re di Macedonia, il condottiero che non perdona; ha venti anni quando lo sposa, simboleggiando un ponte di collegamento tra la cultura greca e quella persiana. Fin da subito non sembra uno splendente inizio, e con il tempo sarà sempre peggio: il suo destino è subire, assistere allo scorrere degli eventi senza alcun controllo sulla propria vita, e proseguire lungo lo sventurato cammino ombreggiato da violenza, prigionia e morte.
Una fanciulla appena adolescente, forgiata da guerre e complotti, dalla gelosia, dal rapporto turbolento e passionale col marito. Una vita drammatica e incredibile costantemente illuminata da una luce violenta, al fianco della figura più straordinaria che l'umanità abbia mai conosciuto.
Rossane, la moglie di Alessandro il Grande.
[ATTENZIONE: precedentemente era "Rossane - il fiore di Persia"]
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Introduzione

Innanzitutto, urge una velocissima premessa: questa è a storia riscritta della mia opera "Rossane - il fiore di Persia". Ho voluto pubblicare questa versione a parte senza eliminare e modificare i capitoli della precedente, perché volevo comunque che rimanesse sulla piattaforma nella sua forma embrionale. Mi auguro che questa nuova stesura vi risulti più matura e piacevole. 

Per chiunque seguiva la versione precedente...
Ciao! Bentrovati! I capitoli di questa prima parte - "Oro" - che copriranno l'arco di tempo da poco prima del matrimonio di Rossane alla morte di Alessandro, quindi tutto il viaggio in India. Esattamente come la prima parte nella versione precedente.
L'inizio è stato quasi totalmente modificato, come vedrete, e anche il corso della vicenda subirà alcune modifiche. Nell'altra versione sono stata forse un po' sbrigativa, tralasciando alcuni passaggi, qui cercherò di scriverli al meglio e immedesimandomi di più. Ci provo almeno!
Anche alcuni rapporti verranno ridefiniti, approfonditi o modificati, messi sotto un'altra luce, forse più verosimile. 
Inoltre la seconda parte (dalla morte di Alessandro a quella di Rossane) sarà pubblicata in un'altra opera, non tutto insieme come avevo intenzione di fare nella versione precedente. Questo per una comodità personale ma forse anche vostra.

Riscrivere la storia è una ventata d'aria fresca per me, che ero demotivata e bloccata, e credo anche per voi, che non vedevate segni di vita da parte mia da due anni ormai. Essendo questa parte di storia già stata scritta, e quindi ora la devo solo mettere in una forma più coerente e decente, credo che gli aggiornamenti saranno abbastanza rapidi.. ma non illudetevi (?).
Ad ogni modo, spero che questa nuova versione vi piacerà. Sto cercando di essere molto più coerente sotto il punto di vista storico-antropologico, ma anche archeologico. Non sarà facilissimo ma neanche impossibile.

Per ultimo voglio consigliarvi un artista, su Instagram, che disegna personaggi storici in modo davvero accurato, tra cui i protagonisti delle vicende di Alessandro Magno (Rossane, Ossiarte, Statira, Ambhi): @jfoliveras. È davvero fantastico e mi è stato utilissimo sia per gli approfondimenti storico-culturali che per i riferimenti visivi (gioielli, abiti, etc). 
 


I. Nonostante la presenza di Alessandro Magno e le sue gesta per circa 30 capitoli, non è incentrata su di lui ma su Rossane, la sua prima moglie. Una figura totalmente anonima, oscurata da diversi fattori storico-culturali, ma che era presente e non molto mite...
Ciò che riguarda questa donna (all'epoca poco più di una ragazzina) è quasi nullo e molto vago: nessuno descrisse con esattessa il suo aspetto fisico, limitandosi a dire che fosse la fanciulla più bella di Persia dopo Statira I, moglie di re Dario III; non si fa accenno nemmeno alla sua personalità. Tuttavia le donne della Persia Achemenide erano molto emancipate, al punto che potevano diventare satrapi o persino Immortali. In particolare i nativi della Battria-Sogdiana (come Rossane) erano sotto le influenze Scite, di cui facevano parte le famose Amazzoni, ed erano considerati feroci e agguerriti. Rossane stessa, ci è dato credere, che fosse stata una donna focosa e agguerrita. 
Cercherò di parlare del contesto persiano, l'aspetto antropologico e religioso, mettendolo a paragone con quello greco-macedone. Spero di rendere questa storia un viaggio nel passato. 

II. Ho sempre amato Alessandro Magno come personaggio storico, nonostante alcune sue brutalità, ma non avevo alcuna intenzione di scrivere su di lui. È una figura complessa e sfaccettata, e il rischio di snaturarla e fare un fiasco totale... è alto. Già temo di averlo fatto mentre scrivevo i capitoli in cui è presente, figuriamoci. 
Allo stesso tempo, a darmi l'input per scrivere questa storia fu un articolo online dedicato interamente a Rossane. Questa fanciulla che dai confini del mondo ha sposato una delle figure più straordinarie della storia. Personalmente dubito che lu l'abbia sposata solo per calcolo politico: ovviamente anche per quello, ma credo anche in una punta di romanticismo. Anche se se io questa storia l'ho resa più romantica di quanto, probabilmente, in realtà non fosse, senza togliere quel rapporto burrascoso che avevano HAHAH Nonostante questo, i due si sono voluti bene: dopo tante difficoltà superate insieme si era instaurata una buona complicità, al punto che Alessandro la voleva portare con sé anche durante la spedizione in Arabia, lasciando le altre due mogli a Susa.
Una nota per le "shippers" di Alessandro ed Efestione: non troverete questa coppia. Non come volete voi, immagino. In primo luogo perché la storia tratta di Rossane in primis; in secondo luogo perché ho dei dubbi sulla natura romantica esplicita tra i due. Credo sia stato un rapporto molto discreto, limitato ad atteggiamenti e parole piuttosto che ad azioni (baci, rapporti) come invece accadeva tra Alessandro e l'eunuco Bagoa, amanti veri e propri. Non so se mi spiego..
Vi prego quindi di evitarmi commenti come: "Alessandro era omosessuale" perché no, non lo era. Era bisessuale/pansessuale come il 99,9% dei greci, macedoni e persiani del tempo. Non esisteva questa polarizzazione all'epoca.

