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Autore: Manto    18/11/2020    2 recensioni
Da Tebe a Delfi, da Delfi alle profondità d'Esperia; un piccolo omaggio a Manto e alle sue peregrinazioni, fino alla dolcezza della sera.
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Apollo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Immortali'
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Lei Che Vive Nella Sera

 

 

 

Tebe rifulge tra i fiori dell’estate, nella brezza che accarezza i campi: è il principio di una sera nuova, che segna il ritorno della luce.
Le strade, le case, i giardini fluiscono e ribollono di canti e danze: smessi gli abiti del lutto, allontanata l’ombra del sangue che tutto insozza, i piedi e le lingue intessono musica e odi ai Numi, purificano l’aria insieme al fuoco dei sacrifici; che sia distante ogni preoccupazione o cruccio, nella città non c’è letto dove possa stare.
La rocca reale si leva sul buio come una luna, nel suo latteo splendore osserva la costellazione di fiamme vivaci, portatrici di ebbra gioia, lungo le larghe vie; e sulle terrazze che si tendono alla notte, ecco che si accoccola un astro, la più giovane fra le anime che lì dimorano.
Manto è un fiore in boccio, le sue mani sono troppo piccole per afferrare il mondo che la circonda, e allora si aggrappa alle vesti dell’uomo che chiama padre, colui che rivela stragi e maledizioni, segreti e colpe1. È ancora presto, per lei, comprendere che molto di ciò che vede non è la realtà nella quale respira, ma il futuro; eppure, gli Dèi già sussurrano al suo orecchio.

Non gioite, figli di Cadmo2, non così: più vi rallegrerete, più soffrirete quando le tenebre ritorneranno a coprirci. Non lo sentite il gemito della terra, la condanna che ci marchia? Non c’è rimedio al sangue, se non altro sangue.
E tra grida di giubilo e risate è quasi giunta l’alba, timida e pacata: Tebe si chiude nel sonno e accoglie la quiete, non trattiene memoria del dolore che dorme nel suo grembo e ignora che, non troppo distante dalle mura, tra i sepolcri, le montagne e le gole che il lucore non sfiora, la voce dei mostri e d’ingiuste sorti3 riecheggia triste, in attesa.
Solo Manto e suo padre sanno, silenziosi e attoniti, e rimangono a fissare il giorno che viene, la serenità che precederà la loro fine.

 

 

 

Lente nubi sulla Città dalle Sette Torri, bruma dai campi in attesa: dagli altari si levano i fuochi e i fumi dei sacrifici, offerte e preghiere agli Dèi silenti, mentre il vento canta sempre più forte — non è il tempo di Tebe, questo.
Manto non ha bisogno di vedere per sapere, il futuro corre nel sangue che ha ricevuto da Tiresia; e se anche l’Obliquo4 non avesse voluto concederle quel dono, comunque scorgerebbe nella terra, sulle mura e tra le proprie mani la scia scarlatta che ancora rifulge e stilla, chiamando altra morte e sofferenza.
Se c’è chi si attarda a chiedere protezione ai Numi, in molti si preparano a fuggire: i Figli5 sono leoni, resi furiosi dagli spiriti dei Padri e dalla stessa follia che Tebe culla nel ventre6, e solamente la guida di Tiresia può impedire che gli innocenti vengano immolati sulle are della vendetta. In quanti dovranno ancora patire?

Solamente una, solamente io.
«Cara figlia, Manto, di te non avranno pietà.»
Manto sospira, una nuova lacrima si aggiunge a quelle che la sua gente ha già versato; ma nessuna preghiera, nessun dono o gioiello7 potrebbe mutare la sua mente. È ancora una giovinetta dalle chiome libere8 e con i piedi che sentono nel suolo l’eco delle danze che furono; ma nei suoi occhi notturni rifulge la fiamma del sacrificio — lei stessa —, mentre la città già le leva lamenti e intesse sudari.
«Che sia io l’unica a rimanere a Tebe», risponde senza guardare chi le parla, osservando le campagne e la nebbia ora mutata in spire d’incendio, «che sia io l’offerta che i vincitori dedicheranno agli Dèi. Il vostro dolore finisce insieme a me.»
Una mano si posa sul capo, un’ultima carezza; in un sospiro, nel palazzo reale non rimane più nessuno oltre a lei. Chiude gli occhi, allora, e nel silenzio dell’anima implora Apollo di risparmiarle, per qualche istante, la sapienza che la veggenza le reca: ma nemmeno il Lungisaettante è rimasto al suo fianco.
Manto è sola, nelle mani del Fato; ed è sola quando gli Epigoni irrompono in città e salgono fino al palazzo, è sola mentre la circondano e lei li guarda senza vederli.
I Figli dei Sette non si spendono in parole: la prendono per mano e la conducono fuori dalle mura, oltre i giardini e le torri di Tebe maledetta, e la incitano ad avanzare sola.
Non saranno loro a imporsi sulla sua carne: Apollo già l’attende tra i misteri di Delfi, chiamando a sé il bottino che i giovani gli hanno consacrato.

