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Autore: Gaia Bessie    16/11/2020    4 recensioni
Silenzio vuol dire l’aula del Wizengamot che t’osserva mentre chini il volto e ti bagni i piedi con un fiume di lacrime. Non vuol dire pentimento, né redenzione.
Vuol dire fine, perché finita è questa esistenza, e la tua termina in questo esatto momento.
[One-shot | What if: processo di Rodolphus Lestrange]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hermione Granger, Narcissa Malfoy, Rodolphus Lestrange
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Silenzio vuol dire l’aula del Wizengamot che t’osserva mentre chini il volto e ti bagni i piedi con un fiume di lacrime. Non vuol dire pentimento, né redenzione.
Vuol dire fine, perché finita è questa esistenza, e la tua termina in questo esatto momento.

 
Ai tuoi piedi
 
 
Mi sono inginocchiato ai tuoi piedi
o forse è un’illusione perché non si vede
nulla di te
ed ho chiesto perdono per i miei peccati
attendendo il verdetto con scarsa fiducia
e debole speranza non sapendo
che senso hanno quassù il prima e il poi
il presente il passato l’avvenire
e il fatto che io sia venuto al mondo
senza essere consultato.
 
«Rodolphus Lestrange» la voce di Hermione Granger è chiara e decisa, mentre alzi lo sguardo verso i membri della corte. «Le sono chiari i suoi diritti e perché, in data odierna, viene sottoposto a un processo?».
«Certo che sì, Ministro» rispondi, con una fierezza che non hai più diritto di provare. Lo sai, e al contempo non sai più niente, se non che ti manca la terra sotto i piedi – ti manca per davvero, non lo vedi?
«Evasione dalla prigione di Azkaban» elenca, atona, il neoeletto Ministro della Magia. «E complicità nei crimini perpetuati da Delphini Lestrange».
Taci. Quel nome ti disgusta, se pensi a cos’è associato, a che atto sordido e insensato ha prodotto una bambina, nemmeno un maschio, una bambina inutile cui hai dovuto dare il tuo cognome. Se pensi a come si sia macchiata la sacralità dell’Oscuro Signore, facendo divenire insensata la tua devozione per lui, facendoti domandare se. Se.
Se non avresti fatto meglio a fare come Malfoy e alzare le mani, in segno di resa, chinando il capo e inginocchiandoti ai piedi – non di Bellatrix e nemmeno dell’Oscuro Signore – del bambino sopravvissuto due volte.
«Ha chiesto di essere considerato mentalmente infermo» commenta la Granger, sistemandosi i capelli sfuggiti dal severo chignon in cui li ha costretti. «Le andrebbe di spiegarmi il perché di questa richiesta? Non ho trovato alcuna menzione di una presunta infermità, nei verbali dei suoi processi precedenti».
Sospiri. Quell’eventualità è follia vera, e ad Hermione Granger dovrebbe essere dolorosamente chiaro: non sei pazzo, non lo sei mai stato e probabilmente non lo sarai mai. Ma non è stata pazzia accettare l’idea di tua moglie sognante e gemente sotto lo sguardo serpentino del vostro Signore, a pregarlo, no, a supplicarlo di continuare quegli incontri.
È stata pazzia non soffocare quella neonata – inutile, inservibile – nella culla, ponendo fine alle sue sofferenze.
«Non sono stato in grado di ragionare lucidamente» sussurri, con dolce convinzione. «Lei mi avvelena la mente, Ministro».
Hermione Granger si sporge verso di te, guardandoti con sincera curiosità. «Lei?» chiede. «Sua figlia?».
Tu vorresti torturarla solo per aver chiamato tua figlia quell’esistenza indegna, il seme oscuro che ha trovato solamente i geni di due follie gemelle: la sua, la loro. E, chiudendo gli occhi, senti quasi i gemiti sommessi di Bellatrix, nella camera degli ospiti di casa vostra, quando lui non domandava e lei non acconsentiva: aveva già le gambe, e probabilmente cuore e mente, spalancate.
«Mia moglie» sibili, guardando una postazione rimasta vuota. «Bellatrix. Lei… è qui».