III. Al termine di alcuni capitoli potrei inserire piccole note esplicative, curiosità o approfondimenti. Questo per evitare di scrivere, tra una vicenda e l'altra, malloppi di informazioni che renderebbero la lettura pesante, e limitarmi a inserire lo stretto indispensabile per la comprensione del contesto. In ogni caso, per chi vorrà, ci saranno appunto queste note finali per un approfondimento!

IV. Per ultimo voglio chiedervi di cercare di dimenticare la nostra etica e morale. La storia è ambientata in un luogo lontano e in un tempo lontano, si parla di avvenimenti accaduti più di duemila anni fa. Gli usi, costumi, la mentalità, le persone.... erano molto diversi da noi oggi. Ciò che ora troviamo ripugnante o senza senso, all'epoca era normalità. Perciò vi chiedo di tener conto di questo prima di giudicare i personaggi, cercare di incastrare i loro comportamenti e motivazioni nel contesto del loro tempo.
Neanche dovrei farlo questo discorso, veramente, deve essere scontato, ma ho avuto lettrici che mi hanno fatto cadere le braccia a terra per certi commenti.

Fonti usate:
- il sito del professor Kaveh Forrokh per gli approfondimenti sui vari aspetti culturali della Persia Achemenide;
- una cronologia riassuntiva e dettagliata degli eventi sul sito leonardo.it;
- il libro di archeologia sull'Asia Centrale preislamica che uso all'università (?).
 

Stella d'Oriente

parte I

Oro

Tu che sosti di fronte alla mia tomba, sappi che nessuna donna al mondo ha mai avuto un destino come il mio.
Ero nessuno e poi ho avuto tutto, al di sopra di ogni speranza e di ogni immaginazione. Dalle alte vette del Paropamiso, la parte est del Grande Khorasan, nell’aspra regione di Battria ove noialtri eravamo considerati alla stregua di barbari; ove eravamo semi nomadi, arditi d’animo e ben lontani dalle costumanze artificiose del cuore di Persia.
Ed io, nobile figlia di un signore di Battria, cresciuta tra mura confortanti, non sapevo nulla del mondo fuori. Dall’altro lato del mondo arrivò poi un uomo. Vide qualcosa in me e mi sposò.
Con pazienza e gentilezza fui sua. Egli mi condusse lontana da casa, lontana da luoghi sicuri, mi permise di vedere tutto un mondo fuori dalle mura dello sfarzo regale. Volava così vicino al Sole, come se fosse invincibile; ma egli stesso lo era, benedetto dagli Amesha Spenta per tutta la durata della sua breve e incredibile vita.
Gli averi terreni sono effimeri ed evanescenti, in un batter di ciglia persi ogni cosa: lo sposo potente, il regno sconfinato, la libertà e infine la vita, giovane com’ero, insieme a mio figlio. L’unico erede di Alessandro.


 

Moqaddame

prologo


BATTRIA. CITTA’ DI ZARIASPA.
Autunno 328 A.C.

 
Una foglia secca e scura si adagiò sulla superficie dell’acqua nel vivaio dei pesci, che guizzarono via non appena l’intrusa invase il loro dominio. Increspature concentriche turbarono la calma piatta della vasca, con la loro lenta e placida estensione. Una delle prime foglie ad aver abbandonato il proprio ramo. Una di quelle coraggiose, pioniere; o una delle meno resistenti, subito arresasi all’arrivo dell’autunno.
Solo una foglia caduta al tramonto, quando il cielo si dipingeva d’arancio e rosa verso l’ovest, dove il sole era già scomparso dietro le mura del palazzo, mentre ad est era in agguato l’oscurità della notte; quando l’aria cominciava a riempirsi dell’odore della legna per i focolari e del lieve puzzo acre, e al contempo confortante, del fumo degli stessi.
Era talmente concentrata ad osservare le increspature d’acqua che si accorse solo con qualche istante di ritardo della fine della melodia suonata da Amu al santur. Si sollevò, puntandosi con i gomiti sul bordo della vasca, e soffiò via un morbido ricciolo dagli occhi per guardare meglio la sorella.
Amu stava riponendo le bacchette metalliche dello strumento all’interno dell’apposito astuccio di cuoio. Si muoveva con grazia, le mani che assumevano pose delicate e raffinate ad ogni gesto; ogni suo movimento era leggiadro. Una caratteristica che la maggiore doveva aver ereditato dalla madre, una nobildonna persiana proveniente dalla Media. Il ricordo di lei era ancora vivo solo grazie ad Amu, che le era così fisicamente somigliante a partire dalla pelle d’avorio fino ai capelli corvini e agli occhi di quel blu così scuro da apparire nero. Anche nei modi aggraziati e nobili, sofisticati, la rispecchiava.

