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Autore: Asmodeus    01/12/2020    7 recensioni
Sultanato nasride di Granada, tardo autunno 1491.
L'ultimo sultano di al-Andalus, Boabdil il Piccolo, si trova a dover prendere la decisione più difficile della sua vita.
[Dal testo:]La Luna si rifletteva placida nella grande vasca centrale della fontana, trasformando la gelida acqua cristallina in rivoli di puro argento: essi fluivano giù, dalle bocche spalancate delle statue leonine fino ai vari canaletti di scolo che riempivano l’ampio cortile, rendendo il Patio dei Leoni un luogo dall’atmosfera magica, fuori dal tempo e dalle difficoltà di quella vita sfortunata.
Il palazzo reale era una meraviglia in ogni circostanza, ma di notte acquisiva un’aria ancora più magica e irreale[...]
Il Sultano allungò la mano per sfiorare il finissimo alabastro della fonte, accarezzando il capo gelido del leone pietrificato. Un brivido freddo percorse il suo corpo, una saetta di sventura che si andava ad accumulare a tutte le disgrazie che aveva già dovuto patire nella sua seppur giovane vita.

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Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
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L’Ultimo Sultano


 

«Jamás en mi vida habité un lugar más delicioso que éste y nunca podré encontrar otro que se le iguale»

[Washington Irving, parlando dell'Alhambra]

 

 


La Luna si rifletteva placida nella grande vasca centrale della fontana, trasformando la gelida acqua cristallina in rivoli di puro argento: essi fluivano giù, dalle bocche spalancate delle statue leonine fino ai vari canaletti di scolo che riempivano l’ampio cortile, rendendo il Patio dei Leoni un luogo dall’atmosfera magica, fuori dal tempo e dalle difficoltà di quella vita sfortunata.
Il palazzo reale era una meraviglia in ogni circostanza, ma di notte acquisiva un’aria ancora più magica e irreale: come se, lontano dagli occhi indiscreti della corte, anche le sue pietre e i suoi colonnati prendessero vita, e sussurrassero oscuri presagi alla Luna silenziosa.
Il Sultano allungò la mano per sfiorare il finissimo alabastro della fonte, accarezzando il capo gelido del leone pietrificato. Un brivido freddo percorse il suo corpo, una saetta di sventura che si andava ad accumulare a tutte le disgrazie che aveva già dovuto patire nella sua seppur giovane vita.
L’animale lo fissava con quel suo vacuo sguardo di pietra, perforandogli l’anima e ricordandogli i suoi peccati, compiuti proprio in quel luogo nemmeno un anno prima: il pensiero di quel massacro a volte lo tormentava ancora la notte, togliendogli il poco sonno che gli era rimasto. L’acqua cristallina della fonte improvvisamente tramutata in viscoso icore sanguigno sostituì per un attimo ciò che i suoi occhi realmente vedevano, e per un istante l’immenso patio fu di nuovo pieno di cadaveri e insozzato dal fetore del sangue e del tradimento dei Banū Sarrāj.[1]
Il Sultano fissò con astio la testa dell’animale, ennesimo traditore dei tanti che avevano affossato il suo regno fino a portarlo alla più empia disgrazia.
«Non è una mia colpa, erano traditori! È stata giustizia!» sibilò a denti stretti rivolto alla statua, per poi ritrarre la mano, offeso, e riprendere il suo peregrinare senza meta.

Intorno a lui, il palazzo reale stava dormendo: i pesanti tendaggi, che separavano il cortile interno dagli alloggi privati della sua corte, riempivano gli spazi vuoti tra i colonnati slanciati ed eleganti, dandogli l’impressione di essere rinchiuso in uno spiazzo senza via d’uscite.
Avrebbe voluto spalancare ogni tenda, staccarle dal soffitto e scagliarle a terra, persino bruciarle se fosse stato necessario, pur di riavere un po’ di libertà e respiro – tanto, a breve, gli infedeli li avrebbero comunque abbattuti e bruciati in ogni modo. Ma si trattenne dal compiere gesti sconclusionati: amava alla follia quei tendaggi, così come i marmi e le fontane e i giardini e tutto il resto di quel gioiello che era la sua dimora. Non sarebbe stato lui a distruggere quel gioiello così prezioso.