Arthur Weasley è in ritardo, ma lei ne ha preso il posto e adesso ti guarda e ride, fa male quella risata, fa male l’aria che passa tra le corde vocali e diviene suono squillante e tagliente come vetro in frantumi.
Bellatrix ti sorride e, seduta al posto di Weasley, giocherella con la vostra fede nuziale, la vostra promessa. Hai sempre saputo che t’ha sposato perché era giusto così: eri d’aspetto piacevole e avevi gli agganci che le servivano, il Marchio Nero, e lei non è mai stata meno opportunista di sua sorella Narcissa, sebbene di sé pensasse il contrario. Ti sorride e agita la bacchetta, sussurrando una singola parola – Crucio – che ti fa tremare fin dentro le ossa.
E ti pieghi. Sulle ginocchia fino a non sentirle più, ti pieghi e ti escono lacrime dagli occhi, e ti domandi perché. Perché, Perché, perché.
Perché ti è entrata dentro – credevi di essere tu, quello in grado di penetrarla, ma non è mai stato così – in maniera così profonda da riuscire a corromperti anche l’anima snudata e infreddolita, fino a farti accettare d’aiutare il frutto disprezzato di quell’unione sporca e innaturale. Così sia, ti sei detto quando ti hanno ritrovato, accetto il processo: ma non rinchiudetemi di nuovo, non dove respira quell’esistenza smembrata, l’ennesimo pezzo d’anima di cui Lord Voldemort avrebbe potuto privarsi.
«L’alternativa ad Azkaban è il San Mungo, Signor Lestrange» borbotta spazientita il Ministro Granger, osservandoti con timore. «Capisce le implicazioni di quel che dico?».
E tu comprendi che va bene così. Accetti pareti bianche ad accoglierti e a cullarti, magari Alice Longbottom come vicina di stanza, sarebbe ironico, e accetti silenzio a soffocarti. Va bene anche soffocare, pur di non dover guardare un’altra volta la figlia di Lestrange che, però, figlia tua non sarà mai.
L’avresti voluta, poi, una figlia? L’ennesimo esserino minuscolo e privo di scopo, ma pieno di senso, che non avrebbe compreso il mondo né il mondo avrebbe compreso lei, che avrebbe dovuto viverci perché obbligata dal tuo desiderio di avere qualcuno che ti ricordasse tua moglie?
L’avresti voluta. L’avresti portata in questo mondo senza consultarla, e lei si sarebbe rassegnata all’inevitabilità del fato: la pazzia è come una marea d’acqua stagnante, che lentamente sale sui margini dell’esistenza, erodendola con esasperante lentezza. E oggi, dici a te stesso con definitiva chiarezza, oggi è il giorno.
Il San Mungo, pareti bianche, Alice Longbottom che sorride all’aria dietro di sé – lo sai, un giorno scappando ti sei infiltrato per gettare un’occhiata a come l’hai ridipinta con colori smorti, bagnandola d’acqua sporca – e vivrai una vita a convivere con il suo fantasma sdegnato. Potrai scappare quanto vuoi, Rodolphus, ma troverai sempre la risata di Bellatrix che risale come un eco dei tuoi passi. La troverai in sogni e incubi a parimerito, e sarà culla e insonnia quando ti coricherai, e tutto inizia oggi, ti dici, tutto comincia adesso.
Nel giorno in cui t’arrendi all’inevitabile, che va bene, lo accetti, lo accetti e non te ne penti. Non come ti sei pentito di aver assecondato, tradito, ucciso e torturato chiunque s’opponesse al Dio dalla sacralità macchiata, dalla sacralità sporcata, dalla sacralità frantumata.
«Mi rimetto alla vostra decisione» rispondi, ma ti tremano le mani. «Ma liberatemi di lei, vi prego».
Tua moglie ride, s’è spostata per far posto ad Arthur Weasley, e ti sta sussurrando qualcosa. È oggi, dice, non farà più male di una Cruciatus.
Il giorno in cui impazzisci anche tu.
 
***
 
Poi penserò alla vita di quaggiù
non sub specie aeternitatis,
non risalendo all’infanzia
e agli ingloriosi fatti che l’hanno illustrata
per poi accedere a un dopo
di cui sarò all’anteporta.
 
