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Autore: Dark Sider    30/11/2020    6 recensioni
I pensieri di un ragazzo intrappolato tra le soffocanti e dolorose mura di Campo di Girasoli, un luogo che di lieto ha soltanto il nome. Un viaggio nella sua mente vessata, nelle sue paure e nei ricordi ai quali si aggrappa disperatamente, per guardare attraverso i suoi occhi fin dove la crudeltà umana è in grado di spingersi.
[Storia partecipante alla sfida “Prompts, our Wires”, indetta da Soul Dolmayan su EFP]
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ATTENZIONE: questa storia tratta la pratica di conversione sessuale, molto estesa intorno agli anni '70-'80, periodo in cui questo tipo di trattamenti era particolarmente diffuso e portato avanti con metodi spesso immorali e aberranti, come quelli accennati in questa storia. Se siete sensibili a questo tipo di argomenti, o non li gradite, sconsiglio la lettura.

La storia vuole far riflettere su quanto alcune convinzioni - in questo caso il fatto che l'omosessualità sia una malattia, cosa che non è più fortunatamente vera dagli anni '90 - possano portare ad adottare comportamenti estremi e alquanto discutibili, e come questi possano addirittura essere approvati e considerati legittimi dalla comunità, o da una parte di essa. Spero di essere riuscita a trattare la tematica con la dovuta cura e delicatezza: ci sarebbe molto altro da dire, ma mi auguro di essere riuscita a produrre qualcosa di decente anche nella sua brevità e, soprattutto, spero che la storia possa essere gradita a chi aveva proposto il prompt che mi è stato assegnato (campo di girasoli, suggerito da Vale95).

Ringrazio Soul per questa bellissima iniziativa che ha organizzato, e chiunque si fermerà a leggere questo piccolo delirio.

 

 

 

Campo di Girasoli

 

 

Se chiude gli occhi, può ancora sentire la sua mano calda che gli sfiora il viso, come se fosse davvero lì. Ma, se chiude gli occhi, sono anche altre le cose che sente: senso di colpa, paura, dolore. Si accartoccia su se stesso e trema: vuole rifuggire quel contatto fantasma, eppure ne ha bisogno. Lo conforta e lo terrorizza, lo scalda e lo brucia al tempo stesso. Lo fa stare male, sente la bile arrampicarsi sulle pareti dello stomaco e bruciargli la gola, ma gli arriccia anche le labbra in un lieve sorriso, gli ricorda che cosa c’è al di là di quel mondo fatto di pareti grigie e orrore.

È confuso, è stanco e si detesta. Ci sono giorni, come questo, in cui vorrebbe semplicemente spegnersi come la fiamma di una candela troppo consumata, svanire come fanno certi ricordi lontani, o i fantasmi che attraversano le pareti. Ci sono giorni in cui si chiede perché non è in grado di essere normale, perché non riesce a guarire e ad andarsene da questo posto, che ha un nome tanto ridente quanto illusorio.

Ci sono giorni in cui si chiede se qualcuno, là fuori, si ricordi ancora che esiste. Se lui se ne ricordi, oppure se lo ha lasciato dietro di sé, dove non può più vederlo, fingendo che non ci sia mai stato.

Si stringe le ginocchia al petto e si guarda intorno con gli occhi sgranati: ha paura che possano intuire persino che cosa stia pensando, perché loro sembrano sapere sempre tutto. Sembrano sapere quando sta mentendo, quando sta fingendo di essere come vorrebbero, e lo puniscono per questo. Sembrano sapere che le sue parole sono vuote, mantra ripetuti per averli ascoltati decine, forse centinaia di volte, ma senza crederci davvero, senza esserne convinto. Sembrano sapere cosa ci sia nei suoi pensieri, ogni giorno, ogni ora, ogni istante. È come se lo fissassero costantemente: sente i loro occhi su di sé anche quando non ci sono, quegli occhi che gli perforano la pelle e lo fanno rabbrividire. Ha paura di muoversi, ha paura di pensare, ha paura di fare qualsiasi cosa che non sia ciò che gli viene chiesto. Non vuole contrariarli, non vuole che lo prendano e che gli facciano del male, che lo costringano a sottoporsi alle loro torture insensate.