Al di là delle alte mura del Palazzo, molto fuori città, l’esercito degli infedeli continuava a stringere d’assedio la sua capitale. Dopo quasi un anno di combattimenti tenaci il suo tempo stava per scadere. Gli infedeli avrebbero vinto, e non c’era nulla che lui potesse fare per sovvertire quel risultato.
Anche quella sconfitta sarebbe stata frutto di un tradimento, come ogni sconfitta nella sua vita.
Anni prima, quando era appena salito al trono ed era un guerriero potente, aveva annientato le armate dei Castigliani a Sharqīya[2], facendo prigionieri migliaia di infedeli e distruggendo il loro ridicolo esercito cristiano.
Ma già allora il seme del tradimento aveva germogliato tra i suoi uomini, e gli infedeli si erano vendicati della sua vittoria massacrando il suo miglior generale a Lucerna. Erano arrivati persino a prendere lui, il Sultano, come prigioniero, trattenendolo per quasi quattro anni finché non era stato obbligato ad acconsentire alle richieste del re d’Aragona. Ferdinando gli aveva promesso la libertà e offerto aiuto nel riconquistare la sua Granada, in cambio dell’abbandono di alcuni suoi sudditi ed alleati nelle mani della moglie infedele del re, la regina di Castiglia.
«Anche quello è stato tradimento!»
L’urlo squarciò la trama della notte, e il Sultano si voltò di scatto per cercare la fonte di tali parole. Nel Patio dei Leoni, però, tutto taceva: nessuna anima lo accompagnava in quel vagare solitario all’interno di quel gioiello di reggia, ormai divenuto una prigione dorata. Il Sultano percorse in fretta tutto il perimetro del cortile, le pantofole che lo facevano muovere senza poter essere udito da nessuno. Tese l’orecchio davanti ad ogni tendaggio, cercando di captare il respiro del folle che aveva usato urlare quelle parole: ma al di là dei tessuti udiva solamente il sommesso russare della sua corte. Il Palazzo dormiva, e nel cortile lui era solo. Vi erano solo le teste leonine, che lo fissavano con quegli occhi vacui e perlacei e le bocce spalancate nell’emettere quei rivoli d’argento. Possibile allora che la voce fosse la loro?
«Non è vero!» sibilò all’indirizzo degli animali che sorreggevano la fontana. Il Sultano si avvicinò cauto alle statue, per certificare che non avessero preso vita, acquisendo la parola. «Granada è mia di diritto, per lei avrei pagato qualunque prezzo!» mormorò giustificandosi mentre si accostava sempre più vicino agli animali dalle bocche spalancate: se fossero stati vivi, avrebbe potuto dimostrare a quei messi celesti che ciò che aveva fatto era davvero per un bene superiore.
Il Sultano arrivò a pochi centimetri dagli animali di pietra, trovando conferma della loro permanenza in forma d’alabastro. I leoni non avevano preso vita, quindi non potevano aver parlato. Doveva esserselo immaginato, dopotutto era stanco e provato dalla mancanza di sonno.
L’uomo infelice riprese il suo vagabondare, assillato dai pensieri che lo tenevano sveglio e allontanandosi dagli animali di alabastro e dai loro occhi crudeli.

