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Autore: _Lightning_    05/12/2020    2 recensioni
«Si dice che si nutrano di sogni. Qualunque cosa voglia dire.»
«Non intendo rimanere qui abbastanza a lungo da scoprirlo,» rispose Din, seccamente.
Cara smise di trafficare con la fondina del suo blaster e alzò lo sguardo, vedendolo fermo sul bordo della rampa d'uscita della Crest, come se fosse riluttante a mettere piede sul suolo muschioso e umido di Varchas. Il Bambino emise un flebile richiamo dal suo scomparto.
«Cos'ha che non va questo pianeta?»
Din soppresse un sospiro.
«Non mi piace e basta.» Avanzò all'esterno, gli stivali che affondavano nel sottobosco scuro e molle. «Chiamalo un presentimento.»

[CaraDin (slow-burn) // Mando&BabyYoda // Mild Horror // Angst // Hurt/Comfort // Whump]
Genere: Dark, Horror, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Baby Yoda/Il Bambino, Carasynthia Dune, Din Djarin, Yoda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales of Two Space Warriors and Their Green Womprat'
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Quando guardi l’Abisso

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5. La Torre di Luce (II)




«Oh, andiamo,» sbottò tra i denti Cara quando imboccarono l’ennesimo vicolo cieco.

Nessuna porta, nessun passaggio che ne giustificassero anche solo lontanamente l’esistenza: solo un muro spoglio a segnarne l’apparente fine. Era persino difficile capire se fosse davvero un vicolo cieco, perché l’ambra, così lucida da sembrare uno specchio, distorceva forme e distanze. Dovettero arrivare a toccare la parete di fondo, per assicurarsi che fosse davvero chiusa.

«Dovrei passare alla visione termica, almeno riuscirei a vedere qualcosa,» si lamentò in modo insolitamente sarcastico Din, suonando frustrato mentre riprendeva a ingegnarsi coi comandi dell’elmo. Liberò infine un sospiro sollevato. «Bene, ora va meglio: adesso vedo in bianco e nero.»

Cara indicò l’elmo, bramando un qualsiasi apparecchio che attenuasse il bagliore. «Ne hai uno in più?»

«Non in vendita,» rispose lui piattamente, ma percepì un
’ironia tesa dietro quelle parole.

Stavano battibeccando molto più del solito, e ne erano ben consapevoli. Ma il silenzio era troppo opprimente, e avvolgeva la loro mente in una luce dorata e scintillante. Sembrava quasi vivo, premeva contro i loro timpani come se volesse perforarli. Oltre quel muro, riusciva ancora a sentire quello snervante ronzio – il che non era d’aiuto. Stava persino diventando più forte.

Cercò d’ignorarlo come aveva fatto finora, ma dopo poco iniziò a pulsarle la testa ad ogni battito, con la pressione che cresceva dietro ai suoi timpani come se fosse sott
’acqua. Si portò una mano alla tempia, massaggiandola, ma quella sensazione non si attenuò. Nel giro di pochi minuti, poté quasi sentire il suo cranio vibrare sotto lo scalpo. Una marea di nausea le sollevò lo stomaco, e dovette trattenere un conato.

«Possiamo fermarci un attimo?» proruppe, senza calibrare appieno le parole. Il suo stesso respiro le raschiava nelle orecchie.

Din si voltò all’istante, allarmato.

«Stai bene?»

«Sì, ma sono disidratata,» mentì, sperando in cuor suo che fosse davvero quello, il problema.

«Anche a me farebbe bene un sorso d’acqua,» annuì Din, senza distogliere di un centimetro il visore da lei. «Troviamo un posto più riparato,» aggiunse, accennando al corridoio che stavano percorrendo: troppo esposto da entrambi i lati.

Se qualcuno avesse deciso di coglierli di sorpresa li avrebbe stretti in una morsa. Si era aspettata di trovare molta più sicurezza, ma non c’era la minima traccia di esseri viventi, là dentro. Voleva vederla come una buona notizia, ma la rendeva solo più sospettosa.