 

 

 

I minuti divengono ore, le ore giorni, e i giorni l’avvicinano alle porte della città oracolare; questa guida e veglia, proteggendo il cammino della sua nuova gemma.
Abbracciata al tripode, Manto riceve rispetto e cura: il figlio di Latona le stende la mano sul capo e le penetra nel corpo per renderla suo involucro e messaggera, nessuno che sia nella grazia dei Numi toccherà la fanciulla.
Nella lunga veglia, lei intesse fremiti di battaglie e destini, fila ricchezze o le fa precipitare in tenebrosa rovina, narra di grida e benedizioni, d’infausti segni e consigli, ammonisce o rincuora; nei sogni, quando anche per lei scende il pietoso riposo, le appare una terra dalla voce selvaggia. È sempre sera quando la vede, perché Esperia9 non si mostra in altra veste; e laggiù le stelle occhieggiano con neri palpiti e il mare sussurra i segreti che i fiumi gli recano, rapendoli alle profondità dei boschi e ai riti che li illuminano. L’uomo muore, a Esperia, o fugge dalla sua sorte funesta per cadere nell’oblio; di lui, non è più lecito chiedere.
La visione segue sempre la stessa strada: appena prima che Manto riapra gli occhi e il giorno la incontri, Apollo le si mostra in forma di freccia d’oro e attraversa il cielo di Delfi, per poi conficcarsi nell’orizzonte occidentale; è là che conduce il suo volere, là i passi di Manto devono dirigersi.
La fanciulla attende di finire il suo servizio al tempio prima di obbedire, il cuore ancora grave di pianto per Tebe e impaurito dai mormorii che giungono da quelle lande lontane; ma è dove il Sole cade che gli Dèi l’attendono e la vogliono, e, la notte in cui la propria voce smette di rivelare i responsi dell’Obliquo, lei comprende che l’Ellade non è più una dimora, che l’Ignoto la chiama a compiere il suo ultimo viaggio.

 

 

 

