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Autore: TuttaColpaDelCielo    03/12/2020    2 recensioni
È una casa vecchia, di fantasmi e scale che scricchiolano, sospiri tra lenzuola fredde. L’odore di polvere la prende alla gola quando lei entra ed è solo per questo che piange. Lei è giovane, ma i fantasmi e i sospiri li ha dentro comunque, e qualcosa scricchiola e si spezza dentro di lei quando si toglie la giacca nel freddo di novembre e sull’appendiabiti scopre un cappotto.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In paese c’è una casa con le imposte chiuse. Se ne sta lì al ciglio della strada, appena dopo la curva, dove l’asfalto lascia il posto al pendio ripido che lascia il posto al vuoto. Dalla finestra del soggiorno si vede la montagna scura, dall’altra parte della valle, e aria limpida nel salto che c’è tra il paese e la conca scavata dal torrente. Sarebbe una bella vista, se le imposte fossero aperte, ma sono dipinte di una vernice blu che ormai viene via a scaglie, e sempre chiuse.
È una casa vecchia, di fantasmi e scale che scricchiolano, sospiri tra lenzuola fredde. L’odore di polvere la prende alla gola quando lei entra ed è solo per questo che piange. Lei è giovane, ma i fantasmi e i sospiri li ha dentro comunque, e qualcosa scricchiola e si spezza dentro di lei quando si toglie la giacca nel freddo di novembre e sull’appendiabiti scopre un cappotto.
Ci sono cassetti pieni di vestaglie e tarme, ragnatele agli angoli, e lei lascia il cappotto e posa la valigia, sale le scale scricchiolanti piano piano, e c’è una stanza buia con un letto che è vuoto da molto tempo. Preme un interruttore: non succede niente. Sdraiata tra polvere e buio, tenere gli occhi aperti è come averli chiusi e lei può dipingersi quello che vuole sulle palpebre.
I fantasmi bisbigliano tra le lenzuola.
 
.
 
La casa adesso ha le imposte aperte, ancora scrostate di blu. Lei vorrebbe riverniciarle ma respirare quella roba non le farebbe bene, e allora si lascia andare al passatempo distorto di quand’era bambina: insinua l’unghia sotto una scheggia e stacca la vernice a grosse chiazze, rabbrividendo di piacere. La noia le fa molta compagnia quando guarda la curva della strada, la montagna e il vuoto.
Giocherebbe a contare le macchine rosse che passano, ma di macchine ne passano tre in tutta la giornata: una è la Punto bianca del panettiere, le altre due sono Citroen grigie di cui non sa nulla. S’immagina un intero club di appassionati di Citroen grigie nel paese accanto.
La sera arriva in una sfilata di fanali che risalgono su per la valle, verso case con le luci accese dietro le finestre e ombre tra quelle luci, che si muovono e parlano e si voltano a sentire il suono di un motore nel vialetto, un passo conosciuto sulle scale. Nel silenzio e nell’attesa, la memoria riecheggia di una porta che si apre; ma l’aria si fa prima rossa e poi grigia, poi nera, scolorita appena dai lampioni, e la porta resta chiusa. Dovrà far riattaccare la corrente, pensa lei. Il gas. Accendere il camino. Il suo respiro disegna nuvolette nell’aria, aloni lievi sui vetri, e il domani prende la forma di ciocchi di legna impilati uno sull’altro, profumati di bosco e d’inverno.
 
.
 
Come quando fuori piove.
Se lo ripete a bassa voce mentre le nuvole scendono e la nebbia sale, inghiottendo le imposte scrostate di blu e il paese che sonnecchia, silenzioso. Novembre sfuma esangue verso dicembre e scompare la montagna, scompare il vuoto in mezzo, resta solo il bianco e il picchiettio alla finestra – e dietro la finestra la luce, e lei che è un’ombra e si muove, e non attende nessuno che rientri la sera, no; ma comunque. Comunque. Come quando fuori piove, cantilena infantile, c’era un tavolo scuro con le gambe scricchiolanti e un centrino bianco di pizzo, c’erano voci che il tempo ha zittito e continuano a colorarle la testa di lampadine gialle e scoppiettii di legna, fruscii di carte mescolate. Perché le torna in mente adesso? Non ha avuto una bella mano a questo giro, per niente, ma gioca comunque: e tra le dita sfoglia incubi e lividi, vergogna rovente e un futuro che le sfarfalla dentro. Gioca comunque e appende tende alle finestre, toglie ragnatele dagli angoli, e nel sibilo azzurro del gas mette a scaldare la minestra per cena. È passata dal panettiere, la mattina: nel sacchetto c’è ancora odore di forno e tepore.
Quando sale le scale, lentamente, faticosamente, preme un interruttore: clic. La luce si accende. Si raggomitola sotto le coperte e ascolta la pioggia e i fantasmi, fruscii e sospiri che le riecheggiano dentro, buio e acqua e non essere sola.
 