Sentendosi osservata, Amu alzò lo sguardo ma non disse nulla. E così fu lei a parlare per prima: «Perché hai smesso?»
«Credo che sia ora di cena» rispose prontamente Darya, la minore delle tre, lanciando un’occhiata al cielo cupo ad est.
«Proprio così» confermò, infatti, la maggiore, esibendo un sorriso e alzandosi in piedi con il santur tra le mani. Subito uno dei servitori accorsero per privarla di quel fardello e sistemarlo nelle sue stanze.
«Ci verranno a chiamare quando sarà pronto in tavola» protestò l’altra, le parole più simili ad un lamento. «Non ho ancora voglia di rientrare»
«Oh, Roshanak, fosse per te non rientreresti mai. Hai paura che ti crolli il tetto sulla testa?» la canzonò bonariamente Amu, invitandola ad alzarsi con un gesto della mano.

Darya emise una risata soffocata mentre si sollevava dalla poltrona sotto il gazebo, tra le mani stringeva un bracciale di perle in vetro colorato ancora incompleto; restò a qualche passo dietro la maggiore, che si era avvicinata alla vasca al centro del giardino, sul cui bordo era ancora distesa Rossane. La secondogenita si era alzata di malavoglia ed era stata costretta ad abbandonare il vivaio dei pesci. Darya la raggiunse trotterellando e passò il braccio sotto quello della sorella, spronandola a rientrare, seguite a pochi passi di distanza da Amu.
Nella sala dei banchetti stavano già riempiendo i piatti. Da quando erano rimaste sole a palazzo non cenavano più ognuna per conto proprio, come usavano fare fino a qualche anno prima. Ora mangiavano insieme e, talvolta, si univa a loro anche la vecchia balia che le aveva accudite per tutta l’infanzia e le aveva educate, insieme alle altre concubine del serraglio, alla danza, alla musica e alle varie arti femminili. Mizda era un’anziana donna dell’Assiria, ricurva e gracile, la faccia scura coperta da una fitta ragnatela di rughe e i capelli che non riuscivano a imbiancare, ma solo a ingrigirsi, tanto erano scuri in gioventù. Per le tre sorelle, Mizda era sempre stata così vecchia: non l’avevano mai vista un poco più giovane. Diceva d’esser stata la balia anche di loro padre, quand’egli viveva ancora ad Afrasiab, in Sogdiana; e quando egli venne poi nominato satrapo di Battria, lei lo seguì a Zariaspa. Dunque ormai erano davvero molti anni che ella viveva lì, e soleva talvolta raccontare loro storie dell’Assiria. Rimpiangeva tuttavia di non aver mai avuto la possibilità di visitare altre città. Come Mizda fosse finita in Battria, dalla lontana Assiria, non lo aveva mai raccontato a nessuno.
«Oh, ma poco importa. Zariaspa è una delle città più importanti dell’impero, di che mi lamento?» si diceva, consolandosi con il pensiero che la Battria era la satrapia più potente tra tutte e la sua più grande città era una vera e propria metropoli, rivale di Ecbatana, Ninive e Babilonia stessa.

E la Battria era potente, perché oltre ad essere ampia, era una regione che governava su gran parte del bacino del fiume Yaksha e vantava l’appoggio delle tribù Scite. Battriani e sciti insieme formavano un esercito resistente ai climi più duri, preparato ai terreni più impervi, e animati da una foga battagliera quasi barbarica. Non c’era, quindi, da stupirsi se il gran re aveva in grande considerazione la loro presenza durante le campagne militari.

Da qualche anno, ormai, si parlava dell’Occidente. Da una regione barbara a nord della Grecia, un ragazzo di appena vent’anni aveva cominciato ad espandersi verso l’Oriente e dapprima non gli avevano dato molto conto. A quei tempi, i soldati di Battria e i mercenari sciti non erano neppure stati scomodati. Solo qualche tempo dopo avevano raggiunto re Dario a Isso e Gaugamela. Entrambe le volte il gran re era stato messo in fuga dallo straniero. In effetti, era da allora che le tre sorelle non vedevano Ossiarte, satrapo di Battria. Erano passati anni dalla chiamata alle armi, ben quattro. La satrapia era rimasta quasi del tutto priva di uomini, lasciando sole donne, bambini ed anziani a mandare avanti la vita quotidiana: mogli e figli che sostituivano i mariti e i padri svolgendo lavori artigiani, commerciali, o agricoli.
Per la famiglia del satrapo non fu così. A sorvegliare il palazzo erano rimasti alcune guardie scite, dai musi arcigni e i capelli biondi; e l’harem era ancora tutto lì. Ossiarte, come altri signori della periferia dell’impero, aveva scelto di non affaticare le donne portandole con sé. Solo il primogenito Histane, figlio della sua prima moglie, lo aveva seguito perché era un guerriero. Un battriano puro che cavalcava veloce come il vento che si abbatteva sulle praterie della Scizia e dalla vista acuta come quella di un falco, perfetta per la sua stirpe di arcieri.
La guerra ad ovest riportò Amu a casa, trasferitasi ad Afrasiab con il novello sposo ora partito per la guerra, e aveva condotto sotto il loro stesso tetto a Zariaspa la moglie di Histane, Fayruz.
A causa del conflitto con l’invasore barbaro, molte cose erano state tardate, come ad esempio un figlio per Histane e per Amu, il matrimonio per Rossane e Darya.

Alle principesse battriane non era dato sapere altro sulla guerra, e da anni ormai non ricevevano notizie dal fratello o dal padre. Anche se le notizie, di fatto, arrivavano fin lassù, nessuno si scomodava per avvisare le fanciulle. Ad occuparsi della posta e delle direttive per i coppieri, era il primo eunuco Pirsar, un sogdiano di mezza età armato fino ai denti che aveva sempre svolto il ruolo di braccio destro di Ossiarte. In assenza del satrapo, le principesse dovevano rendere conto a lui.
«Notizie da nostro padre?» domandò Amu, come di consueto non appena vedeva Pirsar.
«Nessuna informazione rilevante, principessa» rispondeva, come al solito, prima di sparire oltre le colonne del corridoio.
Ed Amu, puntualmente, ci rimaneva male per quella risposta ben poco soddisfacente. Per quanto non rilevanti potessero essere le notizie, ella ci teneva comunque a saperle. Si chiudeva in un mutismo sconsolato che dispiaceva alle altre sorelle, in quanto lei era sempre stata la luce d’ottimismo e speranza ai limiti dell’infantile.

