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Autore: Lamy_    07/12/2020    0 recensioni
Durante un temporale Tommy Shelby trova riparo in una tavola calda di Londra che offre i pasti migliori di tutta la città. Qui conosce Judith, giovane studentessa che attira la sua attenzione. L’incontro fra i due segna l’inizio di una bizzarra amicizia.
Ariadne Evans è la sorella di David Evans, il capo della gang dei Blue Lions. Ariadne ritorna a Birmingham per assistere il fratello malato e aiutare la madre a gestire gli affari in via provvisoria. Le cose, però, non vanno come spera lei e una breve visita a casa si trasforma in una trappola. A complicare la situazione è l’attrazione che si instaura fra lei e Tommy. Tra una madre dispotica, un fratello minore che si mette sempre nei guai e una gang che dipende anche da lei, Ariadne impara a sue spese che ribellarsi è l’unica soluzione che ha.
E se Judith e Ariadne fossero la stessa persona?
“Siede arbitro il Caos, con le sue decisioni raddoppia ancora il contrasto per il quale regna; a lui presso governa supremo il Caso.”
(John Milton, Il Paradiso Perduto)
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Thomas Shelby
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1. INFERNO
 
“(…) quella prigione orribile e attorno fiammeggiante,
come una grande fornace, e tuttavia da quelle
fiamme nessuna luce, ma un buio trasparente,
una tenebra nella quale si scorgono visioni di sventura,
regioni di dolore e ombra d’angoscia.”
(John Milton, Il Paradiso Perduto)
 
 
 
Birmingham, 8 anni prima
Ariadne correva a perdifiato. Doveva continuare a correre per non essere inseguita dal rimorso. Le tremavano ancora le mani, aveva il fiatone e le guance avvampate per lo sforzo. Intravide le luci della stazione in lontananza e aumentò il passo, doveva salire su quel treno il prima possibile. Si guardò indietro per assicurarsi che nessuno l’avesse pedinata, non si fidava delle parole di sua madre. Per quanto sapesse che la donna non l’avrebbe tradita, qualcosa in Ariadne le suggeriva che da quel momento in poi poteva fare affidamento solo su se stessa. Acquistò un biglietto di sola andata per Londra, saltò sul treno e sprofondò sui sedili.
Aveva quindici anni e aveva appena commesso il peccato più atroce che un essere umano potesse mai commettere.
 
 
Londra, gennaio 1928.
Judith si riparò dal freddo londinese con il bavero della giacca, sebbene al collo avesse avvolto una pesante sciarpa di lana che lei stessa aveva realizzato all’uncinetto. Il cielo sembrava in fiamme, l’azzurro del giorno era ormai sfumato nel rosso del tramonto ed era striato da grosse nuvole grigie. Sarebbe venuto a piovere presto. A Londra pioveva quasi sempre, e Judith per forza di cose aveva dovuto accettare quella consuetudine meteorologica e comprare un ombrello resistente. Smise di osservare il cielo quando Carl le sfiorò la spalla.
“Ehi, Judith vieni con noi in biblioteca? Abbiamo ancora un’ora prima che chiuda.”
“Non posso. Devo lavorare. E sono anche in ritardo come al solito!”
“D’accordo, vorrà dire che domani ti presterò i miei appunti.” Disse Lisa.
Carl e Lisa erano i colleghi di corso di Judith all’Accademia di Arte. Sin da subito aveva legato con loro perché erano simpatici e sempre gentili, forse ciò dipendeva dal fatto che fossero gemelli.
“Ti ringrazio. Adesso scappo, ci vediamo domani a lezione. Buona serata!”
Judith iniziò a correre verso il quartiere di Westminster per arrivare prima che il suo datore di lavoro la rimproverasse per l’ennesimo ritardo. Era già successo in passato che le detraesse alcuni soldi dallo stipendio come risarcimento per i mancati minuti di lavoro, o almeno così l’uomo voleva giustificarsi. Non era un grande impiego, anzi la ragazza era l’addetta alle pulizie nella tavola calda Mayfair situata proprio di fronte al palazzo del Parlamento. Gli orari e le mansioni erano pesanti, ma Judith doveva pur pagarsi gli studi in qualche modo. Oltre alla tavola calda, dove guadagna abbastanza per comprare libri e materiale artistico, era brava con ago e filo. Da ragazzina aveva seguito un corso di cucito e poi aveva messo a frutto le sue abilità riuscendo così a pagare i costi di una stanza in una piccola pensione. Abitava nel quartiere di Camden Town, in un vecchio palazzo la cui proprietaria era una donna anziana che affittava camere solo a donne nubili e sotto i trenta anni. Era una stanza molto piccola, sufficiente a farci entrare un letto, un modesto armadio, una tinozza e una scrivania. A Judith, però, andava bene. A lei piaceva la sua vita a Londra per quanto umile fosse.
Nel frattempo il vento aveva iniziato a soffiare tanto forte da farle svolazzare il cappotto intorno alle gambe. Per fortuna riconobbe la logora insegna del Mayfair e affrettò il passo per evitare l’acquazzone. Non appena mise piede nel locale, il cielo tuonò e incominciò a piovere.
“Giusto in tempo!” esclamò Ben, ridendo.
Ben era il figlio del proprietario e prendeva le ordinazioni, mentre in cucina a preparare i piatti erano sua madre e le sue sorelle. Il padre, invece, si divertiva ad abbaiare ordini e a lusingare i clienti.
“Sì, giusto in tempo. Tuo padre mi mangerebbe viva se entrassi qui zuppa d’acqua.”
“Questo è sicuro. Dai, mettiti al lavoro prima che mio padre ti faccia la solita ramanzina.”
Judith lasciò le sue cose sul retro, si infilò un vecchio grembiule stracciato qua e là e si legò i capelli con un fermaglio a forma di farfalla che Lisa le aveva regalato per il compleanno. Recuperò gli stracci, il sapone e il secchio e tornò in sala per svolgere le sue faccende.
 