Si fermarono nell’ennesima stanza vuota, affacciata su quello stesso corridoio. Era squadrata, con più pareti di quante fossero congeniali, e un complesso intarsio floreale correva nell'interstizio tra esse e il soffitto. Quest'ultimo era decorato da profondi cassettoni esagonali, che le diedero ancor più la sensazione di essere ingabbiata in un favo di miele. Quello da cui erano entrati era l’unico ingresso, come sempre privo di porta, e si posizionarono nell’angolo più lontano, in modo da tenerlo sott’occhio.

Cara evitò di poggiarsi al muro, così come Din, cercando istintivamente di limitare il più possibile i contatti con quel luogo da incubo. Afferrò la borraccia e ingollò un po’ d’acqua quasi a forza, non avvertendo alcuna sete. Le bruciò la gola come alcol e soffocò un colpo di tosse, fingendo che le fosse semplicemente andata di traverso. Magari era davvero disidratata? Provò a bere più lentamente, a piccoli sorsi, e il bruciore si attenuò un poco.

Din la osservava attentamente, fingendo di non farlo pur emanando preoccupazione e nervosismo da ogni poro, di beskar o meno. Bevve anche lui dalla propria fiaschetta; aveva un’imboccatura peculiare, ritorta e simile a una cannuccia, in modo da scivolare sotto l’elmo e permettergli di bere senza doverlo rimuovere del tutto. Cara distolse rapida lo sguardo, coi riflessi rallentati, ma intravide comunque la linea del suo mento quando sollevò il bordo metallico. Ma il solo fatto che si fidasse a compiere in sua presenza manovre che coinvolgessero l’elmo lasciava intendere che non fosse un problema, almeno finché non l’avesse guardato di proposito.

Aveva ammorbidito un poco le sue restrizioni, nel corso di quei mesi, anche se seguiva ancora ligiamente i dettami del suo Credo. Ma vivere in uno spazio angusto come la Crest portava inevitabilmente a dei compromessi: la privacy scarseggiava, a meno di non chiudersi nello scomparto della brandina o nella cabina di pilotaggio. Avevano ormai instaurato una routine abbastanza solida, e non aveva mai avvertito segni d
’insofferenza da parte sua, né si era mai trovata a doverne esternare lei stessa.

Si concesse di soffermarsi su quei pensieri: erano rassicuranti, e magari sarebbero serviti a placale il tambureggiare insalubre e irregolare del suo cuore. Ormai la Razor Crest era per lei una casa, e Din e il Bambino una sorta di famiglia acquisita. Cercò di figurarsi la nave, e il momento in cui vi avrebbero rimesso piede per lasciare quel pianeta, ma la sua testa continuava a pulsare, inframezzando i suoi pensieri di stilettate dolorose. Il mondo attorno a lei si faceva più appannato ad ogni pulsazione.

Din le offrì la fiaschetta, ma se ne accorse solo quando gliela mise direttamente sotto al naso, quando captò una zaffata d’alcol fruttato – il tipico tihaal Mandaloriano. Lo rifiutò, ritenendo che la sua mente fosse già abbastanza confusa. Si morse l’interno della guancia, nello stesso punto che aveva tormentato poco prima. Tutto ciò non era normale. Non era mai ansiosa durante le missioni, non importava quanto fossero pericolose: la paura della morte era solo un mezzo per preservare la propria vita, non una forza abbastanza potente da dettare i suoi pensieri o azioni.

Socchiuse gli occhi. Inspira. Tre battiti. Espira. Come su Endor – prima dei combattimenti... ecco quando la paura minacciava di prendere il timone e spedirla incontro alla morte – come così tanti suoi compagni.