Forse, pazzo, lo sei sempre stato.
Ti viene il dubbio, quando ti rifletti nello sguardo compassionevole del Ministro Granger, e vedi Bellatrix che ti restituisce un’occhiata fredda, quasi clinica. È così che ti ha sempre guardato, forse con dubbio o con curiosità, ma l’amore? Quello mai, ti ha detto, quello da me non potrai vederlo.
E tu non vedi niente, ormai, sei un cieco in un cielo blu petrolio – dove sono finite le stelle – come il soffitto di Hogwarts nei giorni che odorano tempesta.
Hermione Granger dice qualcosa, ma fatichi a sentirla, sei come sott’acqua e non vedi, non senti e nemmeno riesci a parlare. Così spalanchi la bocca, disorientato, e rimani a fissare tua moglie che scuote il capo – e i riccioli neri le saltellano come molle, al ritmo della sua risata.
«Signor Lestrange» la voce del Ministro ti buca i pensieri, costringendoti a tenerti la testa, prima che scappi via. «La sua condanna era agli sgoccioli, quando è evaso. Mi dica, lei si è pentito?».
Come se esistesse, il pentimento. Come se esistesse la possibilità di pentirsi di qualcosa che non sia la vita intera, dai fatti ingloriosi dell’infanzia fino al tuo errore più grande – amare, senza essere amato – e i fatti che t’hanno portato a scrutare gli occhi nocciola del Ministro della Magia.
Ma, una parte minuscola di te urla di questa inossidabile certezza, pentito lo sei realmente. Sei grigio di pentimento, grigio e sfilacciato come il pezzo logoro di un mantello abbandonato persino dal tempo, e allora che risposti potresti dare, se non… - «Lo sono».
Mormori così, pensando che, ti sei pentito di aver aiutato quell’esistenza imperfetta a rovinare una pace rubata, desiderata e conquistata. Anche da te.
Anche da te che, quando ti sei trovato di fronte a una battaglia ch’eri certo di dover perdere, hai scosso il capo e hai perso la convinzione. Hai combattuto per abitudine, perché hai l’anima del soldato e niente di più, finché non è finita. E avete perso per davvero.
«Sua cognata, Narcissa Malfoy» continua il Ministro, voltandosi e facendo cenno di far entrare la donna. «Si è detta disposta a garantire per voi. Potete scontare gli arresti a casa sua, con le cure opportune per la vostra situazione».
Tu non ti stupisci. È sempre stata incline alla pietà, Narcissa: e per te, il marito cornuto e ignorato, ne ha sempre provata fin troppa – d’altronde, forse qualcuno avrebbe dovuto provare lo stesso sentimento per lei, ma un’altra Narcissa questo mondo non la contiene.
Proverebbe pietà persino per te, che hai messo in pericolo la vita del suo amato nipote, se non vivesse nella certezza dolorosa che anche tu – come quella sorella tanto amata, tanto odiata – stai perdendo il senno in una marea di dimenticanza.
Che non è solamente la pazzia – d’altronde non è folle questa stessa esistenza? – ma è più il dolore d’un battito mancato che s’imprime nel cervello, deformandolo. Perché Narcissa si siede e vede quel dolore, così come lo vede il Ministro Granger e tutti gli altri Stregoni che scuotono il capo, disgustati ma pieni di compassione, di fronte al tuo balbettare parole inudibili.
«Signora Malfoy» la voce di Hermione Granger ne tradisce la stanchezza, e l’esasperazione. «Lei pensa che suo cognato sia in qualche modo pentito delle proprie azioni? O che le abbia compiute senza essere in grado di ragionare?».
Tua cognata annuisce. Fili grigi le sfregiano la chioma perfettamente acconciata come stralci di pensieri fuggenti e a te fa quasi ridere, pensare che l’algida Narcissa Malfoy possa esser tradita da un pensiero perso nella chioma biondissima.
Lei ti guarda, e con quello sguardo ti scava dentro, tirando fuori il risentimento, l’angoscia, persino l’infelicità che nemmeno tu credevi d’aver provato. O, almeno, dev’essere stato in un tempo lontanissimo, che nemmeno ricordi – nell’infanzia, o così soprannomineresti il tuo incontro con tua moglie.
«Penso che Rodolphus non sia in grado di comprendere le proprie azioni» commenta Narcissa, austera. «Se solamente voi aveste visto quanto odiava quella bambina, capireste».
Narcissa prende fiato, come se quell’ammissione le costasse una parte importante di sé: è snudare la famiglia che le pesa, che le toglie il respiro dai polmoni, disonorare il ricordo già insozzato della sorella. Ma è tutto fango, la storia dei Black, dei Lestrange, dei Malfoy. Fango e muschi, fango e licheni che rischia di soffocarti, entrandoti in gola.
«Mi spieghi meglio, Signora Malfoy» risponde Hermione Granger, sporgendosi verso la testimone. «Lei pensa che normalmente suo cognato non avrebbe aiutato sua figlia?».
«Non è mia figlia» sibili, con astio. Non è tua figlia e non lo sarà mai. «Non chiamatela così».
Ma Bellatrix ride e, in un angolo buio della stanza, si sfiora il ventre con fare materno – come non ha mai fatto, e come non avrà mai più occasione di farlo – come se sua figlia, perché è sua e di nessun altro, potesse ritornare lì.
«Delphini ha detto che avete avuto contatti, prima che riuscissimo a prendervi entrambi» commenta il Ministro, con interesse. «Che considerava lei, Signor Lestrange, il suo vero padre».
Tu ridi, somigli drammaticamente a lei mentre lo fai – e la vedi quasi davanti ai tuoi occhi, ridere di te mentre la tua ragione s’offusca e pian piano t’abbandona.
«Non chiamatela così» sussurri, rivolto alle tue scarpe che accarezzano il pavimento come un’altra risata. «Non sarà mai mia figlia».
Ma Delphini, che ha sangue di due mostri dentro di sé, t’ha definito padre davanti a tutto il Wizengamot ed è l’accusa peggiore a tuo carico, essere padre di un essere insensato e indegno come lo è lei. Eppure, è stata una bambina che hai sfiorato con distacco, quando Narcissa te l’ha messa in braccio con aria piena di compassione, e tu le hai fatto cenno di riprendersela.
E, forse, pazzo lo sei diventato quel giorno.
 