Due ore dopo Judith uscì dalla cucina con un piatto fumante di patate dolci e carote bollite. La madre di Ben le aveva fatto avanzare un po’ di cibo per la cena, quindi si sedette al bancone e affondò la forchetta nella pietanza.
“Hai pulito i bagni?” domandò la voce grossa di Tony, il suo capo.
“Sì, ho pulito i bagni. Potresti dire ai tuoi clienti uomini di fare centro nella tazza del water? Grazie!”
Ben ridacchiò, adorava quelli screzi fra la ragazza e il padre. Tony stava per replicare quando la porta si aprì e lui accorse ad accogliere i nuovi arrivati. Fuori si era scatenato un temporale spaventoso, pioveva a dirotto e il vento frusciava all’impazzata; di certo il giorno dopo avrebbero trovato qualche albero caduto.
“Come sta Dorothy? Tua sorella mi ha detto che partorirà il mese prossimo.”
Ben annuì, era entusiasta di diventare padre nel giro di poco tempo.
“Così sembra. Non abbiamo ancora scelto il nome. Hai suggerimenti?”
“Non Tony, ti supplico. Sono sicura che Dorothy sceglierà il nome perfetto per il vostro bambino.”
“Ragazzina, vieni qui!” rimbombò la voce di Tony.
Judith fu costretta ad abbandonare la sua cena e a voltarsi per svolgere l’ennesima faccenda.
“Che c’è? Stavo cenando!”
“Cosa vuoi che me ne freghi della tua cena? Al tavolo cinque hanno fatto cadere il vino a terra, va subito a pulire.”
La ragazza scosse la testa con uno sbuffo, dopodiché prese lo straccio e si avviò verso il tavolo. Si mise in ginocchio e strofinò sul pavimento per impedire al vino di macchiare le mattonelle in maniera irreparabile.
“Vuoi lucidare un pavimento già lucido?” esordì una voce profonda.
Judith sollevò lo sguardo e rimase senza parole per qualche istante. Quella voce apparteneva ad un uomo dai capelli neri e gli occhi azzurri, ben vestito e con la giacca inumidita dalla pioggia.
“Che dire, al boss piace avere un pavimento lucidissimo.”
“Alzati.”
Judith afferrò la mano che l’uomo le stava tendendo e si mise in piedi, pulendosi le ginocchia dalla polvere.
“Avete bisogno di altro, signor …?”
“Shelby. Thomas Shelby.”
La ragazza fece un cenno del capo, riprese lo straccio e si allontanò in fretta. Tony le vietava di parlare con i clienti per mantenere il decoro, perciò si infilò nello stanzino delle scope per sfuggire agli occhi del signor Shelby. Dopo qualche minuto fu richiamata in cucina per lavare i piatti e lì trascorse gran parte della serata. Intorno alle dieci di sera il locale era quasi vuoto, c’erano solo tre clienti, e Judith colse l’occasione per leggere il libro che Carl le aveva consigliato due settimane prima. Prese posto in un angolo della sala, si avvolse la sciarpa intorno alle spalle e si immerse nella lettura.
