Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Dryas    01/12/2020    2 recensioni
C’era stato un tempo in cui quell’essere umano custodiva la mia anima tra le dita. Ora, invece, non era che poco più di un estraneo incrociato per strada.
Storia partecipante al "Falling in and out of love" contest indetto da inzaghina.EFP sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Come un albero d’autunno

 

 

“Don’t waste your time

or time will waste you”

Muse, Knights of Cydonia



Era come essere in una bolla. Il cappuccio dell’impermeabile tirato sulla testa a coprirmi gli occhi, il bavero sollevato fin sotto il naso e il respiro che appannava gli occhiali. Camminavo con il passo agitato di chi sta scappando, ma non ce la fa più. Schivavo le persone sul marciapiede e i loro ingombranti ombrelli per puro miracolo. La pioggia battente mi tamburellava sulla testa, sulle spalle, sulle braccia. I piedi infilati in stivaletti economici strizzavano i calzini fradici ad ogni passo, i jeans si erano attaccati come una seconda pelle alle gambe.

La pioggia tamburellava sulla mia testa e mi agitava i pensieri. Come quando si ticchetta sul vetro di un acquario e i pesci all’interno schizzano da tutte le parti. Sapevo che si chiamava panico, – l’avevo riconosciuto quando mi si era contratto il petto – ma dargli un nome non mi aiutava. Ero in una bolla. La pioggia continuava a punirmi lanciandomi gocce sempre più grosse sulla testa e i pesciolini all’interno impazzivano. Provavo ad afferrarne uno, a fermarlo, ma quello scappava, si confondeva in mezzo agli altri, si nascondeva.

Per andare dove poi? Non c’è via di uscita dalla bolla.

Mi fermai. Tutti intorno a me si erano bloccati. Semaforo rosso.

“Merda” pensai. “Mi raggiungerà.”

La pioggia ora tamburellava sugli ombrelli della gente attorno a me. Sgomitavano uno contro l’altro suscitando un frusciare scatenato di poliestere. Non potevo andare avanti – o forse sì, ma in contro a morte certa – e non potevo andare indietro. Non osavo alzare lo sguardo in alto, così guardai in basso. Un collage di foglie veniva fatto a pezzi, si attaccava alle suole delle scarpe, scivolava nei tombini, si decomponeva nelle aiuole. Solo ieri quelle foglie brillavano sui rami degli alberi che avevano dato loro la vita. Il vento le aveva fatte crepitare e scricchiolare fino a che avevano volteggiato lungo il tronco, sfiorandolo in un tenero, ultimo addio.

Cercai l’albero. La pioggia colpì senza pietà le lenti dei miei occhiali. La corteccia scura e il protendersi dei rami verso il cielo – dita scheletriche che lanciano invocazioni silenziose– erano solo ombre nel mio miope campo visivo.

“Che vita – mi dissi – dover ricominciare da capo ogni primavera”.   

Non solo, i suoi rami sarebbero anche stati tagliati per dare direzione al suo sviluppo, gemme sarebbero state rimosse per concentrare l’energia in quelle migliori, parti di lui sarebbero state definite “non idonee” per farlo vivere meglio.

Tutto questo in silenzio. Ma un dolore non è tale se non viene urlato? 

«Non mi riconosci? Sono io.»

Tutti attorno a me se n’erano andati – semaforo verde – ed eravamo rimasti solo io e lui. La pioggia continuava a cadere fitta e il suo ticchettare regolare sull’asfalto mi catapultò a un anno prima, quando ticchettava sul tetto del nostro appartamento mansardato che profumava di nuovo. Dalle finestre entrava una luce dorata che faceva sembrare tutto più intenso. Il cielo stesso pareva di un azzurro spietato. Sullo sfondo si intravedeva il vicino viale di faggi le cui chiome avevano assunto le sfumature di un crepitante focolare. Più vicino una solitaria betulla catturava l’attenzione con il suo tronco bianco e l’intreccio di rami sottili che gettavano una leggera ombra sul prato sottostante. Il pranzo era finito, io stavo tagliuzzando con un coltello la buccia di un mandarino che avevo appena mangiato. Il profumo era sospeso nell’aria insieme alle sue ultime parole.

«Non voglio avere figli.»

Amare è così breve, dimenticare è così lungo*. Il mio autunno stava durando da un anno, da quando un drastico gelo aveva fatto cadere tutte le mie foglie in un sol colpo. Lo stesso gelo mi pervadeva ora guardando quella persona ferma davanti a me. Osservai lo spazio che ci separava e ripensai a quando dormivamo abbracciati. C’era stato un tempo in cui quell’essere umano custodiva la mia anima tra le dita. Ora, invece, non era che poco più di un estraneo incrociato per strada. Eppure rimaneva la stessa persona che mi aveva confidato sogni e confessato paure, che era stata padrona del mio corpo e io del suo. Le sue mani si erano mosse libere sulla mia pelle e le sue labbra avevano baciato i miei seni. C’erano parole, gemiti, silenzi, sussurri, pensieri, desideri che solo lui conosceva. Avevamo unito le nostre vite, la nostra quotidianità, le nostre abitudine e adesso, invece, eravamo destinati ad incontrarci per caso nei pomeriggi d’autunno.