Esperia rapisce ogni sguardo e il suo grembo è oscuro e vibrante, tanto profondo da riempire di timore; eppure, il carro di Helios giunge anche qui e infiamma i campi, i boschi e i villaggi con giorni d’estremo calore.
I piedi di Manto non incrociano spesso quelli di altri uomini: le comunità sono ristrette e distanziate tra loro, e Apollo continua a elevarsi sopra il suo capo e a tutelarla, come lo fa la paura. I volti di chi incontra e al quale non può sfuggire, per necessità e disperazione, non sono molto diversi da quelli in cui è cresciuta, ma la voce è immersa nel mistero: le parole nascondono significati che non comprende e dei quali non riesce a domandare, gli sguardi la fissano con sospetto, per poi abbassarsi non appena intravedono l’ombra degli Dèi sulla sua figura; le mani che porgono il cibo che lei implora sono svelte a levarsi per chiederle pietà — per tenerla distante.
L’indovina è sola, sempre: le selve soffocano ogni suono quando lei le attraversa, i fiumi calmano l’impeto delle onde per permetterle di passare e quasi muoiono nei propri letti, le stelle le si pongono sul capo senza parlarle. Intanto, l’eco di Tebe cresce d’intensità, così che sente sotto le dita il bacio del sangue che continua a condannare, che promette di sporcare anche quelle lande; così che si chiede quale sia il suo Fato, se veramente Esperia merita di conoscere la colpa che ha ereditato dalla propria gente.
Le lacrime non smettono di segnarle le guance: Esperia non può non percepire la rovina che quell’anima straniera porta con sé, i neri artigli che le stringono il collo fin da prima della sua nascita, e forse proprio per questo si ritrae e la rifugge.
La terribile Sfinge, le maledette vicende della famiglia reale, i Sette e i loro figli continuano a urlarle nel cuore e nella mente; Manto può biasimare il terrore che sente provenire da lei e a lei giungere, o comprendere i voleri celati nel vento silenzioso che la sospinge avanti? La solitudine l’annienta come un veleno, ma è l’unica realtà che permetta agli altri di vivere.
Solamente i Numi non temono la sua presenza, e così i luoghi che questi proteggono: e, dopo innumerevoli giorni d’inquieto vagare, un’alba all’apparenza uguale le svela il risuonare di un grande fiume, incurante di lei.
Il sonno ricolmo di ombre la lascia immediatamente e la spinge a levarsi, a guardarsi intorno nella radura che l’ha ospitata per la notte; al di là dei molti anelli di querce, forse fuori dalle selve, le onde si rincorrono senza tregua e trascinano con sé le nubi che dormono sui monti, e verso di esse la fanciulla spinge incerti passi.
Il canto dell’acqua è così chiaro da guidarla senza permetterle incertezze, Manto non si stupisce quando abbandona il folto e il fiume scintilla a qualche distanza.
Il bosco finisce improvvisamente, lasciando spazio a una distesa di campi e al corso d’acqua che divide le due realtà, e l’indovina si ferma sulla soglia della selva: esita ad avanzare e s’inginocchia al suolo, perché immediatamente sente che nel fiume c’è una forza che supera l’Umano, un’entità arcana che veglia sulle onde e su chi le abita. Non può lambirla con la sua storia; non può sporcarla. «La mia ombra non offuschi la tua sacralità», sussurra allora, il volto a terra, «tornerò indietro, cercherò un’altra strada per avanzare. Ti recherò offerte, per poi andarmene.»
«Non è questo ciò che desidero.»
La ragazza spalanca gli occhi ma non alza il viso, immobilizzata e insieme cullata dalla voce del fiume; vorrebbe alzarsi, ma un legaccio invisibile le trattiene i polsi mentre una nube vela il Sole nascente. Dopo qualche attimo, Manto comprende che è l’immortale custode di quelle acque, Tevere magnanimo, a tener lontana la luce, il quale ha abbandonato la propria dimora per raggiungere il suolo e chinarsi sopra di lei.
«Alza gli occhi, fiore di Tebe: qui non hai nulla da temere.»
L’indovina obbedisce; e il suo sguardo incontra le profondità che si agitano nel volto giovane e sereno del Nume, la lunga chioma che si muta in quiete onde limpide, il corpo che trattiene dentro di sé il gelo della neve e la benedizione dell’estate, gli occhi spietati dell’inverno e il lucore delle stelle, morte e vita nel proprio inarrestabile ciclo.
Tutto ciò che circonda le loro figure prospera grazie alla mano benevolente del Dio, ogni spiga e bocciolo gli deve la nascita e la protezione, il riposo che precede il ritorno e la fecondità; e il grande amore di questi non manca di abbassarsi anche sul capo della fanciulla, sui riccioli ricolmi di tramonto10.
Incapace di volgere lo sguardo altrove, l’anima lenita e calmata da quel tocco gentile, il dono di Apollo attraversa ancora una volta la carne della fanciulla, mostrandole il proprio futuro: da quel momento, le sue chiome non saranno più sciolte e sarà lei stessa l’offerta al fiume, gradita da entrambe le parti.
«Questa sofferenza t’insegue…», mormora Tevere, lasciando scivolare le dita sulla fronte e le gote della fanciulla, intrecciando disegni e ricami d’acqua come lievi baci.
«Questa sofferenza non appartiene a Esperia; ma se rimango presso di te, o Immortale, diverrà anche la tua», risponde Manto, che riconosce la verità di quanto ha visto e al medesimo tempo teme sé stessa, e ciò che non può vincere, «ti macchierà, ti rovinerà.»
Il Nume sorride a quelle parole, attraverso di lui la giovane sente l’allegro fluire di mille rivi. «Non conosci la natura di Esperia: chi vi giunge cade sulle sue spiagge e nel cuore dei boschi, sfinito, per poi rialzarsi con la sorte mutata e addentrarsi nelle sconosciute terre, verso l’eternità e le mura che la proteggeranno11; l’uomo trova i propri fantasmi, nella terra della sera, e si fa divorare da essi per poi dominarli.
Le stelle che ti guardano sono più oscure del tuo triste Fato, perché partorite dal luogo dove Helios scompare; ed è qui la patria di chi ha sul capo il marchio della morte.
In nessun altro luogo puoi e potresti stare, perché solo qui rinascerai e la tua sorte avrà compimento. Non temere per me e per le terre che veglio; non temere per la vita che cerchi di proteggere e credi a ciò che hai visto, perché il dolore cadrà lontano da te.
Rimani con me, fanciulla; ti attendevo da molto.»
La giovane tace, si affida a quelle parole sagge e più grandi della paura, crede nella visione che gli mostra la fine della propria solitudine; stringe docilmente la mano che il Dio le offre e si rialza, per poi farsi guidare tra narcisi e giunchi, sussurri di promesse.
Tevere conduce dove il fiume calma il proprio impeto, a una pozza che trattiene ogni luce che a essa si avvicina, e s’immerge in quello specchio intatto; Manto lo segue, e immediatamente le acque le cingono la vita in un abbraccio.