Vuole solamente uscire e andarsene. Tornare a una vita normale, riavere la propria libertà e dimenticare quel lungo incubo senza fine.

Non sa da quanto tempo si trovi lì. Ha ormai perso da un po’ il conto dei giorni: si sono mescolati alle lacrime silenziose, al dolore e alla confusione di cui talvolta la sua mente cade preda. A volte teme di non riuscire a ritornare lucido, altre lo spera.

Potrebbe essere lì da qualche settimana, oppure da mesi interi, o persino anni. Nella sua minuscola, spoglia stanza, non ha uno specchio in cui guardare lo scorrere del tempo sul suo corpo. C’è solo un letto con una coperta troppo sottile per proteggerlo dal vento che spiffera dalla finestra con le sbarre. Come in un carcere. Guarda i giorni rincorrersi da quel piccolo spiraglio verso il mondo esterno, guarda il sole sorgere e tramontare, e poi di nuovo sorgere e tramontare, ma non sa più dare un significato a quei fenomeni.

Si sfiora i capelli secchi e appiccicati e può sentire che sono cresciuti, che si sono allungati, e allora sa che davvero il tempo sta continuando ad avanzare, che ciò che riesce a vedere fuori dalla finestra è reale e che non lo sta immaginando. Allora chiude gli occhi e pensa, lascia che ricordi indefiniti gli sfiorino la mente: non riesce più a ricordare la sua voce, e persino i tratti del suo volto si stanno facendo sempre più sfocati e confusi, fuggono come ombre sul fare della sera, sbiadiscono come vecchie foto dimenticate. Forse domani non sarà più in grado di rievocare l’immagine dei suoi occhi, delle sue labbra o dei suoi gesti sempre posati e misurati. Forse domani non ricorderà più neppure il suo nome. Ma il tocco caldo della sua mano, quello non potrà mai dimenticarlo. Non importa quanto male gli facciano, non importa quanto possano ripetergli che è malato, che è un abominio e una vergogna, quelle dita che gli sfiorano delicatamente e dolcemente il viso rimangono segni indelebili nella sua mente, così vividi che sembrano reali. Non riesce a cancellarle.

Non può e non vuole.

Continua a tenere gli occhi chiusi, perché è più facile sopravvivere, a Campo di Girasoli, se non si vede ciò che c’è intorno. Il tempo sembra scorrere più in fretta e ci si può persino illudere che sia tutto un incubo, un malvagio scherzo della mente.

Sa che ci sono altre persone come lui, a volte le sente lamentarsi e piangere, sente le loro voci flebili correre lungo il corridoio, oltre la porta sbarrata e chiusa a chiave, e allora si sente meno solo. Comprende il loro dolore, perché è uguale al suo e lo rinfranca, in un modo che è perverso tanto quanto ciò che è costretto a subire. A volte vorrebbe rispondere a quei lamenti, vorrebbe parlare come farebbe qualsiasi persona normale, ma non osa schiudere le labbra secche e assetate, non osa fare nulla. Rimane con gli occhi chiusi e la fronte appoggiata sulle ginocchia. Rimane fermo, rannicchiato sul letto, in attesa che lo vengano di nuovo a prendere, per plagiarlo, per plasmarlo a loro immagine e somiglianza, come dèi folli e distorti.

Qualche volta, invece, capita che il coraggio e la disperazione abbiano la meglio su di lui, e allora si tira in piedi sul letto, con le ossa che scricchiolano per l’umidità, e cerca di raggiungere la piccola finestra: è talmente in alto che si deve mettere sulle punte, anche se lui non è poi così basso. Si aggrappa alle sbarre con le mani e tira su la testa: se è fortunato, trova il sole a indorare una distesa di girasoli che si estende fin dove il suo occhio riesce a vedere, e poi si perde, lontano, altrove. Il campo, bellissimo e raggiante, dà il nome a quella struttura che lo tiene prigioniero, e che si vuole far credere un luogo bello e accogliente: un’illusione alla quale ha ceduto anche lui, all’inizio.

Il giorno in cui è arrivato, ha trovato ad attenderlo una costruzione in mattoni rosa, con una strada acciottolata che si srotolava in mezzo a girasoli dai gambi alti e dai petali gialli e vellutati. Ha pensato che non voleva trovarsi lì, ma che fosse un bel posto e che forse le cose sarebbero andate meglio di quanto aveva immaginato e sperato.