«Io scommetto» cominciò Rossane, senza preoccuparsi di abbassare la voce «che quello nasconde qualcosa. Lettere, notizie»
«Disgraziata malfidata» la rimproverò subito Mizda.

Le altre due sorelle sentivano le teorie di Rossane, circa una presunta cospirazione, piuttosto spesso. Ma si limitavano, appunto, a ipotesi, pensieri a cui veniva data voce senza un reale riscontro; e lei stessa non sembrava così interessata a cercare prove che la confermassero o smentissero. Capivano che quello era il suo modo per sopprimere la noia, e tenere la mente occupata elaborando teorie o ipotesi, seppur improponibili o assurde, sembrava una valida alternativa al totale ozio mentale.
«Malfidata? Menomale! Hai visto che fine ha fatto l’ultimo che si è fidato di un eunuco?*» e tracciò una linea aerea con il pollice, all’altezza della gola.
Darya represse una risatina, con gli occhi bassi per non incrociare quelli di Mizda. Eppure la vecchia balia, che era una donna all’antica, si stizzì ancora di più: «Darya, non si ride per le disgrazie del re! E tu, piccola impertinente, non si parla in questo modo dei morti e di qualcuno che t’ha vista crescere! Ingrata!».
Rossane decise di non pronunciarsi oltre. Il suo modo di controbattere era, talvolta, controverso e aspro; le sorelle ci sorridevano su, ma non senza il peso della coscienza, come se in qualche modo si sentissero complici di una marachella di cattivo gusto.


 
 • • •
 
 
Inverno, 328 a.C.
 
Il respiro si condensava in densi vapori bianchi che, per un momento, appannavano la vista. Il gelo le stava già bruciando la pelle sugli zigomi e il naso, laddove non era coperta dalla sciarpa; il cavallo, Inanna, era coperto da diversi teli e pellicce per proteggerlo dal freddo, e i suoi sbuffi erano densi come il fumo dei fuochi.
Il sole, pallido nel cielo terso, non scaldava. Se non altro, però, l’assenza di nuvole assicurava che non ci sarebbe state altre nevicate quel giorno.

Rossane, dal promontorio, vedeva un deserto di neve e ghiaccio estendersi sotto di sé, laddove c’era la steppa battriana; la strada per i corrieri era stata sgomberata e vi era stato gettato del sale per mantenerla libera. Zariaspa si elevava su due promontori divisi dal corso del fiume Yaksha, ormai ghiacciato. La neve ricopriva la cima delle torri di guardia, disposte lungo la muraglia a protezione della città, e sui tetti delle case, dei templi, tra i rami secchi di alberi spogli. Alle sue spalle si estendeva l’ombra scura delle montagne del Paropamiso e di fianco un’altra vallata, anch’essa stretta nell’abbraccio dei monti. La strada per i corrieri disegnava un serpente nella neve, che a volte fiancheggiava il corso del fiume e altre se ne distaccava, unendosi ai passaggi per le capre sui fianchi delle alture rocciose.
Rossane ne seguiva il percorso con lo sguardo, finché riusciva, e non poteva far altro che immaginare ciò che si trovasse al di là dei monti e oltre la steppa della vallata. Aveva dei progetti per il suo futuro ma, a dire il vero, ormai non sapeva quanto sperarci: con l’invasione straniera non si poteva sapere come sarebbero finite le cose per l’impero, cosa sarebbe cambiato delle loro vite. Senza contare che Ossiarte avrebbe voluto farle maritare con signori di Battria o di Sogdiana, o addirittura con capi sciti per assicurarsi legami più forti con i mercenari. In effetti, il satrapo prima di partire, aveva espresso le sue preferenze in fatto di matrimoni: aveva fatto sposare Amu con il principe di Sogdiana, aveva in mente per Darya un nobiluomo di Battria, e per Rossane il figlio di un capo degli sciti. La guerra con gli stranieri aveva fatto guadagnare loro un po’ di tempo ancora per godersi la libertà e la giovinezza senza doveri.
Ma qualche giorno prima era arrivato un messaggero che annunciava l’imminente ritorno di Ossiarte e dunque le due sorelle potevano già immaginare di dover dire addio al proprio nubilato.

L’arrivo era previsto per quel giorno. Un tempismo perfetto, pensò Rossane, poiché sarebbe stata la notte più lunga e oscura dell’anno con le varie celebrazioni tipiche, e a palazzo già fremevano i preparativi per accogliere gli ospiti, pronti a celebrare sia il ritorno del satrapo che la notte di Yalda, nascita dello yazata Mithra.
Rossane emise un lieve sbuffo dal naso, stringendosi nella pelliccia di lince; dietro di lei Inanna fece un paio di passi, facendo scricchiolare la neve sotto gli zoccoli.
Due figuri in sella ai cammelli battriani si muovevano al trotto lungo la strada dei corrieri. La principessa assottigliò lo sguardo per scorgere ulteriori dettagli e notò i vessilli nobili.
«I messaggeri» osservò, in un sussurro. Alzò lo sguardo, verso la vallata alle loro spalle, ma non si vedeva ancora il resto del convoglio di Ossiarte. Se loro erano lì, significava che presto sarebbe arrivato il satrapo e dunque doveva cominciare a prepararsi a ricevere lui e gli ospiti.
Si sfregò le mani sulle gambe fasciate dai pantaloni da scita, sollevò le ginocchia un paio di volte per scaldare i muscoli intorpiditi dall’immobilità e dal freddo, e con un gesto un po’ rigido balzò in groppa a Inanna, esortandola con le briglie a scendere dal promontorio. Un cavallo potente, come tutti quelli della Battria-Sogdiana. Di quelli che resistevano alle fatiche fisiche e ai climi avversi, la cui fama si estendeva per leghe e venivano richiesti persino in Grecia, dai generali degli eserciti.
In quelle regioni montuose ad est del Grande Khorasan, influenzati così fortemente dalla cultura degli sciti, il cavallo era secondo solo al proprio padrone. E Inanna era una giumenta che non veniva toccata da nessuno oltre agli scudieri di Rossane e la principessa stessa. Il manto era del colore dell’oro, quando correva pareva una fulgida stella cometa.