Il Sultano accarezzò il pregiato marmo delle colonne intarsiate del cortile: la Luna piena nel cielo le illuminava di una luce lattea, e nell’oscurità della notte esse scintillavano come gemme preziose. I versetti delle varie Sure del Corano brillavano come se fossero state scritte sull’argento, invece che intagliate nella pietra, e il Sultano sentì la vicinanza di Allah, Colui che procura l’abbondanza, mentre scorreva con le dita sulle scritte in rilievo.
Granada era sempre stata il tesoro più affascinante del regno di al-Andalus[3], e la Qalʿat al-ḥamrā’ʾ[4] la gemma più preziosa di quel tesoro. Ma presto avrebbe dovuto cedere quel gioiello prezioso ad altri.
La notte incombeva sul suo regno, e nemmeno la Luna più potente avrebbe potuto rischiarare quell’oscurità.
I traditori si erano fatti troppo numerosi, e nemmeno con la forza di Allah, Colui che dà la morte, avrebbe potuto salvare la sua gente. Gli infedeli avevano costruito una vera e propria città-accampamento al di fuori delle mura di Granada, e il loro esercito sterminato li avrebbe presto o tardi sconfitti: o per fame, o per spada, o per artiglieria, il suo popolo avrebbe comunque perso la gemma di al-Andalus, oltre che la vita.
«Te lo meriti, Boabdil[5]! La tua rovina è solo Giustizia che si compie!»
Di nuovo, la voce crudele spezzò il silenzio del patio, gracchiando maligna nell’oscurità, osando persino chiamarlo con nomignolo datogli dagli infedeli.
Il Sultano scattò nuovamente in cerca del colpevole, ma come prima era solo in quella prigione dorata: nessun’altra anima viva lo accompagnava in quella peregrinazione notturna, se non lo sguardo dei leoni di pietra e la fredda luce della Luna.
L’uomo percorse nuovamente il perimetro dal patio, poi di scatto agguantò uno dei tendaggi che separavano il cortile dalle sue stanze e tirò con forza.
Il tessuto si lacerò in alto, cedendo agli strattoni e piombando a terra. L’aria gelida della notte si infilò all’interno dei suoi appartamenti, soffiando sopra al braciere che a fatica provava a riscaldarla e invadendo ogni cosa.
Gli occhi del Sultano lampeggiarono nell’oscurità delle sue stanze, ma non trovarono nemmeno lì dei colpevoli. Il suo servo personale dormiva sul pesante tappeto ai piedi del suo letto, e rabbrividì per il freddo improvviso: ma non vi era nessun altro nella stanza o nel cortile.
«Un trono preso con l’inganno, con l’inganno sarà perso!» urlò ancora la voce misteriosa, stavolta proveniente da sotto di lui.
Boabdil guardò in basso e incontrò le sue dita, che ancora stringevano un lembo dei pesanti tendaggi. Il suo volto sbiancò, e gli occhi si fecero enormi per il terrore nel vedere le sue mani e le braccia, finanche l’intero corpo insozzati di sangue.
Lasciò la presa sul tessuto, facendo un balzo indietro e poi voltandosi per correre verso la fontana contornata dalle statue leonine.
Immerse le braccia fino al gomito dentro alla vasca scintillante, facendo straripare l’acqua ovunque e bagnandosi le pesanti tuniche che lo proteggevano dal freddo. Si sfregò le mani con violenza, urlando una serie di «No…no…NO!» nella notte silenziosa.
Si accorse troppo tardi che non v’era realmente del sangue su di lui, e si ritrasse dalla fontana con gli occhi ancora più sgranati.
Mentre indietreggiava, inciampò sullo strascico delle proprie vesti, e cadde all’indietro ruzzolando sul marmo bianco.
Dei passi si affrettarono sul pavimento ormai ricoperto d’acqua del patio, e il Sultano vide il suo servo fedele accorrere ad assisterlo.
L’uomo si accovacciò per aiutare il suo giovane padrone a rialzarsi, e mormorò domande preoccupate al suo orecchio ormai stanco e provato.
«Zitto!» gli abbaiò lui, moderando il tono della voce mentre sentiva il resto della corte risvegliarsi per tutto quel fracasso da lui provocato. «Sto bene, falli tornare tutti a dormire!» ordinò, e mentre il servo correva dai suoi simili per impartire il comando e riportare tutto sotto controllo, il Sultano zoppicò verso le sue stanze.
Passando vicino ai tendaggi da lui divelti assestò un calcio alla preziosa stoffa ricamata, e imprecò contro sé stesso per essere caduto preda di quei deliri. Qualcuno doveva averlo maledetto, non c’era altra spiegazione per aver ceduto così a delle semplici voci. Ma l’indomani avrebbe preso provvedimenti, e delle teste sarebbero rotolate per quell’affronto.
Il Sultano si appoggiò sul proprio letto, meditando sul da farsi e su chi incolpare per ciò che era successo quella notte, mentre le voci nella sua testa cercavano di tornare all’attacco.