Ha compreso presto quanto si sbagliasse.

Dentro, Campo di Girasoli è tetro e marcio come un cadavere in decomposizione: le pareti sono spoglie, fredde e grigie; le stanze, piccole e anguste, fanno mancare l’aria e sembrano divenire sempre più strette ogni giorno; il personale che dovrebbe occuparsi della loro rieducazione si comporta in modo crudele e spietato. Tutto quello che accade appare così spaventoso da sembrare surreale.

Campo di Girasoli è tanto bella fuori quanto terribile dentro, come la casa di marzapane di Hansel e Gretel.

I suoi genitori ne erano al corrente, quando hanno deciso di mandarlo lì dopo aver scoperto che è un ragazzo a cui piacciono altri ragazzi, dopo averlo portato via da lui? A volte non può fare a meno di chiederselo, e diventa sempre più difficile pensare che no, non ne sapevano proprio nulla, e anche loro sono stati ingannati dal ridente campo di girasoli e dagl’innocenti mattoni rosa. Diventa sempre più difficile credere che non lo abbiano odiato, che non abbiano provato ribrezzo nel guardarlo, nell’aiutarlo a preparare i bagagli e nell’affidarlo a mani sconosciute, perché lo aiutassero a diventare normale.

Diventa sempre più difficile crede a qualsiasi cosa, persino che uscirà mai da lì. Dopo tutto questo tempo - quanto tempo? - e dopo tutto ciò che gli hanno fatto, non crede di essere in grado di guarire. Non crede neppure di essere davvero malato, anche se è un dubbio che gli hanno instillato nella mente goccia dopo goccia, e che ogni tanto si fa strada in lui, aprendo una voragine di confusione e sofferenza.

Non è malato, eppure lo è, perché ciò che fa è sbagliato, contro natura, terribile. È una creatura immonda, che ama in maniera distorta, che trae piacere dalle fonti sbagliate, che è inadatta. Ignobile. Perversa.

Glielo ripetono sempre, glielo ripetono in continuazione: quando vengono a prenderlo, quando gli fanno del male, quando lo trascinano di nuovo nella sua stanza. Sono parole che lo corrodono, che gli s’infilano tra le costole, rompono le ossa e fanno sanguinare. Sono parole che scavano nel cervello come tarli crudeli e gli fanno dolere la testa, lo fanno dubitare di se stesso, di ciò che è sempre stato. Di quello che vuole essere.

Sono parole indelebili, che continuano ad aleggiare e che fanno più male di tutto ciò che deve subire. Fanno più male delle bruciature da elettroshock sull’inguine e sulle mani. Fanno più male dei farmaci che lo obbligano a ingoiare, per indurlo a vomitare davanti all’immagine di due uomini che si baciano. Fanno più male delle loro percosse, del modo in cui lo costringono alle attenzioni di una donna, pretendendo che si ecciti. Fanno più male dei digiuni prolungati, dei lunghi giorni in cui non gli è mai concesso uscire dalla sua stanza, per punirlo di non essere come lo vorrebbero.

Fanno male più di qualsiasi altra cosa, perché lo umiliano, lo fanno sentire sbagliato e inadatto. Deludente. Traviato. Gli fanno pensare che sia quello il motivo per cui la sua famiglia lo abbia abbandonato, per cui abbia deciso di rinchiuderlo in quell’inferno silenzioso. Gli fanno quasi credere che permettersi di amare lui sia stato un errore, che si sarebbe dovuto limitare a guardarlo in silenzio, tenendo il segreto dei suoi sentimenti ben custodito dentro di sé, fingendo che non esistesse; gli fanno quasi credere che avrebbe dovuto inventarsi di essere qualcun altro, la copia distorta di se stesso, per essere adatto alle aspettative della sua famiglia, a ciò che i suoi genitori immaginavano che fosse.

Così non sarebbe mai finito a Campo di Girasoli, un luogo che di bello ha solamente il nome. E ciò che sta fuori. Dentro, è solo vuoto, solitudine e disperazione.