Entrò a Zariaspa dalle porte a nord, le più vicine al palazzo, e si affrettò per posare Inanna nella scuderia, affidandola ai giovanissimi scudieri. Imboccò uno degli accessi secondari, sperando di non essere vista da Mizda: la vecchia balia avrebbe capito, altrimenti, della breve fuga illecita di Rossane e l’avrebbe severamente rimproverata, cosa che la principessa non avrebbe tollerato in quel momento.
A palazzo c’era un gran movimento. Servi, ciambellani ed eunuchi erano in fermento per le preparazioni della casa, con la pulizia e la sistemazione di mobili; dalle cucine provenivano i profumi dei cibi in preparazione per la cena; e lo strimpellare dei musicisti che accordavano i propri strumenti musicali. Da qualche parte proveniva la voce di Pirsar, intento a dare ordini.
Rossane uscì, ritrovandosi nel cortile interno, e lo attraversò in fretta lasciando orme sulla neve; rientrò, sbucando nelle aree più periferiche del palazzo, quelle destinate all’harem e agli appartamenti della nobiltà femminile. Anche lì c’era un gran movimento: il frusciare di abiti e il tintinnare dei gioielli, le voci delle donne, i profumi delicati. Si stavano già preparando tutte.

«Si può sapere dov’eri finita?!» sbraitò la voce gracchiante di Mizda, alle sue spalle.
Rossane alzò gli occhi prima di voltarsi e vedere la balia in piedi al centro del corridoio, le mani sui fianchi e l’espressione furente. Non appena la donna si accorse del rossore sul viso della principessa e la pelliccia pesante, quasi ebbe un mancamento.
«Come ti è saltato in mente di uscire con questo gelo?! Sei una selvaggia, ecco cosa sei! Potevi morire assiderata!» si avvicinò facendo oscillare il dito accusatorio. «Senza contare che ora ti sei rovinata tutta la faccia. Il rossore è barbaro e volgare, avremo un bel da fare per coprirlo» le prese il viso fra le mani, girandolo a destra e a sinistra per determinare la gravità del danno.
«Con un po’ d’unguento andrà via» replicò Rossane, smorzando la preoccupazione.
«Prega che vada via entro l’arrivo di tuo padre e degli ospiti. Sei la principessa di Battria, per dio. E questa sera il mio signore ti presenterà finalmente un uomo degno di essere sposato»
«Pensa tu, quale fortuna» rispose in un moto di sarcastica ilarità.
Mizda l’afferrò per la cartilagine dell’orecchio e la trascinò verso le sue stanze, borbottando rimproveri su quanto fosse disgraziata e quanto non capisse la fortuna del matrimonio; lei, che non aveva mai potuto trovare marito o avere figli.

Nell’ampia camera di Rossane si affollavano gioiellieri, donne del guardaroba e parrucchieri.
Le ancelle si adoperarono prontamente a lavare la principessa, strofinandola con dure spugne in crine di cavallo. Si arrivò poi alla depilazione, con una pasta giallognola al limone, e infine a massaggiare la pelle con oli profumati. Le applicarono della crema sugli zigomi e il naso, per smorzare il rossore del gelo.
Fu un trattamento talmente lungo che Rossane assistette al tramonto, la cui luce di un pallore rosato inondava la valle innevata facendo sembrare il paesaggio simile alla madreperla.
Le fecero indossare un abito pesante, rosso sanguigno, con ricami floreali e i bottoni in oro chiusi fino alla gola. Poi, una volta seduta di fronte allo specchio della toeletta, i parrucchieri cominciarono ad intrecciarle i lunghi capelli castani in due trecce, decorandole con fili in oro e perle. Nel mentre, le truccatrici le toglievano la crema dal viso e le applicavano il kajal sulle palpebre; i gioiellieri le misero una vistosa collana d’oro a forma di triangolo, con al centro un topazio, due dischi d’oro alle orecchie e dei bracciali con la chiusura a forma di testa di leone ruggente.
Una volta che tutto fu completato, le posero un copricapo ingioiellato i cui pendenti si posavano sulla fronte e le truccarono le mani con ghirigori in henné.
Era ormai sera e restare così seduta tanto a lungo la rendeva inquieta. Soprattutto se il padre le attendeva alla presenza di molti ospiti pronti a celebrare la notte di Yalda.
«D’accordo, abbiamo finito» si alzò, stando attenta alla gonna dell’abito, e sventolò le mani sia per scacciarli e sia per far asciugare l’henné più in fretta.
«Ma, principessa…».