“E’ un bel libro?”
Judith sobbalzò quando si accorse di una presenza alle sue spalle.
“Signor Shelby, vi occorre qualcosa?”
“Sto cercando di ammazzare il tempo mentre aspetto che il temporale si calmi.”
“Posso portarvi da bere?”
La ragazza stava per alzarsi quando l’uomo le mise la mano sul gomito per fermarla.
“Sto bene così. Ho voglia di fare due chiacchiere.”
“Potete parlare con Tony oppure con Ben.” Disse lei, timida.
“E non posso parlare con te?”
Il signor Shelby si rilassò sulla sedia, tirò fuori dalla tasca una sigaretta e l’accese. Judith tossì un poco, non era abituata all’odore del tabacco.
“Volete portarmi a letto? Non funziona mai.”
L’uomo le rivolse una mezza occhiata divertita, doveva sembrare ridicola con la mantella sulle spalle e quel grembiule lercio.
“Volevo farti sapere che in bagno ho centrato la tazza del water.”
Questa volta fu Judith a ridacchiare, non si aspettava quella risposta.
“Dovrei ringraziarvi perché avete imparato a urinare alla vostra età?”
“Alla mia età. – sospirò lui – Quanti anni mi dai?”
“Parecchi.” Rispose Judith.
Il signor Shelby scrollò la cenere in un bicchiere vuoto mentre meditava su quella specie di offesa.
“Parecchi, eh? Non ci si rivolge così ad un uomo anziano.”
Judith rise e poi si morse le labbra per non mostrarsi troppo disponibile, del resto non conosceva le intenzioni dell’uomo.
“Preferite che io menta spudoratamente?”
“Preferisco la sincerità.”
Per una frazione di secondo si scambiarono uno sguardo carico di intesa, c’era qualcosa che li attirava l’uno all’altro.
“Il libro è bello. Parla dell’inferno e del paradiso.” Spiegò Judith.
“Come mai una ragazza è attratta da questi argomenti?”
“E’ per motivi di studio. Frequento il corso di belle arti al Chelsea College e quest’anno l’argomento principale è l’inferno. Questo libro mi permette di entrare nel vivo della questione.”
“Quindi tu dipingi?” domandò lui, serio.
“Sì, ma preferisco il disegno. Il modo in cui la mina della matita scorre sulla scarta, il suono, le linee che crea … perdonatemi, vi sto annoiando.”
“Non …”
Il signor Shelby non ebbe modo di parlare perché la ragazza era già in piedi, pronta ad allontanarsi.
“Il mio turno è finito. Vi auguro una buona serata, signore.”
“Aspetta.”
Judith trasalì, la mano dell’uomo ora le stringeva il polso.
“Devo andare.”
“Come ti chiami?”
“Judith Leyster.”
Il signor Shelby ne approfittò per guardarla meglio: aveva i capelli color rame ricci e corti fino alle spalle, due grandi occhi color ambra e una spruzzata di lentiggini sul naso e sulle guance. Il suo profumo era una lieve fragranza di bergamotto.
“A presto, signorina Leyster.”
 