Il suo servo fedele tornò da lui dopo quello che sembrava un tempo infinito, e lo trovò accovacciato davanti al braciere ormai spento, intendo a sondare con lo sguardo le braci moribonde.
«Dormono tutti?» domandò, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.
«Sì, mio re» annuì l’anziano servitore.
Il Sultano allungò il proprio braccio destro, e il servo gli diede una mano a tirarsi in piedi. Si sentiva esausto, come se non dormisse ormai da secoli e avesse cento primavere sulle spalle.
Alzandosi, sussurrò un nuovo, lungo ordine al suo fedelissimo; poi si fece aiutare nello svestire quei panni ancora fradici e nell’indossare le tuniche cerimoniali più belle che aveva.
Quando ebbero finito, il servo fedele fuggì lontano dalle sue stanze, diretto all’esterno della fortezza rossa e latore del messaggio più importante e difficile della sua vita.
Il Sultano invece abbandonò le sue stanze con calma, tornando a guardare la Luna alta e beffarda nel cielo che si rifletteva sui candidi marmi della sua reggia. Attraversò il patio in silenzio, fissando nella mente tutti i particolari possibili, anche le figure odiose dei leoni di alabastro, poi imboccò l’uscita dalla sua residenza privata per raggiungere la sala del trono.
Si sedette sul suo scranno regale, al centro del grande Salone degli Ambasciatori, proprio sotto allo Scranno celeste di Allah, il Potente. L’ampia sala reale era vuota e gelida, ma a lui non importava più molto.
Avrebbe potuto accendere un braciere lui stesso, o per lo meno illuminare la stanza con qualche candela, ma preferì attendere il ritorno del suo servo e godersi la luce della Luna che penetrava nella sala dalle alte mashrabiyya che la dividevano dal mondo esterno. I raggi lattei tingevano tutto di una luce ostile e pallida, riflettendosi sulle gemme incastonate un po’ ovunque e rendendo la muqarnaṣ sul soffitto sempre più simile a un cielo stellato. Poteva godersi quello spettacolo magnifico da solo per un po’, e meditare su ciò che stava per compiere in tranquillità e silenzio.
Il Sultano puntò lo sguardo in alto: il soffitto riproduceva la divisione del cielo in sette parti come voluto da Allah, il Creatore, e i versetti del Corano si dipanavano ovunque declamando lodi eterne a Lui.
Tutto quel salone, anzi, tutto quel complesso palaziale era una dimostrazione della potenza di Allah, l’Immenso, e della ricchezza e della gloria che aveva destinato alla sua casata e alle sue genti. Da lì, per generazioni i suoi avi avevano esercitato il potere assoluto e dominato incontrastati sulle genti di tutta al-Andalus, arricchendo quella terra del sapere delle genti del Profeta e schiacciando gli infedeli e la loro stupidità.
Anche lui aveva fatto lo stesso finché gli era stato permesso, costretto dagli errori dei suoi avi a controllare un territorio sempre più piccolo ma sempre glorioso e splendido. Ormai, però, la situazione richiedeva delle scelte drastiche e non più rimandabili: per preservare ciò che i suoi avi avevano costruito, ma soprattutto per preservare la sua salute e la sua sanità mentale.
Aveva deciso di barattare l’intero Sultanato per la salvezza della città, delle sue genti e della sua famiglia, di cedere il trono pur di avere salva la vita e permettere la sopravvivenza dell’intero complesso e dei suoi tesori.
Si chiese se Allah, Colui che eleva, avrebbe accettato la sua scelta di umiliarsi pur di salvarsi; se avrebbe visto in quel gesto un segno di estrema sottomissione, come vero figlio del Profeta, o se ne avrebbe rilevato un’opera di tradimento, come quelle di suo padre e di suo fratello e di suo zio e…sue.
Sapeva già che sua madre non avrebbe approvato, che le genti di al-Andalus l’avrebbero maledetto e che il suo cuore si sarebbe spezzato abbandonando quel meraviglioso palazzo.
Ma la strada era ormai segnata, e nessuno di loro avrebbe potuto cambiare il destino del Sultanato.
Si trattava solo di scegliere, se uscirne pazzi e morire da martiri, o salvarsi la pelle e permettere alla vita di continuare sotto altra forma.
Pregò Allah, Colui al quale ogni cosa ritorna, per tutto il resto della notte, affinché accettasse questo suo sacrificio e lo apprezzasse.