«Questo è ciò che desidero», mormora il Nume, versando onde sul capo dell’indovina e purificandola dalla lunga peregrinazione e dal passato, mentre dalla riva i fiori scivolano nella corrente e si gettano tra le braccia della pozza per intrecciarsi ai capelli della sposa, mentre la voce di Tebe si perde e lascia che siano le fiere e gli abitanti delle profondità silvestri a levare appropriati imenei12.
Il cuore di Esperia ha una nuova madre; e ogni voce la canterà, ognuno lo saprà.

 

 

C’è una terra, nel profondo settentrione: la mano di Helios giunge là più lieve, mentre la sera si eleva sopra salici e querce, e fiori stranieri popolano il grembo di tre laghi.
Tra giunchi, aironi e un’isola che non conosce potere umano, Ocno13 guarda ciò che ancora dev’essere; come accadde a sua madre un tempo, la mente prova terrore.
Non ha ricevuto il dono di Manto; eppure, per un istante, Apollo lo ha portato con sé oltre i confini del corpo mortale e gli ha fatto conoscere quanto lo attende.
«Che cosa hai visto, figlio mio?»
Dolce, sapiente, la voce di Manto culla il figlio; e questi abbandona il capo sul suo grembo, si fa abbracciare dal padre magnanimo.
«Ho visto… ho visto ciò le Moire hanno deciso: il mio posto non è qui, ma in una terra non ancora toccata da leggi, tra fiori che non conosco e genti che troveranno in me un regnante; là conduce il volere del Nume di Delfi.
Tuttavia, quando raggiungerò le sponde su cui dominerò, tu non sarai con me… né avrò accanto mio padre. Tra pochi anni, il tuo tempo finirà e una profonda sofferenza segnerà la nostra anima: il grande Tevere continuerà a proteggere tutto ciò vedrà, ma nessuno ne udirà più la voce. Seppur Immortale, se ne andrà con te.»
La sposa del fiume attende un istante, quindi sorride a quelle parole. «Esperia trattiene ogni ricordo di noi; non devi temere di perderci, noi continueremo a esistere.
Confida in quello che ti attende, perché non siamo giunti qui per morire, ma per ricominciare a vivere; e portaci con te, quando sarà il momento.
Il nostro lascito è pietra, nessuno potrà cancellarlo.»
Ocno non ascolta più, caduto nel sospiro del sonno, eppure sente: come sua madre fece, decide di credere alla voce che lo protegge da sempre e alla solitaria, regale Luna che sorge su Esperia e illumina la sera, il domani ormai presente.

 

 

 

 

 

NOTE

 

1 Il padre di Manto è Tiresia, indovino di rilevante importanza nel ciclo tebano: tra le altre cose, fu lui a rivelare a Edipo di aver sposato la propria madre e aver ucciso il padre, e quindi di aver portato la pestilenza sulla città.

 

2 Cadmo fu il fondatore e il primo re di Tebe.

 

3 “I mostri” fa riferimento alla Sfinge, che, nel mito che narra di lei ed Edipo, si dice fosse appostata davanti alle porte di Tebe; “ingiuste sorti” è un riferimento alla triste vicenda di Antigone, spiegata nelle note più sotto.

