"Notte Hayc ci sentiamo domani,
cerca di arrivare in
orario."
Il vecchio Stuart mi saluta mentre
si riprende la bicicletta e la porta al deposito.
Gestisce i rider della zona est di
Londra, lavoro per lui.
Mi appoggio con la schiena al
muro, non vedevo l'ora di finire, sta diventando sempre più
pesante pedalare
per portare in giro la cena degli altri.
Sorrido, mi chiamano Hayc ma il
mio vero nome è Sherrinford. Un nome altisonante, per uno
come me che ha
passato la vita in orfanotrofio.
Stringo un altro foro della
cintura dei calzoni. Mi rovisto nelle tasche, la stoffa lisa si
è bucata e le
poche sterline sono finite nella fodera, ma sono sufficienti per
pagarmi la
cena.
Quando ho compiuto diciotto anni
ho dovuto lasciare l'istituto e sono iniziati i problemi.
Mi infilo il cappello di lana, che
trattiene i disordinati capelli neri. Ho ripreso fiato e mi avvio
camminando
per raggiungere la periferia di Londra, dove ho una "casa" che non
è
altro che una specie di stanza, fredda e anonima, ma costa poco, quindi
va più
che bene.
Rabbrividisco, la vecchia giacca
non fa più il suo dovere. Troppo usata e troppo logora. Il
mio prossimo
obiettivo sarà acquistarne una più calda. Questo
mese sono riuscito a comprarmi
un paio di scarpe nuove e sono contento. Una piccola soddisfazione per
uno come
me che non ha prospettive se non quella di sopravvivere. Non sono un
tipo che
ha molte pretese, mi basta fare qualche lavoretto di tanto in tanto per
avere
qualche sterlina in tasca.
"Ti stai lasciando andare
Hayc, trova un lavoro serio, così non va bene." Sento dentro
la testa la
voce petulante dell'assistente sociale.
Mi devo presentare da lei due
volte al mese da quando sono uscito dall'istituto. È l'unica
che si interessa
di come vivo.
In effetti ogni tanto mi perdo, mi
lascio prendere dallo sconforto. Non riesco a reagire, così
mi faccio, anche se
non sono un tossico, oppure mi sbronzo perché costa meno. Mi
stordisco, mi fa
sentire meglio, so che è sbagliato, ma mi addormento senza
pensieri in quella
stanza fredda visto che non ho abbastanza soldi per pagare il
riscaldamento. Stasera ho la testa che viaggia da sola, sono patetico!
Perché è
sempre la solita storia,
mi prende una rabbia cattiva che mi distrugge dentro quando penso al
perché mi
abbiano abbandonato.
Mi massaggio le vecchie cicatrici
sul braccio, e maledico la sfortuna di tutte le volte che mi hanno
adottato e
non ha funzionato.
Come può una madre
lasciare un
figlio? Me lo chiedo da anni, senza trovare risposta. Forse il freddo
mi
rallenta il cervello, sono mesi che non ripenso alla mia vita.
Prendo a calci una pigna, caduta
dal vecchio albero del parco. Un calcio a tutti quelli che non mi hanno
voluto.
Il mio respiro si fa leggero, mi
sale un colpo di tosse.
Meglio lasciare stare la droga
stasera, tre settimane fa per poco non ci rimanevo, quindi adesso mi
sbronzo e
basta. Ho già dato in termini di sballo, meglio rallentare
con
l'autodistruzione.
Non avere alcuna regola, mi porta
a infrangerle tutte.
Aumento il passo per arrivare a
casa. Un gatto tigrato attraversa coraggiosamente la strada, si ferma a
farmi
le fusa. Due sere prima gli ho dato delle crocchette e da allora mi
aspetta.
Gli faccio due coccole, stasera è l'unica cosa che posso
regalargli.... Meglio
prendermi del cibo, la solita pizza, mi basta e avanza.
Da alcuni giorni ho la maledetta
impressione di essere seguito. Non ho conti in sospeso e non ho idea di
chi
potrebbe essere, mi comporto bene ultimamente.
Sono arrivato a casa e mi fermo al
solito locale. Aspetto la mia cena, inganno l'attesa guardando fuori.
Eccola,
la solita auto scura di quelle che usano al governo, ultimamente la
vedo
spesso. Cosa ci faccia da queste parti, proprio non lo capisco, forse
qualche
pezzo grosso che vuole un'avventura fuori standard. Questo posto
è pieno di
escort disponibili e costose.
Salgo le scale con la pizza in
mano. Arrivo alla porta ma la trovo socchiusa. Forse, stanco com'ero,
l'ho
dimenticata aperta.
Entro e mi prende un colpo. La
luce nella camera è accesa. Lascio la pizza su di una sedia,
afferro il
coltello a serramanico che porto sempre con me e avanzo lentamente.