«Ti trovo bene. Come stai? Vivi in questo quartiere?»

Avevamo comprato casa insieme, poi c’era stato il mutuo, il geometra, il muratore, il serramentista, l’imbianchino, il materasso, l’Ikea, la cucina, la camera da letto, il divano, la televisione, il frullatore, il forno, il frigorifero, il phon, l’acqua, il gas, il telefono, internet, il giardiniere, la residenza, la convivenza, le pulizie, il far l’amore, le serie tv, le risate, gli abbracci, le colazioni, i pranzi, le cene, ma tutto si era interrotto alla parola “figli”.

Il giorno in cui capii che guardandolo non vedevo più il mio futuro stavo contemplando una tazza di tè caldo, il pan di stelle che avevo appena inzuppato si spezzò in due e lo stesso successe a me. Da allora sono andata avanti, ma non vivo più. Non riesco a dimenticare quel sogno incompiuto. Mi tiene sveglia di notte con la domanda “cosa ho sbagliato?”, mi fa piangere sotto la doccia, mi tiene incatenata al passato con i suoi “e se …”, mi fa scappare come una ladra sotto una pioggia battente.

Non so come si senta l’albero, ma so per certo che la foglia che non vuole staccarsi deve sentirsi esattamente come me.

«Non ti manca mai la nostra vita?» avrei voluto chiedergli. Invece gli dissi: «Ti trovo bene anche io. Scusami, ma, come vedi, sta diluviando e io non ho l’ombrello. Ci vediamo.»

Svoltai l’angolo e mi rifugiai nel primo locale che incontrai. Dal profumo di caffè e pasticcini capii di essere in una caffetteria. Mi tolsi gli occhiali e li pulii con la manica del maglione. Quando li rimisi dovetti sbattere le palpebre un paio di volte per ambientarmi. Che razza di posto era quello? Le pareti erano ricoperte da orologi di tutti i tipi. Piccoli, grandi, minuscoli, giganti. Si andava dalla pendola della nonna, all’elegante orologio vittoriano, dal cucù a quello con le formule matematiche al posto dei numeri. Ovunque c’erano lancette che si muovevano, secondi che avanzavano, minuti che passavano. Il tempo scorreva e io ero ferma.

Guardai fuori dalla finestra. Anche l’albero era fermo eppure ogni primavera ricominciava, ma prima doveva perdere tutte le sue foglie.

«Hai mai voluto figli?»

Vidi le sue spalle sussultare. Si voltò verso di me con un’espressione indecifrabile. Sorpresa, paura, dispiacere. Non si aspettava che lo rincorressi e non si aspettava quella domanda.

Chissà cosa c’era sulla mia faccia.

«Credevo di sì.»

«E cosa ti ha fatto cambiare idea?»

«Tu. Mi sono reso conto che tu mi bastavi e non volevo cambiare le cose, erano perfette così.»

«Se erano tanto perfette perché non me l’hai mai detto?»

Silenzio.

«Perché non volevo perderti.»

Una folata di vento fece sbandare la pioggia che si mischiò alle lacrime sulle mie guance.

«Mi hai perso comunque» gli dissi, poi me ne andai. Ricordo ancora la pesantezza di quei passi, la fatica che feci ad allontanarmi. Era come opporre resistenza a un magnete. Eppure, più spazio guadagnavo, più avanzare diventava semplice. Un passo, una crepa nella bolla. Più aumentava la distanza, più aumentava la consapevolezza che ci ero riuscita. La bolla, ormai, andava a pezzi. Stavo andando avanti. Quando lo capii, il sollievo che mi travolse fu immenso. Mi tolsi il cappuccio dalla testa, alzai il volto verso il cielo e lasciai che la pioggia battente lavasse via tutto il mio dolore. Ero come un albero d’autunno, privato delle foglie, spoglio ed esposto al vento. Tuttavia, dentro di me scorreva una nuova linfa e mi sentivo più forte. La perdita mi aveva reso più forte e, come un albero d’autunno, sognavo di rifiorire.




*Pablo Neruda


 

Racconto nato un po' di getto e malinconico come può essere l’autunno che spero possa comunque trasmettere qualcosa.
N.B. La caffetteria con le pareti piene di orologi esiste davvero.

 

A presto,

Dryas



   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Dryas