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Autore: Shireith    01/12/2020    2 recensioni
Una volta una bambina testarda l’aveva trascinato in una clinica per farsi medicare e da quel giorno la sua vita era cambiata. Aveva conosciuto la dottoressa Miyano, tanto cara e tanto buona, il cui semplice sorriso gli scaldava il cuore come mille candele – ma poi quella dottoressa era scomparsa e su quel cuore s’era aperta una crepa impossibile da riparare.
Questa storia ha partecipato al Contest Autunno 2020 indetto dallo staff del DCFS forum.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Rei Furuya, Tooru Amuro, Vermouth
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia ha partecipato al Contest Autunno 2020 indetto dallo staff del DCFS forum.


Il bambino dietro l’uomo


 «Faccio io, Azusa.»
 Sfoggiò il tipico sorriso falsamente bonario che, quando Azusa si fu voltata, gli scivolò dal viso come lavato via dall’acqua. Al suo posto subentrò un’espressione grave che Amuro rivolse alla donna appena sedutasi al bancone.
 Vermouth piegò un angolo della bocca all’insù in un sorriso divertito. «Sei bravissimo a recitare, quasi più di me. Quasi
 Amuro sospirò. Agguantò un bicchiere e finse di lucidarlo. «Che cosa ci fai qui, Vermouth? Travestita in quel modo, per di più.»
 «Non ti piace il mio look?»
 Lui non rispose.
 «È per Gin.»
 Ad Amuro non piacque udire quel nome. «Che cosa vuole Gin di tanto urgente da condurti al Poirot
 «Sta inseguendo un uomo. Non so chi sia né perché, non mi interessa saperlo. So solo che lavora in zona e viene spesso qui.»
 «Nome?»
 «Misao Shibata. Ti è familiare?»
 Amuro ricorse alla sua buona memoria. «Alto circa un metro e ottanta, capelli neri portati molto corti, cicatrice sulla guancia sinistra?»
 Vermouth fece filtrare un mmh di apprezzamento tra le labbra socchiuse. «È il nostro uomo.»
 «Nostro
 «Gin ha affidato il lavoro noioso a noi.»
 Amuro non rispose. Vermouth non prendeva ordini da nessuno che non fosse il Boss, tantomeno da Gin. Se aveva accettato di stanare quell’uomo per conto suo doveva esserci qualcosa sotto.
 Scoccò un’occhiata furtiva ad Azusa. «Il mio turno finisce tra dieci minuti», disse a mezza voce. «Aspettami sul retro.»
 
 Vermouth fece viaggiare lo sguardo al di là del parabrezza e lo posò sull’uomo dall’altra parte della strada: la luce dei lampioni ne bagnò il profilo mentre attraversava e Vermouth non ebbe più dubbi.
 «È stato fin troppo facile.»
 «Noioso, addirittura.» Bourbon osservò Shibata sparire dietro un vicolo. Tornò a guardare Vermouth. «Che cos’hai davvero in mente?»
 La fermezza del suo tono non la turbò minimamente. Sorrise, anzi.
 Vermouth aveva un sorriso per tutto e tutti e quello era il più tipico; carico di malizia, ti faceva credere che lei fosse in possesso di informazioni capaci di distruggerti in un soffio.
 Quella donna sembrava una bomba pronta a esplodere in qualsiasi momento e Amuro non sapeva se sarebbe riuscito a contenerla.
 Non la temeva, aveva imparato a non farlo. Lo infastidiva, però. E poteva anche metterlo a disagio.
 La vide piegarsi in avanti ed estrarre una busta di stoffa verdognola da sotto il sedile del passeggero. Si liberò dell’involucro senza troppe cerimonie e gli mostrò una pistola – quando fosse finita lì Amuro non lo sapeva, ma sapeva che era stata Vermouth in persona a metterla.
 Ora capiva perché indossasse i guanti.
 «Vuoi fare un dispetto a Gin e uccidere quell’uomo al posto suo?»
 «No. Sarai tu a farlo.»
 Il sorriso gli cadde dalle labbra. «Cosa?»
 «Ordini di Gin. Vuole testare la tua lealtà.»
 Amuro schioccò la lingua e si trattenne a stento dal tirare un pugno al cruscotto.
 Testare la sua lealtà – come no.
 Inspirò a fondo, concedendo al silenzio svariati secondi durante i quali riordinò le idee. Non aveva scelta, lo sapeva.
 «La pistola non serve. Non sono così idiota da farlo stasera, sarebbe una missione suicida.»
 Un ragionamento asciutto e inattaccabile: tipico di Bourbon.
 Senza replicare, Vermouth sorrise.
 
 Amuro pedinò Shibata per quasi una settimana e tutte le informazioni che raccolse servirono a tracciare un profilo dettagliato del soggetto. Era un tipo abitudinario e svolgeva da più di dieci anni la professione di medico. Non aveva moglie né figli, viveva da solo in una casa in periferia fin troppo grande per una persona sola, ma Shibata guadagnava bene e non disdegnava la comodità.
 Era il candidato perfetto per un’eliminazione pulita e veloce.
 Amuro aveva pianificato tutto in modo da mascherare l’omicidio come una rapina finita male. Sapeva come muoversi e non sarebbe stato difficile per lui depistare le indagini inscenando un furto mai successo.
 