Si irrigidì, ordinando alla propria mente di sradicarsi da quei pensieri. Prese un altro, breve sorso d’acqua. Fece una smorfia, sentendo bruciare lo stomaco, e per un istante pensò di aver inavvertitamente accettato il tihaal. Si premette distrattamente una mano sul ventre, cercando di attenuare quello che doveva essere un crampo nervoso. 

Si paralizzò quando le sue dita incontrarono una chiazza umida e tiepida sul tessuto. Era incollato alla pelle. Abbassò lo sguardo e la sua gola si serrò in un moto di disorientato terrore. Le sue dita erano macchiate di rosso, e una pozza vermiglia si allargava sul lucido pavimento ambrato.

Cara annaspò. Stava sanguinando. Un taglio– no, una ferita– uno squarcio le attraversava l’addome da parte a parte. Vedeva il rosso vivo della sua stessa carne, e il baluginio viscido, rivoltante delle interiora. Riuscì solo a sbarrare gli occhi, pietrificata, finché un gemito, acuto e involontario, non le sfuggì dalle labbra quando il dolore fuoriuscì dalla ferita, propagandosi nel resto del corpo – incandescente, affilato come una vibrolama che le tranciava le carni.

«Cara?»

La voce di Din le arrivò oltre un muro d’acqua scarlatta, troppo occupata a comprimere la ferita con entrambe le mani, tremanti; sentì le viscere cedere e muoversi sotto allo squarcio, orribilmente profondo, da cui continuavano a fuoriuscire ondate di sangue. Si piegò in due, stroncata dal dolore, e la sua bocca cessò di funzionare, riuscendo solo a emettere respiri rapidi e striduli.

Si sentì precipitare, e la sua vista si appannò di aloni nerastri. Com’era successo? Come era– era impossibile, come– stava bene, stava bene– ma non importava, non importava perché stava morendo dissanguata. Lo sentiva, sentiva la ferita che le prosciugava ogni energia; la vita scorreva via da lei in flutti rapidi, impregnando i suoi vestiti di un rosso profondo. Un formicolio asfissiante le strizzò le membra, come insetti che le zampettavano sottopelle.

Alzò gli occhi annebbiati su Din, in cerca d’aiuto – aiuto– qualunque cosa potesse far cessare quell’incubo – e lo distinse appena oltre il drappo rosso che le oscurava la vista: era puntellato su una mano, ancora seduto, e l’altra si posò distante sulla sua schiena. Non si mosse.

Cara sentì il sangue invaderle la bocca. Perché non faceva qualcosa? Non vedeva che stava morendo?
Tentò di allungare una mano verso di lui, ma il suo corpo cedette e lei collassò riversa a terra, scossa da deboli spasmi mentre tentava di non sfaldarsi, di trattenere dentro di sé i visceri che minacciavano di fuggire via assieme al sangue.

«Cara!» 

Il grido si abbatté contro i suoi timpani, distorto dal vocoder e dal rombo nelle sue orecchie, e lo percepì inginocchiarsi accanto a lei, a pochi centimetri dalla pozza vermiglia che continuava ad allargarsi. 

«Cara? Cara! Che succede? Ehi, guardami!» 

Mani guantate la scossero improvvisamente per le spalle e il dolore la pugnalò con più ferocia, come colpi di blaster esplosi nel suo ventre distrutto.

«... –fai male,» riuscì a esalare, anche se fu quasi un urlo per i suoi polmoni ansimanti. Inspirò una boccata di sangue e annaspò in cerca d’aria.

Gli scossoni cessarono all’istante, ma la stretta sulle sue spalle rimase dov’era. «Non c’è nulla, Cara. Mi senti? Stai bene, va tutto bene.»

Tacque, e la stretta aumentò. Cara si trovò a desiderare che continuasse a parlare: si sentiva scivolare via assieme al proprio sangue, che continuava a riversarsi sul pavimento ambrato in un torrente denso. Le ginocchia di Din ne erano già fradicie, e percepiva la propria stessa guancia immersa in quel liquido ferrigno che le saturava le narici.