Quando il suo fedele servo ritornò insieme agli ambasciatori degli infedeli, la Luna aveva già percorso gran parte del suo tragitto nel cielo notturno, e lui era pronto.
Boabdil li accolse con calore e li invitò a sedersi nell’ampio salone, per cominciare le trattative che l’avrebbero reso l’Ultimo Sultano di al-Andalus.
Un’era intera moriva con quella notte, e una nuova alba per il mondo sarebbe di lì a poco sorta.



[1] Secondo la leggenda, l’ultimo Sultano di Granada, Boabdil (Abū ʿAbd Allāh Muḥammad) nel 1491 ordinò l'assassinio dei membri più importanti del clan Banū Sarrāj (conosciuti in spagnolo come Abencerrages), si pensa a causa di una storia d'amore: uno dei Banū Sarrāj venne catturato mentre tentava di scalare le pareti dell'Alhambra per salire dalla sua amante, che era un membro della famiglia reale. Boabdil convocò i membri della famiglia nell'Alhambra, tra la stanza detta appunto "degli Abencerrages" e il Patio dei Leoni, e ordinò ai Zegris (famiglia rivale dei Banū Sarraj ) di massacrarli. Si dice che tale fu la mattanza che la fontana del Patio dei Leoni iniziò a sgorgare sangue. La famiglia dei Banū Sarrāj un decennio prima aveva cospirato contro il padre di Boabdil, Muley Hacén, detronizzandolo e consegnando il regno nelle mani di Boabdil. In seguito, i Banū Sarrāj si allearono con i castigliani, complottando per la caduta del sultanato e tradendo in questo modo Boabdil.

[2] L’ultima vittoria araba contro gli spagnoli, nel marzo del 1483. Le forze del Sultanato di Granada annientarono l’esercito cristiano nei pressi di Axarquia (conosciuta in arabo come Sharqīya), non lontano da Malaga. Nemmeno un mese dopo, i cristiani si vendicarono distruggendo l’esercito di Granada presso Lucena, a causa di un tradimento di un soldato arabo che passò informazioni alle forze castigliane. Il miglior generale granadino, ʿAlī al-ʿAṭṭār, e diversi importanti aristocratici arabi furono uccisi in battaglia, e il Sultano Muhammad XII venne fatto prigioniero. Verrà liberato solo quattro anni dopo in seguito ad un accordo con il re Ferdinando d’Aragona, in cambio della sottomissione del Sultanato alla Castiglia come regno vassallo e all’impegno di non soccorrere la città di Malaga, che i Re Cattolici avevano intenzione di assediare a breve. Le condizioni accettate da Boabdil per la sua liberazione furono le più umilianti mai accettate da un sovrano musulmano di al-Andalus: fu costretto inoltre a promettere di versare un tributo di 14.000 ducati d'oro, liberare i settemila Castigliani prigionieri a Granada e consegnare come ostaggio suo figlio ed erede al trono, il principe Aḥmad.