 La sera del settimo giorno, seguì Shibata fino a casa sua e lo vide entrare.
Sarebbe stato un lavoro pulito, si ripeté mentre si avvicinava furtivo e s’introduceva nell’abitazione passando per una finestra del piano terra.
 Il primo intoppo, non pianificato né prevedibile, fu non trovare Shibata in casa. La luce in salotto era accesa, ma di lui non c’era traccia.
 Amuro si diresse in cucina, più silenzioso di un serpente. Si appiattì contro il muro e tese di poco il capo in avanti per controllare, ma di nuovo non ebbe fortuna. Dopo uno studio più attento notò che la porta che dava sul retro era aperta.
 «Signore?»
 Il sangue gli si raggelò nelle vene e il corpo sembrò più rigido di una statua. Solo dopo un attimo Amuro riuscì a reagire e, voltatosi, incontrò una bambina che lo osservava da sottinsù con grandi occhi nocciola. Non sembrava spaventata, solo sorpresa. O meglio, curiosa.
 «Sei un amico dello zio, signore?»
 Zio. Shibata aveva una nipote?
 Amuro s’inginocchiò di fronte alla bambina ed esibì il sorriso più falso che riuscì a recuperare sul momento. «Sì, sono un amico di Misao.»
 Il nome dello zio pronunciato dalle sue labbra sembrò convincere ancora di più la bambina che si abbandonò a un lungo ooohh! di assenso.
 «Non è in casa?» domandò Amuro.
 «No, è andato a comprarmi la cena. Non aveva quello che piace a me.»
 «Capisco. E quando tornerà?»
 «Ha detto tra mezz’ora. Il supermercato aperto la sera è lontano. Sei qui per farmi compagnia, signore?»
 Prima che Amuro potesse rispondere, la bambina lo afferrò per una mano e lo trascinò verso il divano.
 Fingendosi tranquillo, Amuro analizzò la situazione. Una bambina era un bell’imprevisto. Non poteva coinvolgere anche lei, non aveva colpe. Gin non avrebbe ragionato così, ma lui non era Gin. Sarebbe tornato domani e forse…
 «Conosci lo zio perché sei un suo paziente?»
 «Sì, l’ho conosciuto tempo fa», mentì Amuro. «Mi ha aiutato molto.»
 La bambina annuì. «Anche la mamma dice che è un brav’uomo. Le salverà la vita.»
 «Salvarle la vita?»
 La bambina reclinò il capo e si osservò i piedi. «È molto malata. Lo zio si prende cura di me.»
 Amuro deglutì: cominciava a capire. «Come ti chiami, piccola?»
 «Rin.»
 «Tuo zio non è zio di sangue, vero?»
 Rin scosse energicamente la testa. «No, però non mi importa! Lui mi vuole bene, si prende cura di me anche se non siamo parenti. Tu non hai qualcuno così, signore?»
Un tempo sì.
 La piccola Rin era simile al piccolo Rei d’un tempo e quando lui lo realizzò fece male: un dolore psicologico e fisico, come un pugno dritto al cuore.
 Una volta una bambina testarda l’aveva trascinato in una clinica per farsi medicare e da quel giorno la sua vita era cambiata. Aveva conosciuto la dottoressa Miyano, tanto cara e tanto buona, il cui semplice sorriso gli scaldava il cuore come mille candele – ma poi quella dottoressa era scomparsa e su quel cuore s’era aperta una crepa impossibile da riparare.
 «Guarda, signore!»
 La voce allegra di Rin lo restituì alla realtà. Tornò a guardarla e lei, contentissima, gli mostrò cosa stringeva in una mano.
 «Una collana di perle?» domandò a metà tra il confuso e il divertito.
 «È della mia mamma.»
 La confusione sparì e con essa anche il divertimento.
 Rin non si accorse del suo cambio d’umore. «Mamma dice che è nella nostra famiglia da tanti anni, tutte le donne l’hanno avuta», proseguì. «Me l’ha data il primo giorno che sono venuta dallo zio.»
 Se era appartenuta a tutte le donne della famiglia, generazione dopo generazione, doveva esserci un motivo per cui la madre di Rin gliel’aveva regalata nonostante fosse così piccola. Alle bambine non si regalano collane di perle. Amuro comprese il vero significato di quel gesto, anche se non avrebbe voluto, e si trovò con la bocca arida di parole.
 «È una bella collana», fu tutto quello che riuscì a dire sul momento, mascherando la verità con l’ennesimo sorriso fasullo.
 Poi Rin lo vide alzarsi.
 «Te ne vai, signore?» chiese.
 «Sì, scusami. Ma prima ti propongo un patto. Che ne dici se, quando lo zio torna, non gli dici nulla? Sai, io non sono di Tokyo e lui non sa che sono qui, domani gli farò una bella sorpresa.» Le strizzò un occhio con fare complice. «Mi aiuterai, Rin?»
 Lei annuì convinta. «Sì!»
 Amuro la ringraziò e uscì.
 Abbandonò il posto con aria cupa e la mente piena di pensieri.
 Fino a quel momento aveva accettato di portare a termine la missione senza farsi troppe domande, probabilmente per paura che dettagli di varia natura lo facessero desistere.
 Rin era uno di quei dettagli ed era personale, troppo.
 Rei non avrebbe ceduto alle pretese assurde di Gin, non a queste condizioni.
   
 
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