Londra, febbraio 1928.
 
Judith fischiettava mentre si dirigeva verso la biblioteca universitaria. Ogni venerdì mattina si riuniva lì con Carl e Lisa per prendere alcuni libri utili al progetto di arte che stavano preparando. Il professore di pittura e disegno aveva deciso che l’esame finale si sarebbe svolto in maniera creativa: aveva chiesto agli studenti di realizzare un dipinto o un disegno relativi al tema dell’inferno che poi sarebbe stato esposto in una piccola ala che il British Museum metteva a disposizione per giovani artisti emergenti. Lei e i suoi amici avevano pensato che dai libri sarebbe venuta fuori una grande ispirazione, pertanto leggevano qualsiasi cosa avesse a che fare con l’argomento. Lasciatasi alle spalle la metropolitana, fece una breve sosta in panetteria per comprare una brioche da mangiare lungo il tragitto. Non consumava pasti a casa sua, la sua dispensa era vuota a causa degli impegni che la tenevano ora in università e ora alla tavola calda, e perciò era obbligata ad arraffare qualsiasi cosa pur di mangiare. Si girò a salutare un bambino nel passeggino e l’attimo dopo andò a sbattere contro qualcuno. La sua brioche cadde in una pozzanghera e un piccione si avventò su di esso.
“Grandioso! La mia colazione è finita prima di iniziare.” Mormorò la ragazza.
“Judith?”
Judith fece un passo indietro dopo essersi accorta di essere andata addosso al signor Shelby, l’uomo conosciuto un mese fa al Mayfair. Da allora non si erano più visti.
“Signor Shelby, salve. Come mai da queste parti?”
“Sono un politico e ho un incontro in Parlamento. Lo sapresti se la volta scorsa me lo avessi chiesto.”
La ragazza inarcò le sopracciglia a quelle stupide parole.
“Credete che il mondo ruoti attorno a voi?”
“Continui con le offese. Sei una maleducata, Judith.” Replicò lui.
“E voi avete dato la mia colazione in pasto ad un piccione, direi che siamo pari. Beh, buona giornata e buon lavoro.”
“Scappi sempre?”
Judith si voltò a guardarlo con incredulità.
“Ve lo domando di nuovo: volete portarmi a letto? Non funziona!”
Il signor Shelby si mise a ghignare irritando la ragazza e facendole alzare gli occhi al cielo.
“Sei perspicace per essere una cameriera.”
“E voi siete uno stronzo vestito a festa!”
Judith riprese a camminare senza dar corda a quell’uomo, che intanto continuava a fissarla e sorrideva compiaciuto.
 
Quella sera Judith era esausta ancora prima di finire il turno. La tavola calda era piena e il lavoro era triplicato, soprattutto per colpa di Tony che dapprima le ordinava di pulire e poi di servire anche ai tavoli.
“Odio tuo padre.” Sibilò Judith fra i denti.
Era appena uscita dalla cucina dopo aver sgrassato una cinquantina di piatti. Aveva i capelli spettinati, i bordi della camicetta bagnati e i polpastrelli arricciati per colpa dell’acqua.
“Mio padre non è un uomo facile. Mi dispiace.” Le disse Ben, sconsolato.
Judith gli diede una pacca sulla spalla a mo’ di consolazione, lei comprendeva bene il peso di avere un genitore autorevole. La sua espressione si indurì quando fra i clienti intravide un viso conosciuto. Thomas Shelby se ne stava seduto a sorseggiare whiskey e a fumare placidamente. Era da solo, eppure questo non sembrava recargli alcun fastidio. Judith andò da lui con la rabbia che le faceva arrossare le gote.
“Adesso mi piantonate? Siete ridicolo.”
“Non posso bere un whiskey dopo il lavoro? Non sapevo che fossi tu a dettare le regole. Pensavo che tu fossi solo la sguattera.”
Judith rimase ferita ma non lo diede a vedere, cercò di restare impassibile.
“Spero che quel whiskey vi vada di traverso.”
Il signor Shelby si limitò a sollevare il bicchiere e poi a berlo in un colpo solo. La ragazza ritornò in cucina per proseguire con il lavaggio dei bicchieri, però la sua mente continuava a pensare a quell’uomo fastidioso.
 
Londra, marzo 1928.
 