Quello che vedo mi lascia senza
fiato. C'è un uomo che mi dà di spalle, ma come
mi sente si gira. Al braccio ha
un ombrello che ondeggia verso di me.
Io impugno più forte il
coltello.
Deglutisco a vuoto.
"Non ci proverei,
Sherrinford, non sono una minaccia." La sua voce non ha alcuna
inflessione
ma sembra voglia rassicurarmi.
Si ferma puntando l'ombrello sul
pavimento dove appoggia tutto il suo peso. È elegante,
indossa vestiti costosi
e un cappotto Crombie che mi pagherebbe l'affitto per due mesi.
"Chi diavolo è lei? E
cosa ci
fa dentro casa mia?" Quasi urlo, abbasso la mano con il coltello, che
trema un po'.
"È impegnativo chiamarla
casa." Lui inclina il capo di lato, mi fissa. Fa un sorrisetto
sostenuto,
mi studia.
"Insomma cosa vuole da me?
Devo chiamare la polizia?" Mi rigiro il coltello fra le mani, comincio
a
indietreggiare.
"Ragazzo, diciamo che non
è
il caso. Voglio solo chiederti un paio di cose." Si accomoda sulla
sedia e
si concentra su di me. È calmo e questo allenta anche il mio
disagio, le mani
sempre strette su quell'assurdo ombrello.
"Per quale motivo dovrei
rispondere a un estraneo, che è entrato in casa mia di
soppiatto?"
Aumento il respiro e appoggio il
coltello davanti a lui sul tavolo. Non mi fa paura, non so per quale
ragione.
Tolgo la giacca, mi siedo.
Lui ha un che di familiare che mi rimescola.
Abbiamo la stessa altezza, lo stesso corpo asciutto, gli occhi grigio
chiaro
sono come i miei. Ma i capelli sono troppo corti per giudicare, i miei
sono
neri e mossi.
"Come sa il mio nome? Non
è
molto comune, nessuno mi chiama Sherrinford. Devono avermi fatto uno
scherzo
quando me l'hanno dato. Sono Hayc per tutti, più comodo e
più stupido."
Faccio una smorfia che è un mezzo sorriso.
"Potrebbe avere un
perché.
Non trovi?" Ed eccola comparire, quell'espressione sarcastica sul suo
volto, che mi risulta un po' antipatica.
"Ma lei chi è?"
Stropiccio il fondo liso della giacca. "Sto conversando con un estraneo
che mi è entrato in casa. Devo essere ubriaco!" Sbotto
seccato.
"Già, bel modo di
passare le
sere, bevendo e fumando erba. Ottimo per accorciarsi la vita." Il tipo
fa
un sospiro rassegnato. "Ne conosco un altro che faceva spesso come te.
Vi
piace rovinarvi la vita e di conseguenza anche la mia."
"Allora, lei chi diavolo
è?" Stavolta lo fisso torvo, la voce tagliente, voglio una
risposta.
Fa una pausa come se prendesse
fiato, poi mi guarda dritto negli occhi. "Mi chiamo Mycroft Holmes, ma
non
ti dirà un granché." Inghiotte a vuoto.
"È molto probabile che io sia
tuo padre."
Subito non elaboro, lo guardo e
non respiro, il cuore me lo ritrovo in gola. Inizio a tremare come
spesso mi
succede visto tutte le sbornie e la droga.
"Non può essere! Lei,
mio
padre? Cos'è, uno scherzo?" Mi alzo e incespico, vado a
prendermi
dell'acqua.
Eppure lo sento che qualcosa di
vero c'è. La sensazione che lo possa essere davvero mi
devasta. Torno dalla
cucina e lui è sempre lì. Un mezzo incubo.
Bevo, mi fissa immobile, mi vede
tremare. "Dovresti smetterla di farti del male, Sherrinford."
Gli offro da bere, molto
probabilmente lui è un tipo da costosi scotch di marca.
Gli allungo la bottiglia e un
bicchiere pulito, appoggio tutto sul tavolo. Mi siedo scomposto, mentre
lui si
versa l'acqua e beve. Non tradisce alcun tremore e questo accresce il
mio
smarrimento per la sua freddezza.
"Cosa vuole sapere? Non se lo
aspettava di trovarsi uno come me, vero? Un ragazzo problematico e
rozzo."
Rido, ma lui non è sorpreso. È impassibile,
nemmeno una smorfia, alza solo le
sopracciglia.
"Sherrinford è un po'
che ti
seguo, so quello che fai, il modo disdicevole in cui vivi. Voglio solo
che tu
sappia che ignoravo la tua esistenza fino a poche settimane fa. Ho
dovuto
faticare parecchio per trovarti, nonostante disponga di innumerevoli
mezzi." Sembra sincero, gli occhi velati, ma si riprende subito.