Rossane non ascoltò ancora le proteste dei servitori, che la esortavano a completare la preparazione. Si avviò per i corridoi ormai vuoti, sventolando le mani ancora un po’ prima di scocciarsi e afferrare i lembi della gonna; la tirò un poco su, in modo che non le fosse d’intralcio mentre velocizzava la camminata.
Come si aspettava, la sala dei banchetti era gremita di ospiti. Erano i capi superstiti della guerra, con le loro famiglie, e altri signori più importanti della Battria, accompagnati da mogli e figli; c’erano anche i generali più vicini al satrapo e i comandanti sciti.
Per un momento si sentì spaesata, in tutta quella folla di persone che ridevano e parlavano e facevano un gran chiasso. Erano anni che il palazzo di Zariaspa non accoglieva tanti invitati, e la loro così numerosa presenza le fece ben sperare: il conquistatore straniero doveva esser stato scacciato in malo modo, per renderli così tranquilli.
Mizda apparve prontamente al suo fianco, guidandola nella zona della sala in cui erano raccolte le donne dell’harem di Ossiarte e le mogli degli invitati. Amu e Darya erano vestite come lei, solo con colori diversi: la prima indossava il blu, la seconda il verde. Rossane si accomodò in mezzo a loro, cominciando a scambiarsi presentazioni e parole con le altre donne, di ogni età. Ma era distratta, il suo sguardo veniva sempre calamitato alla ricerca del padre, in una sorta di angosciante attesa.
«Mi ha presentato il mio futuro marito» le disse Darya, vedendola distratta. «Il figlio di un signorotto della città di Dilberjin»
«E com’è lui?» domandò, soppesandola con lo sguardo.
Gli occhi della minore, neri come la pece e lievemente piegati verso il basso, sfuggirono a quelli dorati di Rossane, come se temesse che lei potesse sondarle l’anima. «Cortese»
«Almeno» commentò, in un soffio.

La voce di Pirsar la costrinse a girarsi: «Roshanak» l’eunuco le posò una mano sulla spalla, leggero come una piuma. «Tuo padre ti cerca».
Ci siamo, si disse la principessa, ingoiando un groppo. Con un sorriso affabile, si scusò con le altre donne e si congedò per seguire Pirsar fino alla mensa di Ossiarte.

Lo trovò stravaccato sul divano, mentre portava un pezzo d’agnello alle labbra usando la mano destra. Rossane lo trovò più magro. Aveva sempre la solita faccia scura, bruciata dal sole, con la crespa barba nera e i baffi arricciati verso l’alto. Le sopracciglia folte e squadrate ombreggiavano occhi del colore dell’oro fuso, acuti come quelli di una volpe.
«Mio signore», Pirsar richiamò la sua attenzione con educazione. Ossiarte sollevò lo sguardo, incontrandosi i suoi stessi occhi ma incastonati nel viso della sua secondogenita femmina. A quel punto l’eunuco si dileguò.
«Roshanak, figlia mia»
«Bentornato, padre». Rossane si sforzò di sorridere nel modo meno falso possibile, ma le espressioni forzate e costruite non le riuscivano granché bene, e smise di provarci. «Il conquistatore straniero è stato scacciato?»
Il satrapo si adombrò per un momento, ma poi scoppiò in una risata fragorosa. «Sempre dritta al punto! Vieni, avvicinati, voglio presentarti una persona».
Tra le sopracciglia di Rossane si formò una lieve ruga: aveva evitato di risponderle, e questo non la tranquillizzava. Ciononostante, si avvicinò al divano del padre. Ossiarte si era voltato e stava facendo cenno ad un giovane scita di avvicinarsi.
Era un giovanotto alto, dalle spalle larghe e la riccia chioma fulva; il viso squadrato, superbo, e tatuato con lettere o figure geometriche sulla fronte e sui zigomi, come tutti gli sciti. Era vestito da mercenario, con i tipici pantaloni larghi stretti alle caviglie, un pugnale alla cintura e un mantello di pelliccia grigia.
«Lui è Hairan. Vi sposerete in primavera» comunicò Ossiarte, senza troppi preamboli. La notizia sembrava compiacerlo. Quel giovane doveva essere il figlio di un qualche capo scita, come il satrapo voleva per lei.
“Hai l’indole selvatica come quella degli sciti, ti darò pane per i tuoi denti”, le aveva detto una volta, mentre la rimproverava del suo essere tanto libertina e dalla lingua tagliente. Rossane non aveva mai dubitato che avrebbe mantenuto la parola.
«Lieto di fare la tua conoscenza, Roshanak» disse il giovane, con una cordialità glaciale.
La principessa non gli rispose. Si limitò a guardarlo dritto negli occhi, impassibile. Vedeva la sua vita futura e i suoi progetti sfumare, sostituiti da un’esistenza in sella ad un cavallo, a cavalcare nelle steppe della Scizia. Chissà, magari avrebbe potuto imbattersi nelle mitiche Amazzoni, donne del calibro della regina Tomiri – colei che aveva ucciso Ciro il Grande. Allora si sarebbe unita a loro, abbandonando Hairan e gli sciti.
Ossiarte, che conosceva la figlia abbastanza bene da poterla comprendere, fece allontanare il giovane.
«Smettila di fare così, di essere scortese. Sarai sua moglie, con ogni probabilità, e dovrai comportarti bene» la rimproverò a denti stretti. «Ormai sei grande, Roshna. È tempo che prendi in mano le tue responsabilità e ti comporti adeguatamente ad una nobildonna del tuo rango, con la tua istruzione. Restare in silenzio di fronte a quel giovane non ci fa fare bella figura»
«Non mi sentivo di dire nulla, quindi sono rimasta in silenzio» replicò con tranquillità.
«Non lo puoi fare. Bisogna sempre dire parole di cortesia»
«Ma non sono lieta di conoscerlo, padre, quindi avrei mentito. Ho preferito tacere»
Ossiarte si passò le mani inanellate sul viso, come se fosse improvvisamente esausto. «Non puoi agire sempre e solo in base alla sincerità. Torna al tuo posto, ora».
Rossane obbedì, ma non lo capiva. Fin da quando erano in fasce, ai bambini persiani veniva insegnato a non mentire. La menzogna è slealtà, ed è lì che dimora Arimane; lì, dove Ahura Mazda e Mithra, professatori di verità e onore, non hanno potere.
Ossiarte voleva la cortesia, anche se questa significava essere falsi e bugiardi. Rossane non era disposta a disonorare gli dèi, e sé stessa, mentendo.
Quando tornò al suo tavolo, Amu, Darya e Fayruz le domandarono che cosa voleva Ossiarte e del suo futuro marito. Lei rispose a mezza bocca e presto le tre donne lasciarono cadere il discorso. Rossane non aveva alcuna voglia di sposarsi e questo era ormai ben chiaro a tutte le donne dell’harem.