Judith si infilò i guanti e si immise nella strada, Tony l’aveva incaricata di consegnare il pranzo per la segreteria del parlamento e per raggiungere la sede doveva impiegare almeno una decina di minuti. Entrò, si guardò intorno e cercò di capire dove andare. L’ingresso era enorme, un viavai di persone le sfrecciava accanto, tutti mormoravano chissà cosa. Per un momento si sentì in imbarazzo, indossava una gonna logora e macchiata di grasso, i guanti di lana erano consumati e i suoi capelli erano arruffati per colpa del vento.
“Rincorri i diavoli?”
La ragazza riconobbe quella voce al volo. Difatti non rimase sorpresa quando il signor Shelby emerse dall’ombra. I suoi occhi azzurri parevano luccicare sotto la fioca luce del lampadario.
“Sono qui per consegnare il pranzo. Voi lavorate oppure perdete tempo?”
“Tra quindici minuti ho una riunione col partito, però proprio oggi uno dei gemelli ha deciso di staccarsi.”
Judith adocchiò la camicia dell’uomo ed effettivamente l’asola era vuota, l’altro gemello a stento chiudeva la manica destra.
“Volete fare bella figura col partito, eh? Patetico.” Commentò lei, divertita.
“In luoghi come questi l’apparenza è tutto.”
“Voi non siete di Londra, lo capisco dalle vostre mani.”
Thomas si guardò le mani con circospezione, le cicatrici e i calli lo avevano tradito.
“Non sono di Londra, vero. Ho servito nell’esercito anni fa.”
“Anche mio fratello. E’ partito dopo la morte di nostro padre perché era convinto di dare lustro alla famiglia.”
Judith si era smarrita nei ricordi, erano amari e facevano ancora male.
“Tuo fratello è caduto in battaglia?”
“Per fortuna è vivo, ma ha perso la gamba sinistra. Succede quando una granata ti esplode ad un centimetro dal ginocchio. Lui faceva parte dell’aviazione. Voi di cosa vi occupavate?”
“Scavavo i tunnel per assaltare i nemici. Una vera merda.”
Lo sguardo dell’uomo era cupo, ricordare i tempi della guerra era come ricevere mille coltellate ogni volta. Judith decise di cambiare argomento per alleggerire la situazione.
“Posso aggiustare i vostri gemelli?”
“Sei anche una sarta?”
“Devo pur pagare l’affitto in qualche modo. Aspettatemi qui, torno subito.”
La ragazza svolse il suo compito consegnando il pranzo ai destinatari, non voleva che Tony le sottraesse altri soldi da una paga già misera di per sé.
Thomas l’aspettava seduto su una delle tante poltrone all’ingresso.
“Fai la tua magia.” Disse lui.
“Io sono una maga delle asole, vedrete!”
Judith staccò il gemello sano e lo ripose in tasca, si tolse gli orecchini e li infilò nelle asole per poi richiuderle con un colpo secco.
“Hai usato i tuoi orecchini come gemelli. Bella mossa.” Si complimentò Thomas.
“Gli orecchini sono di perle finte ma fanno bella figura lo stesso. Non sono soltanto una sguattera.”
Thomas si sentì in colpa e abbassò lo sguardo per la vergogna, si era comportato male con quella ragazza.
“Chiedo scusa. E’ ovvio che non sei solo una sguattera.”
“Ed è ovvio che a voi il whiskey non sia andato di traverso.”
Judith ridacchiò e per un secondo anche Thomas si lasciò sfuggire un ghigno.
“Purtroppo per te no. Ora devo andare.”
“Adesso siete voi che scappate, signor Shelby.”
Thomas si chinò sull’orecchio della ragazza, sfiorandole il lobo con le labbra.
“Allora tu dimmi dove posso trovarti ancora.”
Judith indietreggiò e sfoggiò un sorriso malizioso.
“Tra un mese esatto vi aspetto al British Museum. Cercatemi.”
 
Londra, aprile 1928.
 