Cessò di dibattersi, troppo debole per percepire ancora i propri arti. Sciami d’insetti brulicavano addosso a lei, dentro di lei, banchettando con le sue carni – api inferocite le ronzavano nel cranio. In uno sprazzo di vitalità, cercò a tentoni la mano di Din, stritolandogli le dita viscide di sangue. Tenne l’altra sulla ferita, come se potesse davvero fermare l’emorragia e ritardare la sua fine.

«Non sei ferita. Mi senti? Non sei ferita, non è reale. Non è reale, è solo–»

«È reale,» quasi singhiozzò lei, mentre un’altra vampata di fiamme si addensava nel suo addome, bruciando e carbonizzando muscoli e ossa. Ricordava ancora quanto avesse fatto male, all’epoca– e adesso ancor di più, le mozzava il respiro a colpi d’ascia.

«Cara, ascoltami: non è reale,» quasi gridò Din, mandando una scarica statica a infrangersi contro l’elmo. E continuò a parlare, ma ormai sentiva solo echi distanti che le rimbombavano in testa, e la stretta sempre più lontana del guanto sul suo palmo.

«È reale–»

«Dove?»

«La pancia– si è riaperta– la ferita è aperta–» balbettò sconnessa, col terrore che le paralizzava la lingua.

Non riusciva a pensare, tutto ciò che percepiva era quello squarcio spalancato nel suo ventre che le spaccava carne e organi, strappandola in due. E poi sentì la mano di Din che le premeva direttamente sulla ferita.

Le sfuggì un guaito di dolore dalle labbra aride e sentì gli occhi sbarrarsi, offuscati. Perché le stava facendo male, perché stava– continuò a toccarle l’addome a pezzi, incurante della sua sofferenza, finché– per un attimo, per la frazione di un secondo, non avvertì la propria pelle integra, intatta, che cedeva normalmente a quella lieve pressione. La sensazione svanì, sostituita dagli orli slabbrati dello squarcio che si allargavano, deformati dal movimento– e poi eccola di nuovo: la semplice sensazione del guanto posato sul suo corpo illeso.

Si dimenò, riuscendo ad aggrapparsi con ogni fibra della sua volontà a quella flebile, rassicurante sensazione, e premette entrambe le mani su quella di Din, percependo un misto caotico di sangue e pelle intatta e cuoio temprato e carni dilaniate. Sentiva la sua voce metallica echeggiare in sottofondo, ormai indistinguibile, ma si concentrò sul suo semplice, costante ritmo e timbro calmante, che sembrò tenerla a galla in quell’oceano rossastro. Stava riemergendo, una bracciata alla volta.

Le ondate di dolore si ritrassero lentamente, un respiro alla volta, e lei si arrischiò a girarsi a stento sulla schiena. Oltre una patina di lacrime, distinse il visore impassibile, eppure preoccupato a morte del suo compagno, ora chino su di lei. Chiuse all’istante gli occhi, colta da un nugolo di vertigini, e una mano corse a sorreggerle la nuca, l’altra ancora premuta fermamente sulla ferita. Non-ferita. Ferita fantasma.

Il sangue non scomparve. Lo sentiva inzuppare il tessuto, ribollire fuori da quello squarcio inesistente e trapelare attraverso le dita di entrambi. Parve passare un millennio di agonia, prima che i suoi polpastrelli riprendessero a tastare unicamente il guanto in cuoio di Din e il tessuto sottostante, intatto.

Il dolore orbitò dentro di lei, strizzandole i visceri, prima di assestare un ultima puntura lancinante, da mozzare il fiato, e squagliarsi nei recessi della sua mente senza lasciare tracce, se non brividi e sudore. Rilasciò un respiro di stremato sollievo e socchiuse le palpebre, incontrando il visore a T di Din, ancora immobile e statuario.