***
 
Attendendo il verdetto
che sarà lungo o breve grato o ingrato
ma sempre temporale e qui comincia
l'imbroglio perché nulla di buono è mai pensabile
nel tempo,
 
«Signor Lestrange» il Ministro della Magia ti guarda, con aria corrucciata. «Prima di ritirarci per deliberare, le faccio un ultima domanda. Risponda, se riesce a comprendermi: lei è pentito di quel che ha fatto?».
La guardi e ti mancano le parole: ha gli stessi capelli impossibili, impenetrabili, di Bellatrix, e occhi così scuri che ti viene facile perdere il fiato al loro interno. Ma sono più chiari di quelli di tua moglie, che erano neri come un inferno blu petrolio o nerofumo pronto a inghiottirti vivo – e risputarti fuori morto.
E sei pentito, ti domandi, cercando dentro di te quella risposta così insensata, così lontana dai pensieri che ti sfarfallano in testa: non puoi semplicemente tacere, ti domandi silenziosamente, e attendere il verdetto?
Lungo, breve, giusto, ingiusto. Cosa cambierà mai, sempre di prigione si tratta ma, tuttavia, un pensiero ti spinge ad aprire bocca e farne uscire delle parole: non con lei, mai con lei, che si definisce figlia tua e non di una divinità spogliata e sconsacrata.
«Sì» sussurri, e ci credi per davvero. «Mi pento di averla aiutata, lei non è mia figlia, non le dovevo niente».
«Lei ha molte altre accuse a suo carico» commenta il Ministro. «Gliele elencherò, e mi aspetto una risposta dopo ognuna di esse. Va bene?».
Annuisci. Ormai sei il burattino nelle mani di una ragazzina ch’è cresciuta mentre per te il tempo si fermava, mentre ogni battito e ogni scintilla dentro di te lentamente s’avviava verso il proprio tramonto. E Bellatrix ride, dentro di te, di come tu sia costretto a pentirti – ma, com’è che ti ha sempre detto?
«Stupro e tortura di Alice Longbottom» sussurra la Granger, con aria turbata. «E tortura di suo marito Frank».
Tu non rischi mai, Rodolphus. Te lo sussurra, seduta di fianco al Ministro, mentre sgambetta come una bimba felice di fronte al suo giocattolo favorito. A volte, mi chiedo se davvero t’importi servire l’Oscuro Signore.
E adesso, che Lord Voldemort è solamente un nome – e i nomi hanno smesso di incutere timore – e ha perso quell’aura di dorata sacralità, adesso che Bellatrix l’ha spogliato di essa, cosa rimane? Pentimento, bruciante pentimento che ti ustiona le ossa.
«Mi pento» sussurri, con insolita sincerità. «Di entrambe le accuse».
Ti penti di aver sbagliato lato per cui combattere, privandoti della gioventù, di un amore meno impossibile di quel che hai subito, di un fratello morto nel silenzio ammorbante della propria cella ad Azkaban. Ti penti e ti duole il pensiero di quel pentimento, così come doleva il cuore di fronte allo sguardo perso di Alice Longbottom, mentre la violavi nel peggior modo che il creato abbia mai partorito.
Ti penti di tutto questo. D’aver assecondato, tradito, ucciso, torturato: perché le hai ucciso la mente, alla giovane Alice, e hai torturato l’anima di suo marito per assecondare la tua, di moglie, che ti tradiva con la Divinità sfregiata di un Signore che ha perso l’iniziale maiuscola.