Judith si mordicchiava le pellicine del pollice in preda all’agitazione. Era la sera della mostra: le opere degli studenti del corso di disegno erano stati esposti ed erano stati invitati molti personaggi illustri per un eventuale acquisto. L’opera più acclamata e richiesta avrebbe avuto il voto più alto. La triste verità era che Judith odiava il suo disegno, non era venuto come voleva e il suo progetto iniziale era crollato a causa dei due lavori. Tony alla tavola calda le aveva raddoppiato gli incarichi, ora aiutava anche in cucina poiché una delle figlie era diventata madre; inoltre, la proprietaria della stanza aveva aumentato l’affitto e lei si era messa a cucire anche abiti interi pur di ricavare il denaro necessario.
“Judith, smettila di torturarti. Il tuo disegno è bello.” Disse Lisa.
“Non è vero. E’ orribile, pieno di sbavature e si vedono anche i segni delle cancellature. Tu e Carl, del resto, avete creato dei capolavori. Ugh, vi invidio!”
Lisa sussultò quando il fratello le circondò le spalle col braccio.
“Buonasera, mie signore. Come state? Che ne pensate della mostra?”
I due gemelli avevano gli stessi tratti, zigomi alti e sporgenti, capelli biondissimi e occhi blu come il mare, ma in compenso Lisa era più alta e snella di Carl.
“Penso che prenderò un voto basso. Voi invece avrete il voto più alto, siete stati davvero bravi.” Ammise Judith, afflitta.
Lisa stava per replicare ma la sua attenzione fu catturata da un uomo in particolare che stava ammirando il disegno di Judith.
“Amica mia, penso che tu abbia un ammiratore della tua arte.”
Judith sorrise riconoscendo il profilo del signor Shelby. Indossava gli occhiali da vista e un lungo cappotto nero, ma era inconfondibile la sua presenza.
“Alla fine mi avete trovata.”
L’uomo non distolse gli occhi dal disegno, però inclinò di poco il volto verso di lei.
“Ho seguito la strada che porta all’inferno.” Sussurrò Thomas.
“I diavoli vi hanno condotto da me, signor Shelby.”
L’opera di Judith era un disegno fatto col carboncino su carta bianca e rappresentava due ombre di cui una era accovacciata e l’altra incombeva sopra come se stesse per divorarla. Suscitava un senso di inquietudine misto a dolore e angoscia.
“Cosa c’è di infernale nel tuo disegno?”
Judith si irrigidì, quasi fosse spaventata da quella domanda. Si dondolava sui talloni per non essere costretta a guardare il suo stesso disegno.
“E’ una lotta cruda e violenta per la sopravvivenza.”
Thomas si stupì del tono freddo usato dalla ragazza, di solito era allegra e disposta al dialogo.
“Perché mai una ragazza dovrebbe lottare per sopravvivere?”
Judith gli diede le spalle per un breve istante, poi si voltò e gli sorrise come suo solito.
“Seguitemi, signor Shelby. A vostro rischio e pericolo.”
Camminarono per una ventina di minuti attraverso diverse sezioni del museo, dalla pittura alla scultura, per fermarsi in un’area isolata. Judith aprì un piccolo cancello ed ebbero accesso al giardino. Era uno spazio verde che lei e Carl avevano scoperto per puro caso mentre girovagavano per il museo.
“Vuoi regalarmi un fiore?” domandò Thomas, annoiato.
La ragazza si sedette sulla panchina e gli fece cenno di prende posto, al che lui obbedì. Il profumo di rose era piacevolmente avvolgente.
“Non vi piacciono i fiori?”
“Ti sembro il tipo a cui piacciono i fiori?”
“Siete un uomo misterioso.” Disse Judith con un risolino.
“Mai quanto te. Una ragazza che abita da sola, fa due lavori, studia all’accademia di arte. Che cosa nascondi? Scommetto che ha a che fare col tuo disegno.”
Thomas si accese una sigaretta, ogni suo gesto era controllato e lento mentre fumava. Judith pensò che fosse un ottimo soggetto da disegnare.
“Ho dei segreti e me li porterò nella tomba con me. Immagino che anche voi abbiate dei segreti. Fa parte dell’indole umana.”
“Dov’è tua madre? E tuo fratello?” indagò Thomas.
La ragazza si lisciò le pieghe della gonna e si schiarì la voce, era di nuovo tesa.
“Io sono arrivata a Londra quando avevo quindici anni, da allora me la cavo da sola. Mio fratello maggiore porta avanti gli affari di famiglia e mio fratello minore ciondola tutto il giorno fra le locande. Mia madre … ecco, lei è una dispotica vipera che succhierebbe la linfa vitale dei suoi stessi figli pur di salvarsi.”
“Odi tua madre?”
“E’ mia madre che odia me.” disse Judith, la voce ridotta a un filo.
“Mia madre è morta quando ero giovane e mio padre dubito dopo ha lasciato casa nostra. Io, i miei fratelli e mia sorella siamo cresciuti con nostra zia.”
Per Thomas era strano raccontarsi in quel modo, eppure parlare con Judith era dannatamente facile. Lei non conosceva la sua vera identità, con lei poteva fingere di essere un uomo normale e non un gangster oppresso dai nemici. A Birmingham la vita era soffocante e dolorosa, mentre a Londra era spensierata e anche leggera.
“La famiglia è una gabbia, signor Shelby. Molto meglio l’arte.”
“O il whiskey.” Aggiunse lui.
Judith rise e annuì, era bello scambiare qualche parola con persone che non fossero Lisa, Carl o Ben.
“Si è fatto tardi e devo tornare a casa. E’ stato bello che voi siate venuto. Ho apprezzato il gesto.”
Thomas si avvicinò a lei e le scostò una ciocca di capelli, così da vicino i suoi ricci erano di un rosso intenso.
“Quando posso rivederti?”
“Solo il destino ce lo saprà dire, signor Shelby.”
 