Sentiva i capelli appiccicati al volto, fradici di lacrime e sudore, e si scostò tremante una ciocca dalla guancia, trovandola pulita, priva di sangue. Fece leva sul braccio di Din e si tirò cautamente su a sedere, accettando il suo sostegno pur evitando attivamente di guardarlo. Lui si scostò subito dopo, lasciandole spazio per respirare, anche se quelli che immettevano aria nei suoi polmoni erano più simili a rantoli.

Si piantò un palmo sulla bocca, cercando di sopprimere i brividi che ancora la scuotevano, e percepì i guanti di Din sfregarle le braccia scoperte, cercando di trasmetterle un po’ di calore: la sua pelle era ghiacciata, nonostante si sentisse febbricitante. Lo lasciò fare, troppo frastornata per riuscire a fermarlo o sottrarsi, accettando anzi di buon grado quel gesto calmante. Si sentiva un’idiota, adesso – una bambina che non era riuscita a svegliarsi da un incubo, non una guerriera temprata dalle battaglie.

«È finita?» le chiese infine Din a bassa voce, un misto di tensione e sollievo. 

Era chiaro che stesse cercando il suo sguardo oltre l’elmo. Lei si limitò ad annuire, evitandolo e respirando profondamente dal naso.

Din annuì di rimando, ancora in ginocchio di fronte a lei, adesso con entrambi i palmi piantati contro le placche in beskar sulle cosce. Esitò un istante, prima di armeggiare con la bandoliera e tenderle di nuovo la fiaschetta di tihaal. Stavolta lei la accettò di buon grado, anche se quasi le sfuggì di mano, le dita ancora molli per lo shock. Buttò giù un piccolo sorso, percependo il liquido corroborante che le infiammava la gola, in modo molto diverso dall’incendio che le era divampato in corpo poco prima.

Riconobbe poi il sapore fruttato oltre l’alcool, una nota appena percettibile ma familiare: pesche di Alderaan. Scoccò un’occhiata a Din, ancora inginocchiato e intento a fissarla, e riuscì a rivolgergli il fantasma di un sorriso. Non aveva idea di dove le avesse recuperate, ma al momento era semplicemente riconoscente per il lieve soffio di sicurezza che riuscì a infonderle quel semplice dettaglio. Prese un altro piccolo sorso di casa, prima di restituirgli la fiaschetta. Din aspettò qualche secondo prima di parlare di nuovo:

«Cosa è successo?»

Stavolta lei scosse la testa, detergendosi la fronte madida con un polso. «Ero... ferita. All’improvviso, senza motivo. Sembrava reale. Davvero reale. Sentivo di nuovo la ferita.»

Come su Endor, non disse. Era sottinteso: Din sapeva che aveva sfiorato la morte in quella foresta dimenticata dalla Forza, anche se non gli aveva mai raccontato i dettagli. Ma sull’addome portava ancora una cicatrice seghettata a testimonianza della vibrolama di un assaltatore che l’aveva quasi sventrata, e adesso pulsava come se gliel’avessero appena ricucita in quell’ospedale da campo ad anni luce da lì. Fece scivolare una mano sotto alla casacca e alla corazza, percependone il rilievo irregolare: era guarita, completamente rimarginata – solo leggermente calda al tatto.

«Ho capito. Ma intendevo prima di quello. Cos’è successo prima?»

Quella era una domanda ancor più complessa. Si sentiva il cervello ridotto in gelatina. Cosa era successo? Stava bene, più che bene, poi quel mal di testa si era impennato all’improvviso e aveva scaraventato il mondo in un abisso di agonia e paura. 

Un momento. Non del tutto all’improvviso. Il ronzio– il ronzio si era fatto più forte, sempre più forte, poi– alzò di scatto la testa, facendo sobbalzare Din.

«Cosa?»

«Il ronzio... non c’è più,» esitò, realizzando quanto dovesse suonare assurda quella frase. 

Din inclinò di lato la testa, in quel suo modo peculiare di esprimere perplessità, e sembrò reprimere la tentazione di chiederle se avesse anche battuto la testa, oltre a immaginare ferite inesistenti. Non lo avrebbe biasimato, nel caso. 