«Eccidio della famiglia Babbana dei McDonald» commenta con freddezza il Ministro. «E tortura della figlia, Mary».
«Mi pento» rispondi, senza intonazione. Nemmeno ti ricordi il viso di quella ragazza, in che stato fosse il suo sangue, di che colore avesse i capelli.
Non ricordi metà del lungo elenco sciorinato da Hermione Granger, come se la pazzia t’avesse eroso la memoria, oltre che a tutto il resto. Ma ti penti, certo che lo fai.
Ti penti di aver amato tua moglie fino a perdere la ragione, ti penti d’averla sposata pur sapendo del suo folle amore per l’idolo di un credo pagano, e ti penti d’aver voluto aiutare sua figlia in un ultimo disperato atto d’ossessione.
«Omicidio di Colin Canon» continua il Ministro, sfiorandosi il cuore con la mano destra. «Durante la Battaglia di Hogwarts».
«Mi pento» sussurri. «Mi pento di ogni cosa».
Ti penti d’aver ucciso un moccioso ch’aveva avuto l’ardire di provare a disarmare Bellatrix, te ne penti perché, se fosse stato l’eroe che aspirava ad essere, avresti potuto pentirti prima ed essere salvo. Avresti preservato l’anima, che avevi già donato a lei, e forse ne avresti rimpianto meno la morte. Perché non era l’Oscuro Signore, che gl’importava servire, ma lei. E questo, Bellatrix l’ha sempre saputo.
«E, infine, aver aiutato Delphini Lestrange» conclude il Ministro. «Nel proprio disegno per sovvertire l’ordine mondiale».
Non riesci a non ridere: eri uno dei più fedeli e, adesso, ti sei pentito di aver mai guardato in volto l’Oscuro Signore. Ti sei pentito d’avergli permesso di portarti via la vita, e l’anima, prendendole dalla mente di Bellatrix mentre le tirava i capelli durante l’amplesso.
«Me ne pento» ripeti, per l’ennesima volta. «E me ne pentirò per il resto della vita che mi rimane da vivere».
Hermione Granger sospira, con aria esausta, mentre fa cenno agli altri membri del Wizengamot di ritirarsi per deliberare.
Tu pensi che potranno decider ciò che a loro piace di più – crederlo colpevole e crederlo innocente – quando a te non potrà mai importare nulla di tutto ciò: sarai sempre grigio come un mantello logoro, incapace di scegliere il bene assoluto e il male ancora più assoluto. Bellatrix ti guarda e scuote la testa, ha già capito in che vita speri – aiutare Narcissa a piantare le rose nel suo giardino, riacquistare l’uso della tua mente – e ride istericamente.
Non ti accetteranno mai, ti sussurra all’orecchio, accarezzandoti il volto con il dorso della mano. Sei troppo oscuro per poterti illuminare con una candela, Rod.
«Non l’ascoltare» ti sussurra tua cognata, scrutando un punto indistinto della sala. «Sarà bello, vedrai, tornare a vivere».
Ma tu non riesci a toglierti dalla testa il pensiero insistente e incancellabile che qualunque verdetto sarà comunque temporale e, dopo la morte, chi potrà salvarti da tua moglie? Non Narcissa, o Hermione Granger, né l’intero Wizengamot.
Né la follia. E, alla fine, nemmeno tu.
 