 
Londra, maggio 1928.
 
Judith stiracchiava le braccia mentre si lasciava alle spalle l’università, almeno per le vacanze estive. I corsi si erano chiusi, la biblioteca andava in pausa e gli studenti potevano godersi un po’ di riposo. Lisa prese due mele dalla busta del pranzo e ne offrì una a Judith, che accettò con piacere e addentò il frutto.
“Allora, il tuo uomo misterioso si è fatto vedere ancora?” chiese Lisa.
“Sì. E’ venuto un paio di volte alla tavola calda e abbiamo chiacchierato, ma poi sono sempre arrivati i suoi colleghi ed è andato via.”
“E’ sposato? Ci hai mai fatto caso? Insomma, un uomo di trentanove anni e del suo genere dovrebbe avere una moglie e dei figli.”
Le due amiche si sedettero all’ombra di un albero a pochi metri dai cancelli dell’università.
“Non è sposato, almeno credo. Non ha la fede e non ha neanche il tipico segno bianco.”
Lisa aggrottò le sopracciglia e mordicchio un poco la mela.
“Che cosa sarebbe questo tipico segno bianco?”
“Sherlock Holmes lo dice sempre: il segno bianco sull’anulare indica la presenza di una fede nuziale rimossa da poco tempo. Il signor Shelby non ha quel segno.”
Judith fece spallucce all’espressione sorpresa e interdetta dell’amica.
“Sherlock Holmes, sul serio? Tu leggi troppi libri, Jud. Magari è divorziato o vedovo e per questo non porta la fede da tempo, pertanto il fatidico segno bianco non si vede.”
“Sì, beh, anche questa è una valida ipotesi.”
A Lisa fece tenerezza Judith, a volte la sua mente era troppo immersa nei libri per rendersi conto della realtà.
“Cambiamo discorso, dai. Alla fine hai capito chi ha acquistato il tuo disegno?”
Dopo l’esposizione degli studenti, Lisa e Carl avevano ottenuto i voti più alti e Judith aveva ottenuto un voto più basso ma comunque soddisfacente. La cosa bizzarra era che due giorni dopo la mostra il suo docente le aveva comunicato che il suo disegno era stato acquistato da un anonimo che aveva pagato una bella cifra, la quale era stata impiegata per riparare le finestre rotte della facoltà. Judith aveva indagato ma non aveva trovato il nome dell’acquirente, anche se il pagamento era stato effettuato da una compagnia inglese.
“Non ho saputo nulla. Pare che il pagamento provenga da una grossa e ricca società, però a causa dell’anonimato non mi è permesso sapere altro. L’importante è che qualcuno abbia apprezzato il mio disegno tanto da volerlo comprare.”
“Sei una brava artista, Judith. Un giorno farai grandi cose.” Disse Lisa.
Judith abbozzò un sorriso senza gioia alcuna. Lei sapeva che in campo artistico difficilmente avrebbe avuto un futuro perché su di lei incombeva un’ombra oscura pronta a risucchiarla.
“Ti va di pranzare alla tavola calda? Tony è fuori città e Ben mi fa mangiare gratis.”
“Andiamo!”
 
Londra, maggio 1928, due settimane dopo.
 
Judith canticchiava muovendo i piedi e mani a ritmo di musica mentre si vestiva per andare al Mayfair. Attraverso il grammofono risuonavano le note di ‘Love Me o Leave Me’ cantata da Ruth Etting, una delle canzoni più famose di quell’annata.
“Oh, love me or leave me, let me be lonely. You won’t believe me and I love you only. I’d rather be lonely than happy with somebody else.”
La ragazza fece una giravolta su se stessa fermandosi davanti allo specchio con le mani sui fianchi. In un’altra vita sarebbe potuta essere una grande donna dello spettacolo tra abiti scintillanti e uno stuolo di seguaci adoranti. Mentre rideva da sola al pensiero di stonare come una campana davanti ad un pubblico, prese a squillare il telefono nella sala comune. Soltanto il soggiorno era lo spazio condiviso da tutte le ragazze ospitate nella palazzina, erano le regole imposte dalla proprietaria.
“Signorina Leyster, è per voi!” gridò Maggie dal piano inferiore.
Judith si lanciò di corsa giù per il corridoio, sperava che Ben la chiamasse per dirle che poteva prendersi la serata libera.
“Sono Judith. Pronto?”
“Ariadne.”
Quell’unica parola, pronunciata come fosse una bestemmia, bastò per farla impietrire. La paura si impossessò di lei come un’onda che divora uno scoglio.
“Sì?”
“Devi tornare a casa.”
“No.”
Dall’altra parte si udì un sospiro farcito di cattiveria, anche tramite la cornetta Judith lo avvertiva.
“Torna a Birmingham. Hai una settimana di tempo.”
L’attimo dopo la linea era caduta. La ragazza poggiò la fronte contro la parete fredda e si lasciò bagnare le guance dalle lacrime. Il suo peggior incubo era tornato.
“Judith, stai bene? E’ morto qualcuno?” domandò Joan, la coinquilina più simpatica.
“Va tutto bene.”
Judith si sforzò di sorridere e si asciugò le lacrime, del resto era in ritardo per il lavoro.
 