[3] È il nome che gli arabi diedero alla parte di Penisola Iberica da essi occupata e governata, tra l’VIII e il XV secolo. La presenza araba nella penisola terminò con la presa di Granada e il crollo del Sultanato di Granada, il 2 gennaio 1492. Tale nome è rimasto in seguito per indicare la regione spagnola dell’Andalusia, l’ultima ad essere riconquistata dalla corona spagnola.

[4] Nome arabo per il complesso palaziale dell’Alhambra, la cittadella fortificata (medina) che rende famosa Granada. Il suo nome, in arabo, significa appunto “la (cittadella) Rossa” (al-Ḥamrā), da cui deriva l’attuale nome con cui è conosciuta oggigiorno.

[5] Abū ‘Abd Allāh Muhammad ibn ‘Alī al-Hasan ‘Alī fu l’ultimo Sultano di Granada, dal 1482 al 1483 e poi nuovamente dal 1487 fino al 1492, data di estinzione del Sultanato in seguito al . Ufficialmente noto come Muhammad XII, gli spagnoli lo chiamavano “Boabdil”, riprendendo la pronuncia corrotta di Abū ‘Abd Allāh in dialetto granadino. Era conosciuto anche come “al-Zughbī”, che significa “Re Sfortunato”, così come “il Piccolo”, per la giovane età e per distinguerlo dallo zio Abū ‘Abd Allāh il Vecchio.

 

Note dell'Autore

Questa storia nasce dalla nostalgia che sto provando in questi giorni per un luogo che ha un posto speciale nel mio cuore, ovvero la città di Granada. Due anni fa, in questi giorni, mi trovavo laggiù in Erasmus (come i ricordi di Facebook continuano giornalmente a ricordarmi), e volevo celebrare quella splendida città con una storia che le rendesse giustizia e celebrasse la perla più preziosa dell'Andalusia, ovvero l'Alhambra.

Ho deciso dunque di cogliere l'occasione al volo e di sfruttare questo sentimento di nostalgia per scrivere sulla figura di Boabdil, l'ultimo Sultano di Granada, una figura tragica che, una volta ceduta la città agli spagnoli per mezzo del Trattato di Granada del 1491/92, ha passato il resto della sua vita rimpiangendo le meraviglie della sua città natale. Vorrei ringraziare mystery_koopa e la sua challenge "Riproviamoci" per avermi dato l'ispirazione necessaria per scrivere di questo argomento, nonchè yonoi per avermi fornito, grazie al suo prompt per il contest di Soul_Shine "Prompts, Our Wires", l'idea di ambientare questa storia durante la notte, per sottolineare ancora di più òla drammaticità della situazione e i pensieri tormentati dell'ultimo Sultano di al-Andalus.

Spero che questa storia vi sia piaciuta, e di avervi trasmesso almeno in parte un po' dell'amore che provo per quella perla meravigliosa che è Granada. Grazie a chiunque abbia letto fin qui, e se vi va di lasciare una recensione per farmi sapere che ne pensate di questa storia vi leggerò davvero con gioia. A presto!

 

 

Pacchetto “Oriente”
Ambientazione: Europa Orientale o Paesi Islamici (compresa la Spagna sotto dominazione araba)
Prompt: un gioiello o una pietra preziosa
Obbligo: uno dei protagonisti deve trovarsi in pericolo o prigioniero/a

Prompt: notte (suggerito da yonoi)

   
 
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