***
 
ricorderò gli oggetti che ho lasciati
al loro posto, un posto tanto studiato,
agli uccelli impagliati, a qualche ritaglio
di giornale, alle tre o quattro medaglie
di cui sarò derubato e forse anche
alle fotografie di qualche mia musa
che mai seppe di esserlo,
 
Ti sei inginocchiato ai piedi di tua cognata, ringraziandola a gesti – a parlare non riesci più – mentre vi Smaterializzava a casa sua. Lei ha sorriso dolcemente, e ti ha preso per un braccio per farti entrare nel Manor, guidandoti verso la stanza che, d’ora e per sempre finché morte non vi separi, sarà la tua.
«Mi sono permessa di portare qui le tue cose» ti sta spiegando Narcissa, Cissy la chiamava Bellatrix, abbracciando con lo sguardo la camera. «Per farti sentire a casa».
Ma che senso hanno gli oggetti, adesso che non li comprendi più, che sono solamente un’accozzaglia sempre identica di forme, colori e suoni quando cadono ai tuoi piedi, sul pavimento. Eppure, un tempo, i manufatti li collezionavi – e sono tutti lì, davanti a degli occhi che non li vedono e a mani che non li toccano.
Tu non lo ricordi, ma un tempo li avevi accarezzati ai loro posti, posti così studiati da essere immutabili, e adesso è tutto un contorno sfocato che non distingui più. Come se l’acqua stagnante t’avesse annacquato la vista, pensi, e allora sbatti le palpebre per piangere fango e ti stupisci quando non ne viene giù niente. Narcissa ti aiuta a sederti sulla poltroncina di raso verde, forse cieco lo sei davvero, e sorride di madreperlacea pietà, sfiorandoti il capo come farebbe con suo nipote.
«Starai meglio» promette. «Si respira, dalla parte giusta del mondo. Ti piacerà, tornerai a vivere senza di lei».
Perché è Bellatrix che avvelena l’aria, che rende impura l’acqua e che ti sommerge i pensieri come un’onda anomala. E, quando credi che sua sorella sia in grado di mandarla via, eccola che si siede sul letto, accavallando le gambe come non potrà fare mai più.
«Falla andare via» sussurri, coprendoti gli occhi con le mani. «Hai detto che avrei ricominciato».
Ma come puoi ricominciare, dalla parte giusta del mondo, se tua moglie ride istericamente e continua a ripeterti che non sai, che non sai mai niente – nemmeno da che parte preferiresti vivere.
Cissy ti alliscia i capelli, troppo lunghi per il visto che s’è smagrito nei mesi della tua fuga, e scuote il capo biondo. «Devi essere tu a mandarla via» sussurra. «O continuerai a vederla per sempre, e ti divorerà».
Bellatrix ti mostra i denti, ringhia quasi, ma ormai tu hai scelto: se la pazzia si può rifiutare, tu hai scelto di tornare a ragionare. E lei – ch’è musa dolorosa che t’infesta i ricordi, annebbiandoli – dovrà raccogliere i propri averi e andare via.
Annuisci.
«Mandiamola via» sussurri.
Il pentimento è forse insincero, ma la tua voglia di ricominciare non lo è.
 
***
 
Scegliere vuol dire ricominciare – e tu ricominci una sera che pian piano s’addormenta, quando apri gli occhi improvvisamente e ti rendi conto che Bellatrix è sparita.
È finita, quest’esistenza, ma la tua ricomincia a battere in quel momento.
 
rifarò il censimento di quel nulla
che fu vivente perché fu tangibile
e mi dirò se non fossero
queste solo e non altro la mia consistenza
e non questo corpo ormai incorporeo
che sta in attesa e quasi si addormenta.
(Montale, Ai suoi piedi, dal Quaderno dei Quattro anni)
 
 
 


Partiamo da un presupposto: questa storia doveva essere per il Grey Redemption Contest di Catherine94, ma purtroppo non c’azzeccava niente con i prompt del contest, quindi ho preferito scriverla come storia a parte. Comunque ringrazio Cat per la bella ispirazione che mi ha regalato, ho gradito un sacco.
Secondo presupposto: ringrazio Futeki che ha betato velocemente la storia, mentre io mi maledicevo per l’aggiornamento di domani, quindi insomma grazie mille e parecchi sacchi, perché io sto già morendo di sonno e non connetto.
Terzo presupposto: grazie a chi, su FB, mi ha dato informazioni sul Wizengamot, mi sono state molto utili.
Poi, non ho segnalazioni particolari per questa storia (escluso il fatto che dei McDonald me lo sono inventato), se non che è strana e non so se mi piace o meno.
Grazie per avermi letta.
Gaia
   
 
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