.
 
Lui la trova alla prima neve dell’anno.
L’odore è inconfondibile, si fa strada bagnato e cristallino quando lei spalanca le finestre, come una promessa. La luce, fuori, è tersa e brillante: sospesa. Dentro, il fuoco crepita e quel domani immaginato diventa un oggi di ciocchi gettati nel camino e valigie chiuse in soffitta. Lei respira nuvolette bianche e cammina tra scatole mezze vuote mentre gli oggetti, piano piano, trovano posto: pentole negli armadietti, vestiti puliti dentro i cassetti. Una cesta di vimini robusta, con un nastro bianco legato ai manici e l’angolo di un lavoro a maglia che spunta, tutto onde morbide e punti leggeri, da mezza stagione. Piano piano lei fruga negli scatoloni, nelle borse piene di cose che sono state di altri e adesso possono essere sue, se lo vuole, e riempire la sua casa vuota, la sua vita piena di buio e promesse.
La voce si è sparsa in paese: sono stati generosi, tutti. Forse la ricordano da quando era bambina, o forse hanno anche loro tante cose di cui liberarsi, e non è generosità, quella, ma sollievo di scaricare un peso. Forse hanno anche loro vuoti e assenze e le riempiono con la nostalgia di quel che è stato. Di quel che sarebbe potuto essere.
Lui la trova così, nell’odore di armadi vecchi e di inverno, quando lei apre la porta.
Ciao, le bisbiglia, e la guarda e la riguarda, come se fosse stupito, lui, di trovarsela davanti. Le si rizzano tutti i peli sulle braccia – sarà l’aria fredda. Il respiro sospeso e un sussulto tra le viscere.
Entra, risponde lei. Fa freddo fuori.
Sull’appendiabiti c’è una sciarpa di lana e una giacca troppo larga, di due taglie più grande, che qualcuno aveva regalato al prete del paese e che il prete del paese le ha portato la settimana scorsa, insieme a un borsone pieno di cose soffici e calde. Il cappotto vecchio è ancora lì: lui lo sfiora piano quando appende il proprio, e sembra esitare. Intuire, forse. O forse no.
Sei sparita, sospira lui sopra il cigolio della porta accostata. È un’accusa, ma non suona arrabbiata. Solo amara.
Volevo stare sola, gli risponde dandogli le spalle, e chiude le finestre con un colpo secco. La domanda resta inespressa.
Sei scappata.
E allora?
Lui si guarda attorno. Camino acceso e scatole mezze vuote, mezze piene di passato e speranze. Roba da buttare. Qualcosa da tenere, lì in mezzo, se si cerca bene: qualcosa di prezioso. La nostalgia del futuro e ricordi che sono come schegge infilate sottopelle. Dolgono.
Non pensavo tornassi qui, le dice. Parliamone. Ti prego.
Lei siede sul davanzale interno e respira quell’aria che sa ancora di cristallo. Lui le si siede accanto, cautamente, come se temesse di essere scacciato; ma lei non lo scaccia. C’è l’inverno, fuori. La montagna e il vuoto.
Dentro, due respiri e il battito di un cuore che riecheggia.
Non devi farlo da sola, bisbiglia lui. Non devi essere sola. Non per forza.
Lei ride, cattiva: e con chi? Con te?
Lui lascia che sia il silenzio a riempire i vuoti. Non c’è bisogno di raccontare. Lei non avrebbe comunque le parole, perché gli incubi sono sangue e urla rimaste in gola, ombre sulle palpebre. Un dolore lacerante e inesausto. Indescrivibile.
Ho scelto, bisbiglia invece lei, ed è una voce fragile e fredda. Ho scelto io, e ho scelto questo – e basta.
Non voglio farti cambiare idea.
E allora perché sei qui?
Piano, cautamente, lui le sfiora la mano. Ha le dita calde. Lei freme, ma non si ritrae.
Perché – e quella carezza spezza qualcosa, in lei – non devi essere sola, se non vuoi. Te l’ho detto.
Io…
Lei appoggia la fronte al vetro e chiude gli occhi forte, ricacciando giù un sapore amaro, nauseante. Lui le lascia la mano.
Non è tuo, gli sibila. Crudele; fragilissima.
Lo so. E quindi?
Lei sospira e non risponde.
Me ne vado, se vuoi. E quella non è una minaccia: è la delicatezza con cui si maneggia il cristallo.
Lei riapre gli occhi e guarda fuori. Lui la guarda, fisso.
No, gli risponde infine, piano piano, senza incrociare i suoi occhi. No. Resta.
Ci sono scatole mezze vuote per tutta la casa, e fantasmi e sussurri, e una culla di vimini vuota. C’è buio amniotico e luce, un cuore che batte. La mano di lui è lieve e calda sulla sua pancia tonda.
Resto.
Fuori nevica.
Nascerà in primavera.
   
 
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