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Autore: yonoi    02/12/2020    17 recensioni
Dall'Antico Egitto dei misteriosi tesori sepolcrali e dei defunti più vivi che mai, un amore che attraversa lo scorrere dei secoli senza che sia possibile fare a meno della persona amata.
Questa storia partecipa alla sfida "Prompts, our wires" indetta da Soul Dolmayan su EFP.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità
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Gli innamorati del deserto
 
 

 
“Voi credete nel destino?
 Che persino i poteri del tempo
possano essere alterati per un unico scopo?
 L’uomo più fortunato che calpesta questa terra
 è colui che trova il vero amore.”
 
“Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti”
 
(“Dracula”, regia di Bram Stoker)
 
 

 
Basso Egitto, periodo detto del Nuovo Regno, circa 1549 a. C.
 
Nel deserto il crepuscolo è cosa breve, questione di pochi attimi: il cielo è una tela arancio che s’immerge nell’ombra e poi si fa pesante e sempre più scura. Ricorda i lini che le ragazze portano al fiume in grandi ceste, per poi lavarli accovacciandosi sulle sponde. Occorre reggerle a braccia, quelle stoffe che più s’impregnano e più ti attirano verso il fondo.
La sabbia boccheggia, lasciando andare la calura del giorno. Tra le rocce è già notte, un ciuffo di palme dondola per le prodezze da equilibrista di una scimmia. Poco più in alto, si accende la prima stella.
Non c’è luogo più occhiuto di stelle del deserto. La vastità del luogo, punteggiato di luci, ricorda ai trapassati il palpito della città e il mormorio dei templi, la fragranza che si sprigiona dai piccoli coni di unguenti sul capo delle donne. Con il loro pallore, gli astri sono le luci della città dei morti, là dove resta solo un barlume della vita di prima, una quieta ripetizione di gesti nella penombra.
Nei mesi di caligine dell’estate, più o meno a quest’ora Ty e il suo sposo Meret erano soliti ritirarsi sulla terrazza di casa. Appoggiati alla balaustra, semplicemente vicini, attendevano che il sudore si trasformasse in brezza e poi in sonnolenza. Tacevano così tanto che era possibile udire, attorno e sopra di loro, lo scricchiolio impercettibile degli ingranaggi del mondo.
 

Dopo la morte, Ty e Meret hanno continuato a vivere la quotidianità ombrosa dell’oltretomba, dedicandosi a riordinare le rispettive camere sepolcrali e lo smilzo corredo funebre. Si prendevano cura del loro gatto Myu e accettavano il cibo offerto dai familiari allo scopo di prolungare la loro permanenza nell’aldilà, e anche perché i parenti non ci tenevano affatto a ritrovarseli in giro per casa come fantasmi.
Ogni sera, dopo avere versato nella ciotola di Myu una grassa fetta di carne, Ty prendeva lo specchio, sistemava qua e là le bende d’ordinanza – erano pezze da poveri e mangiate dagli anni, ma Ty a farsi bella ci teneva lo stesso – poi versava una fiala di profumo sulla sua parrucca migliore e usciva a incontrare Meret al chiaro di luna. Similmente a quando erano in vita, i due sposi non avevano altro da raccontarsi se non l’affetto reciproco. Oltre al lavoro da ambulante di lui, ai figli e ai nipoti che avevano moltiplicato la loro radice, Ty e Meret non avevano troppi argomenti da spendere. Parlare della morte finiva per annoiare. E l’amore, si sa, si dice tacendo.  
 

Era andata avanti così per un tempo che non si poteva stabilire – nel Regno dei Morti, del resto, tutto si misura in eternità – finché una notte Meret aveva udito dei rumori provenire dalla cella di Ty. A fargli battere il cuore e sobbalzare le viscere custodite negli appositi vasi d’argilla, era stata l’immagine di Myu con la coda gonfia, i peli che letteralmente foravano la sua fasciatura di piccola mummia e il corpicino spaccato da un fendente netto. La piccola creatura gli correva incontro atterrita. La sua testolina, separata dal corpo, anticipava di un bel pezzo tutto il resto.
Myu non sanguinava, se non altro perché era morto da parecchie eternità. Il suo terrore in ogni caso era reale, presagio ciò che Meret avrebbe scoperto di lì a poco nel sacello della sua sposa.  
Il sarcofago di Ty era stato forzato, la mummia violata alla stessa maniera con cui i ladri di strada assaltavano i passanti nelle strettoie dei vicoli e della notte. Le bende erano state frugate e strappate, ma l’unico gioiello che Ty possedeva, oltre a uno scarabeo dipinto maldestramente dal nipote più piccolo, era solo l’amore coltivato attraverso una vita di pazienza: e poiché l’amore non si compra e nemmeno si ruba, i tombaroli si erano concessi la magra soddisfazione di dar sfogo alla rabbia. Si erano vendicati sulla mummia di Ty recidendole il capo, scagliandolo insieme al suo scarabeo improvvisato nell’angolo più lontano.
Quando Meret era entrato nella camera funeraria, null’altro aveva potuto se non raccattare qua e là i resti del disastro. I ladri, dal canto loro, avendo per esperienza acquisita le orecchie aguzze, in grado di percepire lo scricchiolio di un topo a zonzo tra le dune, se l’erano data a gambe al primo fruscio in lontananza. In ordine sparso dietro alle torce, e alla velocità dettata dall’angoscia.
Meret era rimasto a lungo con il capo di Ty tra le braccia.
Tutt’intorno nel deserto, dall’oasi delle scimmie fino ai confini del grande fiume, la solitudine non era mai stata così grande. Persino Myu a un certo punto smise di strofinarsi contro alle caviglie centenarie del suo padrone e se andò a cercare rifugio nel buio. Così fanno, da sempre, i gatti che sono in procinto di abbandonare questo mondo, e forse anche quello dell’aldilà.
Non avendo altro da fare, né lacrime da versare – morendo si seccavano gli occhi e anche il pianto – Meret restò fedele al consueto appuntamento: solo, tornò a sedere per molte notti e molti secoli di fronte al panorama del deserto stellato.
 