«Tu lo senti?» gli chiese, con un picco di panico a serrarle la gola al pensiero che potesse cadere anche lui in quel baratro da incubo.

Din scosse la testa. «No. C’è silenzio. In realtà, non sento il minimo rumore da quando siamo entrati qui dentro,» spiegò, parlando più lentamente del solito – non seppe se per dare più forza alle proprie parole o perché temeva che fosse ancora sotto shock.

Comunque fosse, l’ombra della preoccupazione non dovette dissiparsi del tutto dal suo volto, perché lo vide chinare la testa e portare una mano alla tempia, dove sporgevano i comandi esterni dell’impianto auricolare. Girò una delle manopole, probabilmente amplificando la ricezione.

«Non parlare ora, o richi di assordarmii,» la avvertì, sollevando un palmo a frenarla proprio mentre stava per farlo, senza pensare.

Tacque, lasciandolo nel mondo recluso e ricettivo del proprio elmo. Rimase in ascolto per circa mezzo minuto, prima di girare di nuovo la manopola. 

«Nulla. Nemmeno dall’esterno. Pensi che sia stato questo... ronzio a scatenare il tutto?» chiese poi.

Sembrava comprensibilmente confuso, ma apprezzò il fatto che non stesse bollando la sua teoria strampalata come un mero frutto della sua allucinazione.

«Non saprei. È cominciato nella foresta ed è diventato più forte in città, e poi qui dentro. Ma adesso è sparito. Dev’esserci un collegamento.» 

Si interruppe, asciugandosi le mani ancora sudate sulle ginocchia ripiegate. Era conscia del tremito che ancora le scuoteva la voce, e si trovò ad accigliarsi, colma d'inquietudine: stava affrontando qualcosa che non riusciva nemmeno a vedere o nominare, e non avrebbe potuto vincerla a colpi di blaster o superandola in astuzia. Era fuori dalla sua portata. Dopo molti mesi, dopo Sorgan e il senso d’inutilità che l’aveva inseguita da quando aveva lasciato le file Ribelli, dopo aver trovato un senso d
’appartenenza e un obbiettivo, si sentì impotente.

«Non... non capisco,» sbottò frustrata, passandosi una mano tra i capelli e sulla treccia scomposta, furente con se stessa per non essere stata in grado di governare la propria debolezza.

Din prese un respiro profondo, per poi guardarsi attorno, come se si fosse appena ricordato di essere in territorio ostile. Si aspettò di vederlo alzarsi per una perlustrazione rapida, invece si mosse sulle ginocchia e si sedette a gambe incrociate. Sospirò, inclinò la testa in avanti e infine la guardò dritta negli occhi.

«Io sì.»



 



Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
ops, m’è scappato il gore. Quasi-gore, dai. Spero che mi perdonerete per aver fatto scontare un brutto quarto d’ora a Cara, ma Din mica può essere il solo a patire, suvvia!
Scherzi a parte, credo che il rating arancione sia appropriato, ma fatemi sapere in tutta onestà se dovrei passare al rosso: ammetto di sapermi regolare molto male in questo senso, soprattutto in relazione a scene grafiche/violenza, e che fosse per me appiopperei un generico "giallo" a tutto :’)

Cooomunque, state per avere un po’ di risposte a tutto il delirio che avete visto in questi capitoli... o almeno, ne avrete una parte. Sottolineo che la storia ha comunque una matrice che vorrebbe essere Lovecraftiana; quindi l’Indicibile e l’Ignoto sono componenti fondamentali. Non aspettatevi spiegazioni "razionali" nel senso stretto del termine, anche se ovviamente c’è una logica di fondo a governare il tutto ♥

Grazie a tutti voi che continuate a leggere/seguire/commentare questa folle storia!
A prestissimo, qui o altrove,

-Light-
   
 
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