"Sono stato in orfanotrofio
quasi tutta la vita. Ho vissuto per qualche mese con una famiglia
adottiva ma
le cose non hanno funzionato. Me ne sono andato quando ho avuto
diciotto anni.
E ora lei, signor Holmes, arriva e improvvisamente si sente pieno
d'istinto
paterno. Grande! Un po' in ritard, mi sembra."
Mi alzo, più deluso che
arrabbiato, mentre lui rimane immobile con le mani strette al suo
ombrello.
Eppure sento che potrebbe essere la verità.
"Cosa vuole adesso da me
signor Holmes? Non posso darle nulla e mi sembra sia tardi per il
perdono."
"Non lo pretendo, so che sei
arrabbiato per quello che ti è successo. Ma te lo ripeto,
non sapevo nulla.
Vorrei solo due cose da te." Holmes si alza, abbandona il suo amato
ombrello. Sembra titubare, ma è un attimo, mi osserva poi
parla.
"Lo so che ti sto chiedendo
molto. Dimmi se hai una voglia scura sul braccio destro appena sopra il
gomito."
"Che richiesta è questa?
Una
prova per Dio?" Prendo, tiro su la manica seccato e gliela mostro
quella
"voglia" che ho sempre odiato. La esamina, muove appena il
sopracciglio. Vedo i suoi occhi in tempesta.
"Dimmi ragazzo hai una
cicatrice sotto il piede sinistro, una specie di sutura mal riuscita?"
Rimango immobile con il fiato
corto. Per Dio! Allora questo potrebbe essere davvero mio padre. Lui
aspetta
che digerisca il fatto. Prendo e con le dita irrigidite slaccio la
scarpa
sinistra, mi vergogno dei calzini bucati e gli mostro la ferita.
"Contento signor
Holmes?" Mi prende un'amarezza profonda per quell'abbandono subito
senza
risposte, forse l'arrivo di questo sconosciuto significa che ora
potrò averle.
Lui annuisce e si risiede. Stavolta sembra rilassarsi, si scioglie quel
tanto
che mi può concedere.
"Bene ragazzo, direi che
siamo sulla strada giusta, ora se me lo permetti vorrei un po' della
tua saliva
per il tampone del DNA. Voglio la sicurezza che tu sia mio figlio.
Spero tu
possa capire che io mi sento responsabile. E vorrei porre rimedio a
tutto
questo." Mette sulla tavola la provetta e lascia che io decida, non mi
impone nulla, aspetta paziente.
Mi arruffo i capelli, prendo
tempo. Entra a gamba tesa nella mia vita, non so se posso accettarlo.
Lo guardo irritato, indeciso se
cacciarlo da casa o cercare un rapporto con lui. È
curiosamente tranquillo, io
stupidamente agitato. Quest'uomo enigmatico mi attrae molto e vorrei
conoscerlo. Se lui fosse mio padre, una parte della mia vita, potrebbe
svelarmi
chi sono veramente.
Avere una vita normale, sapere da
dove vengo. Davvero potrei aspirare a tanto? Avere qualcuno che si
prenda cura
di me, che mi voglia bene? È lui la persona che voglio al
mio fianco? Se mi ha
cercato, se è qui di fronte a me, potrebbe essere un inizio.
Non so se posso fidarmi di questo
sconosciuto che mi osserva e attende una mia risposta. Ma ho fame di
affetto e
non voglio rimanere da solo. Accolgo la sua richiesta, abbassando la
testa,
incapace di guardarlo in volto.
"Bene, d'accordo, cosa devo
fare?" Infilo le mani nelle tasche sformate dei calzoni.
Scosta la sedia e l'ombrello, si
avvicina e mi prende un po' di saliva con il tampone, mi sfiora la
guancia con
la mano e quel contatto mi rimescola. Holmes mi vede vacillare.
"Tranquillo, va tutto bene,
non voglio disturbarti di più." Sembra sincero, quasi
sereno, ma si sente
in torto. Si aggiusta la cravatta, riprende l'ombrello e lo punta dove
è appoggiata
la scatola della pizza.
"Visto che la tua cena è
andata, posso portarti a mangiare qualcosa di caldo? Fa piuttosto
freddo in
questa specie di casa." Si gira senza aspettare che risponda, le mani
talmente strette sull'impugnatura del suo prezioso ombrello da apparire
scolorite. Ha già il suo cappotto addosso.
Accetto, mi accorgo che si
è
leggermente scoperto, maschera la paura di un mio rifiuto. Allora forse
è umano
e pieno di dubbi quanto me. Decido di seguirlo, soprattutto
perché sono
affamato e infreddolito.