 

4 Epiteto di Apollo, per via dell’enigmaticità dei suoi oracoli; tra le altre prerogative, questi concedeva il dono della profezia.

 

5 Gli Epigoni, gli eredi dei Sette che assediano Tebe per permettere a Polinice (uno dei Sette), il figlio di Edipo ingiustamente privato del trono dal fratello Eteocle, di rientrare in città e riprendersi quanto è suo. Infatti, i due dovevano governare Tebe ad anni alterni, ma Eteocle non rispettò il patto e scacciò Polinice; da qui si aprì una storia di sangue (che Edipo aveva iniziato con l’uccisione del padre Laio) che vide la morte brutale di sei dei Sette e di Eteocle, per poi continuare con Antigone, che seppellì il fratello Polinice contro le leggi di Tebe (che lo considerava traditore perché aveva mosso guerra alla sua città, e quindi indegno di onori funebri) e che per questo venne rinchiusa in una grotta, e la generazione successiva.

 

6 Anche Eteocle aveva avuto un figlio, Laodamante.

 

7 Riferimento alla collana di Armonia, che ebbe un ruolo tragico nella vicenda tebana: servì infatti a corrompere Erifile, moglie dell’indovino Anfiarao, e a favorire la partenza dei Sette contro Tebe, con tutta la ridda di morti che seguì (e che Anfiarao vide e cercò di scongiurare, essendo lui, inoltre, uno dei Sette; questi fu quindi consapevole fin da subito di essere stato “venduto” dalla propria sposa in cambio della collana che concedeva bellezza eterna).

 

8 Nel mondo greco, erano le donne sposate a tenere i capelli raccolti, mentre le vergini li portavano sciolti.

 

9 In greco, Esperia significa “Terra della Sera”. Così venivano chiamate l’Italia e la Spagna, dove il mondo finiva e vi era solo morte; qui approdarono tanti eroi del ciclo epico, da Diomede a Iolao a, notissimo grazie a Virgilio, Enea.

 

10 Spesso, eroi ed eroine del mito vengono descritti come biondi o rossi di capelli, o un misto di entrambi. Per Manto avevo pensato a una chioma dai toni del rosso scuro, sfumatura che può essere accostata poeticamente al tramonto, in modo che rispecchi anche nell’aspetto la sua sorte finale a Esperia, dove il sole cade e la sera si leva.

 

11 Tante città si dicono fondate da eroi omerici, come per esempio Antenore con Padova o Diomede con Ancona (e molte altre città, tra le quali Brindisi, Benevento, Andria e Venosa, visto che lui è considerato un eroe civilizzatore).

 

12 L’imeneo era un canto nuziale, cantato in coro da coloro che accompagnavano la sposa alla casa dello sposo.

 

13 Ocno, figlio di Manto e Tevere, fu colui che fondò la città di Mantova in ricordo della madre, che, secondo la versione del mito che ho seguito, non vide mai la terra dove la città sorgerà.

 

 

 

ANGOLO DELL’AUTRICE MANTO

 

Salve **

Mi chiedo anche io come abbia fatto ad aspettare tanto a ritornare in questa sezione e dedicare una storia all’eroina mitica di cui porto il nome qui su EFP, e mi vergogno davvero. Fatto sta che una gitarella in quel di Lecco insieme a una splendida personcina (tu sai chi sei) e una rilettura del libro di Fulvio Beschi La Guerra di Troia, che si concentra sul ciclo troiano ma non disdegna parti antecedenti e/o seguenti a esso (come i miti della Tebaide, gli Epigoni o i Ritorni), mi ha fornito lo spunto per porgere onore alla fondatrice della mia amata città.
Non prometto nulla, ma in futuro potrei cambiare nome alla storia e renderla parte di una raccolta, tutta incentrata sugli eroi che ripresero a vivere nelle terre di Esperia.
Spero che possiate gradire questa fic, perché per me è stato bellissimo scriverla (specie la parte tra Manto e il dio Tevere, il cuore della fic, perché nel mito è certo che l’eroina trovi finalmente un po’ di felicità e pace con lui, un’entità molto positiva e generosa, e perché l’idea di sposare una divinità legata al mondo acquatico mi farà sempre battere il cuoricino), e perdonatemi per la quantità immensa di note che ho inserito.
Un abbraccio,

 

La vostra Manto

 

   
 
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