 
La notte di Yalda era la più lunga e oscura dell’anno, buia e piena di terrore: nella sua ombra, i demoni di Angra Mainyu erano più potenti e s’insinuavano nelle case dei mortali, spingendoli a mentire e a commettere slealtà, allontanandoli dalla luce di Ahura Mazda. E per contrastare le forze oscure di Arimane nacque Mithra, annunciato da una stella cometa, protettore dell’onore e dei giuramenti.
Per questo si restava svegli per tutta la notte, fino all’alba, a mangiare e conversare in compagnia del maggior numero possibile di ospiti.
Fu durante una danza degli eunuchi che Rossane vide suo padre allontanarsi con alcuni generali e Pirsar, dopo che un messaggero era giunto di soppiatto alla sala dei banchetti. Ossiarte aveva letto frettolosamente il biglietto e poi era sbiancato. Per alcuni istanti era rimasto a fissare il vuoto di fronte a sé, ma poi si era sporto verso Pirsar e gli aveva bisbigliato qualcosa all’orecchio; l’eunuco aveva poi fatto un giro tra gli ospiti, chinandosi di tanto in tanto per sussurrare qualcosa alle orecchie di alcuni e questi si erano immediatamente alzati, seguendo il satrapo fuori dalla sala dei banchetti.
C’era qualcosa che non andava, e Rossane aveva un tremendo presentimento da tutta la serata.
«Dove vai?» le bisbigliò Amu, vedendola scattare in piedi.
La sorella aveva arricciato il naso senza risponderle ed era uscita dalla sala dei banchetti. Nei corridoi c’era più quiete, la musica dei tamburi e dei santur arrivava ovattata, un piacevole mormorio di sottofondo; le voci concitate degli uomini si udivano meglio ma era troppo distante per distinguere le parole. Si erano rintanati in una delle ampie alcove del palazzo.

Ossiarte era il più agitato tra tutti.
«Non dannarti l’anima, Ossiarte. Hai fatto la cosa giusta» diceva uno dei generali battriani.
Il satrapo sembrava ignorarlo. «Dici così perché odiavi la vigliaccheria di Dario, come noialtri. Ma guarda che fine hanno fatto Besso, Satibarzane e Spitamene: trucidati dallo straniero che ha deciso di vendicare il re morto»
«Perché dovrebbe prenderla tanto a cuore? Dario era suo nemico» obbiettò un altro.
«Il suo orgoglio di re è stato ferito quando gli abbiamo impedito di battersi con un altro sovrano. Temo particolarmente l’orgoglio di Alessandro. Non è solo un monarca, è soprattutto un soldato»
«Come può il re di Macedonia conoscere i nomi dei satrapi traditori, mio signore?» domandò il generale.
«Ha trovato Dario morente, gli ha comunicato i nostri nomi. E lui ha deciso di vendicarlo. È qui, in Battria, e sta facendo stragi tra i civili per trovarci. Besso è stato così idiota e pomposo da essersi autoproclamato re di Persia. Satibarzane è stato il primo a morire, in un conflitto a viso aperto con il conquistatore. Barsente fu il secondo: l'idiota tentò la fuga verso l'India ma fu catturato e consegnato al re macedone. Spitamene fu il peggiore, infame fino alla fine: consegnò Besso nelle mani dello straniero e venne ucciso a Persepoli. Poi fu così stupido da attaccare Afrasiab, solo per dar fastidio al conquistatore e dichiarargli guerra, cercando di dimostrargli che non lo temeva. Quell'imbecille! È morto anche lui, ovviamente. Sono rimasto solo io, e non per molto, ma non posso andarmene senza aver dato le ultime disposizioni per la città. Il re di Macedonia si macchierà anche qui di terribili crimini di guerra, come è successo in altre città di Battria, la mia gente deve stare pronta. Ho davvero paura, i miei compagni sono andati incontro una fine cruenta e terribile, non voglio che alle mie figlie venga fatto lo stesso. Devono andare via».
 Si udì un nervoso tintinnare di gioielli, forse Ossiarte stava giocando con i suoi anelli o con i bracciali.
«Viene il signore dell’Asia, colui che ha negli occhi il giorno e la notte» recitò Pirsar, sommessamente, quasi fosse una cantilena. «Proprio come dicevano i magi»
Il satrapo parve annuire. «Il leone di Macedonia. Si mostra clemente con chi si arrende, ma è spietato con chi tradisce. Non mollerà la presa ora che ha assaggiato il sangue dei traditori, ha bussato personalmente alle porte dei congiurati di Dario, resto solo io».
Ci fu un lungo momento di silenzio. Rossane lo impiegò per ricomporre i pezzi, ma non poteva aver chiara un’idea della situazione: l’unica cosa che aveva capito, era che Dario era morto perché era stato tradito da uomini di cui si fidava, tra cui suo padre e Besso, satrapo di Sogdiana e suocero di Amu. Un’onta terribile, e lo veniva a sapere proprio la notte di Yalda. Arimane aveva agito subdolamente nel cuore di suo padre, strappandogli l’onore. Quando sarebbe nato Mithra, vendicandolo? Forse non era lui il vero vendicatore.
«E il re barbaro» cominciò Pirsar «com’è? Tu l’hai veduto in battaglia. È terribile come dicono?»
Me lo auguro, pensò Rossane, aspramente.
«È scaltro» ammise Ossiarte, non senza un tentennamento nel cercare la parola esatta. «Anche troppo. Elabora strategie militari con la facilità con cui io respiro. Difficile da capire, poiché è al contempo irruento e calcolatore in battaglia, sa valutare situazioni complicate con disumano distacco. Giovane, forte come un leone, verrebbe considerato bello anche qui in Persia»
«Mio signore, sembra che tu stia descrivendo un dio. Non ha alcun punto debole da sfruttare a nostro vantaggio? Non saprei. Vino, donne…?» tentò Pirsar.
Il satrapo sbuffò una risata amara. «Magari, amico mio. Non si lascia soggiogare nemmeno dall’amore».