Museo Egizio del Cairo, 2020 d. C.


Il museo era una sequenza di sale ovattate e irte di allarmi. La grossa cassa di legno era stata collocata in un locale ancora più appartato, nell’attesa che il suo occupante seguisse l’iter prescritto di esami, datazione e restauro nel tentativo di penetrare qualche cosa di più riguardo a quell’esistenza di venti secoli prima, di cui lo stesso Meret, decrepito ormai persino nella morte, non ricordava più niente. Durante gli accertamenti a cui fu sottoposto, il venditore ambulante di fichi e datteri Meret Amun – così lo presentava il cartiglio apposto sul suo primo e unico sarcofago – si comportò in tutto da paziente modello. Per l’età accumulata e il lutto subito nel tempo della morte, Meret era forse un po’ rimbambito. Oltre al cervello già da tempo in poltiglia e in gran parte polverizzato in un vasetto, stava iniziando a perdere letteralmente i pezzi e – cosa ancor più grave – lo spirito. Si reggeva in piedi a stento. Per poter camminare gli sarebbe occorsa quella stampella che in vita aveva sempre rifiutato e che ora gli archeologi avevano stivato in chissà quale altra cassa, insieme alle stoviglie del suo lavoro di ambulante e agli ultimi datteri rimasti invenduti.
Il museo era poco distante dal deserto. Di notte, dalle finestre entrava un vento struggente, il mormorio dei canneti, la fragranza dei fiori di loto che si aprivano nelle anse del Nilo.  
Chiuso nella sua teca, Meret respirava quell’essenza umida e viva e recuperava il vigore dei suoi primi anni di sepoltura.  
Ma prima della notte c’era sempre il crepuscolo. Prima che dal deserto arrivasse il buio con il suo corteo di stelle, il tramonto s’impregnava dei coni profumati che Ty era solita porre in cima alla sua acconciatura, affinché l’unguento, sciogliendosi, la rivestisse come una divinità. Era la fragranza del loto, in particolare, a segnalare in maniera inconfondibile la sua presenza: il fiore che s’innalza sopra al disfacimento sempre candido e fiero, e non presta attenzione né al fango né al caimano in agguato, ma sempre si slancia con il suo stelo esile verso l’alto.
Quella sera, nell’intimità della sua bacheca sottovuoto, Meret fu colto da un’intuizione improvvisa. Nell’aria depurata e sintetica del museo, l’impronta olfattiva di Ty era come un richiamo che diceva “per di qua”. La presenza del proprio corpo protetto nella teca permise allo spirito del vecchio ambulante di levarsi e, pur reggendosi a stento, di avventurarsi lungo i corridoi e le sale.
Non dovette, in realtà, percorrere un lungo tratto. Appena girato l’angolo, s’imbatté in un’altra vetrina che custodiva la mummia di una donna dai lunghi capelli, recuperata da un lungo lavoro di restauro fino a una bellezza così ringiovanita che lì per lì Meret faticò a riconoscerla. Finché il piccolo Myu non si svincolò dalla presa che gli archeologi avevano modellato attorno a lui usando una delle lunghe braccia di Ty, rinsecchite dal tempo e dalla nostalgia. Myu scivolò dalla teca, simile a un buffo riccio di puro spirito, e attaccò a fare le fusa.  
“Amata Ty,” disse allora Meret, “la traccia del tuo loto mi ha condotto fino a te. Vieni, è giunto il tempo in cui ritrovarsi e fare silenzio assieme.”
 

L’ora di chiusura è passata da un pezzo e l’eternità è dalla loro parte – forse lo è sempre stata. Affacciati a una delle finestre già in ombra dell’edificio, Ty e Meret attendono che anche questa sera, come quattromila anni fa, il crepuscolo scenda a coricarsi sul Nilo.   
Alle spalle dei due sposi, una decorazione percorre le pareti, la replica di un boschetto di papiri e di canne, l’immancabile loto e una scritta in geroglifici: Siamo fiori all’inferno che, nonostante il caldo, mastichiamo il cielo e qualche nuvola.
“Che vuol dire inferno?” domanda Ty, che non sa leggere e teme che neppure Meret sia in grado di farlo, avendo gli occhi ormai stanchi di molti secoli.  
“Dev’essere un luogo afoso come il deserto,” si lambicca Meret. “O forse si tratta del luogo dove vivono i morti secondo la gente di qui.”
“Se è questo, è un posto bello.”
“Se ci sei tu, è bello.”
Il piccolo Myu si strofina contro le vecchie gambe dei suoi proprietari, e la pensa evidentemente alla stessa maniera.
 
 

 
  
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