Ha più volte provato a convincersi che i suoi aguzzini abbiano in realtà ragione, ha provato più volte ad assecondarli. Ha cercato di guardare i corpi nudi e sinuosi di donne che gli mostrano in continuazione, per trovarvi qualcosa che possa piacergli; ha provato a non trovare attraenti i fisici scolpiti e altrettanto nudi degli uomini. Ha tentato di fingere di esserne in grado. Ma il suo corpo non sa mentire e a loro non si può nascondere nulla.

Così sa che la sua prigionia, a Campo di Girasoli, è eterna. Sa che non lo lasceranno mai andare, perché lui non è in grado di dare loro ciò che vogliono. Non è in grado di guarire. È inadatto alla società, un pericoloso deviato da isolare e tentare di recuperare. O lasciar morire lentamente.

E lui si sente sempre più affamato e debole ogni giorno che passa. La sua mente è sempre più stanca e vessata, persa in nebbie di ricordi dai quali è sempre più difficile riemergere. Forse, un giorno non ci riuscirà più. Lo spera spesso, soprattutto quando la realtà si fa spietata e crudele, e le mani dei suoi aguzzini lo afferrano con forza e lo conducono nella stanza dove lo attendono ore di torture.

Lo spera spesso, ma non accade mai.

La sua mente riesce sempre a riemergere, a tornare lucida, e allora non restano altro che lamenti sommessi, dolore e solitudine. E un campo di girasoli, fuori, proprio oltre la parete grigia, eppure così irraggiungibile da sembrare un miraggio che si può solo contemplare, dal minuscolo rettangolo della finestra.

Non resta altro, se non chiudere gli occhi e percepire la sua mano calda che gli sfiora il viso, come se fosse davvero lì. E sentire la bile che gli riempie la bocca e i tremori che gli scuotono le membra, come quando la scossa dell’elettroshock gli attraversa i muscoli e li irrigidisce.

Chissà se lui lo ha dimenticato, oppure se si chiede dove sia finito. Chissà se lo ha cercato, se ha saputo che è stato mandato a Campo di Girasoli, per guarire. Chissà se pure lui si trova qui, a condividere il suo stesso, triste destino qualche cella più in là, senza neppure saperlo.

Chissà se anche lui chiude gli occhi e sente ancora il suo viso sotto le dita, chissà se ricorda la sua voce, il colore dei suoi occhi, il modo in cui ride, oppure se sia divenuto un ricordo sbiadito, un fantasma lontano, il riverbero di qualcosa di perduto.

Non conosce la risposta a questi quesiti che lo tormentano e probabilmente non potrà conoscerla mai. Perché è bloccato qui, dimenticato, gettato via come si fa con le cose vecchie e logore, sgradite. È sospeso in uno spazio sempre uguale, in un tempo che passa senza che sappia rendersene davvero conto.

È imprigionato e prigioniero, con questi ricordi che non sono altro che attimi, istanti che continua a intrappolare tra le ciglia abbassate, dietro le palpebre serrate, nel disperato tentativo di non lasciarli dissolvere, svanire, perdersi.

Ricordi vaghi e lontani, che lo fanno sorridere e gli fanno male e gl’inumidiscono gli occhi arrosati e stanchi.

A volte si chiede se abbia mai davvero vissuto tutto quello che rammenta, se lui sia mai davvero esistito, oppure se non sia altro che una costruzione della sua mente disperata, una lotta silenziosa a quella rieducazione forzata.

A volte si chiede molte cose e dubita di tutto. Allora chiude gli occhi e si aggrappa alla sensazione tiepida di quella mano che lo sfiora. Sa che, se sollevasse le palpebre, non troverebbe nessuno seduto accanto a lui, ad accarezzarlo. Perciò non lo fa. Resta immobile, piegato su se stesso, e immagina e pensa e ricorda.

Siede nella sua gabbia, che fuori è dorata come i girasoli che la circondano, ma dentro è fatta di ferro e sangue. Siede al centro di ciò che resta di lui, di tutto quello che tentano in continuazione di strappargli via, senza riuscirci.

Raccoglie con mani tremanti brandelli di se stesso, tenta di rimettere insieme i pezzi. A volte ci riesce, altre - la maggior parte - invece no. Allora si sente perduto, tremendamente solo, e non gli resta altro se non cercare di sopravvivere, un istante alla volta. E la sua mano calda che gli sfiora il viso. Come se fosse davvero lì.

  
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