Rossane emise un sospiro tremante, smettendo di ascoltare. Il re macedone stava arrivando per uccidere suo padre e, per beffa, anche loro. Per questo dovevano andarsene al più presto. Tutto perché Ossiarte si era disonorato tradendo il proprio re, congiurando contro di lui e conducendolo alla morte. L’impero non era niente senza una guida a tenerlo unirlo. Il re era sacro, e ora era morto. Al suo posto stava subentrando un barbaro, uno straniero, perché i satrapi erano stati così sciocchi da distruggere il nucleo delle proprie forze anziché continuare a dargli man forte per respingere l’invasione macedone.

«Che schifo» commentò Rossane, abbastanza forte da farsi sentire.
Ossiarte fece scattare la testa verso di lei, sorpreso come un capriolo di fronte al cacciatore. «Roshanak! Che cosa…»
«Io ti disprezzo terribilmente» lo interruppe.
«Quando serviamo i potenti, il nostro destino dipende da loro» spiegò Ossiarte, mantenendo la calma. «Io e gli altri non avevamo alcuna intenzione di far decidere a Dario, un uomo vigliacco e spaventato, delle nostre vite. Ci trovammo in disaccordo con le sue tattiche e abbiamo deciso di prendere in mano la situazione»
Queste parole sembrarono accendere un improvviso incendio nell’animo di Rossane. Un fuoco sopito sotto la cenere, non ancora estinto, che attendeva solo di esplodere. «Hai ucciso il tuo re perché ti trovavi in disaccordo con lui?! Dopo tutto ciò che ti ha dato, ti sei mostrato così irriconoscente. L’impero come lo conoscevamo cadrà, noi moriremo, e sarà tutta colpa tua. Che schifo! Avete ucciso il vostro re! Nessuno potrà mai farmi più schifo di così, il mio disgusto è ineguagliabile».

I generali e Pirsar erano rimasti ammutoliti da tali parole colleriche. Rossane non aveva alzato la voce, eccetto in alcuni momenti, ma era stata tagliente e precisa nel suo giudizio, e l’aveva espresso guardando il satrapo dritto negli occhi, senza alcuna paura e con una grande consapevolezza delle proprie parole. Non erano frasi pronunciate dalla rabbia cieca. La sua era una furia lucida.
Ossiarte era attonito. Ma il suo sgomento durò ben poco, lasciando spazio all’umiliazione subita dalla figlia e, di conseguenza, alla collera per l’orgoglio ferito.

Si avvicinò a lei a grandi passi. Sollevò la grande mano inanellata e la colpì in viso, facendole girare la testa dall’altra parte. I presenti abbassarono lo sguardo. Sul bel viso di Rossane erano rimasti i segni rossi della mano e piccole ferite si erano aperte sullo zigomo, sotto l’occhio, laddove le pietre incastonate negli anelli di Ossiarte si erano scontrate con la pelle. Non era la prima volta che succedeva, ma ogni volta faceva male come la prima. Stavolta il dolore era doppio: qualcosa in lei si era spezzato. Se un tempo aveva lontanamente ammirato suo padre, l’immagine di un uomo tutto d’un pezzo che si era costruita si infrangeva ora come vetro sotto le rocce del tradimento.
Eppure le azioni di lui lo rendevano tanto ignobile ai suoi occhi, che Rossane non si sentiva in torto. Non si sentiva l’orgoglio ferito per il ceffone di un traditore; lei era migliore di lui. Non le aveva fatto niente.
Per questo voltò di nuovo la testa verso Ossiarte, lentamente, e tornò a guardarlo negli occhi.
«Ho fiducia nell’orgoglio e nell’onore dello straniero. Io non ho il potere di vendicare Dario, ma so che Alessandro lo farà».
 

 

 
Note
Zariaspa – la città dell’antica Battriana, attualmente Balkh (Bakhtri, in persiano; Bakhlo, in battriano). Zariaspa è un nome alternativo della città, o di una parte di essa (dedicata all’area religiosa), e deriva dal persiano azar-i asp che si riferisce al Tempio del Fuoco zoroastriano. Zoroastro, profeta su cui si basò l’antica religione persiana, veniva da questa città e dunque qui il culto era molto sentito.
Afrasiab – quella che i greci e macedoni chiamavano Maracanda e che oggi è Samarcanda. Era la più importante città della Sogdiana e deve il suo nome al re dei Turan, una popolazione nativa. In realtà il nome in sogdiano era Parshavab.
Yaksha – il fiume Amu Darya, precedentemente noto tra i greci come Oxus.
( * ) ─ Rossane si riferisce alla morte del re persiano Artaserse IV, avvelenato dal ministro Bagoa, un eunuco.


 
   
 
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