Alle undici e mezza terminò il turno di Judith. Ben le consegnò la paga mensile e qualche soldo in più di liquidazione poiché la ragazza si era appena licenziata. Abbracciò tutti elargendo raccomandazioni e battute, però il suo cuore era triste all’idea di lasciare quelle persone che da due anni erano un po’ la sua famiglia. Uscì dalla tavola calda senza guardare indietro, gli occhi appannati dalle lacrime e un tremendo nodo alla gola.
“Judith.”
Thomas era lì, appoggiato alla parete mentre fumava. La stava aspettando da chissà quanto.
“Non è serata, signor Shelby.”
Judith si incamminò verso la metropolitana con le mani in tasca e le spalle ingobbite dal peso delle sue emozioni. Thomas l’afferrò per il braccio e la guardò in faccia, aveva gli occhi arrossati e le labbra tremanti.
“Che succede?”
“Devo andare, signor Shelby.”
“Aspetta!”
Thomas rafforzò la presa e Judith si voltò con uno scatto nervoso.
“Lasciatemi andare, per favore.”
“Ti accompagno a casa. E’ buio ed è tardi, non è sicuro per te.”
Judith doveva ammettere che quel ragionamento era giusto, perciò si calmò e annuì. Thomas mollò la morsa e si mise a camminare al suo fianco.
“Che succede, eh? Sei stravolta.”
“E’ inutile intavolare una conversazione. Anzi, è inutile approfondire … qualunque cosa stia accadendo fra di noi. Tra qualche giorno me ne vado.”
“Parti per un viaggio?”
Judith si bloccò e si girò a guardarlo, era sensazionale il contrasto fra gli occhi azzurri e i capelli neri. Ebbe un’idea folle e decise di perseguirla, non aveva nulla da perdere.
“Mi fate compagnia durante una delle mie ultime notti a Londra?”
Thomas fece un passo indietro quando la ragazza gli strinse la mano facendo incastrare le loro dita.
“Perché?”
“Torno a casa mia, dalla mia famiglia. Voglio avere un bel ricordo di questa notte.”
“Fammi strada.”
 
La prima cosa che Thomas notò fu che la stanza di Judith era grande quanto la sua nella vecchia casa degli Shelby a Small Heath. Erano entranti a passo felpato per evitare che le altre abitanti e la proprietaria si accorgessero di loro. Una delle regole impediva alla ragazze di portare uomini all’interno delle loro camere. Judith chiuse la porta a chiave e accese solo un paio di candele per non destare sospetti che fosse ancora sveglia. Joan, infatti, era solita passare a darle la buonanotte prima di andare a dormire, ma quella sera non vide la luce sotto la porta e se ne tornò a letto.
“Prego, sedetevi.” Mormorò Judith.
Thomas si tolse la giacca e si allentò la cravatta, dopodiché si accomodò sul letto della ragazza e si mise a fumare di nuovo.
“Perché devi tornare a casa?”
“Nessuna domanda al riguardo, vi prego. Abbiamo già stabilito che ognuno ha i propri segreti.”
Judith si sistemò ai piedi del letto, si sfilò le scarpe e si sciolse i ricci ramati.
“Tommy. Puoi chiamarmi Tommy come tutti.” Esordì lui.
“Non voglio essere tutti. Io ti chiamerò Tom. Ti piace?”
“Lo detesto.”
Judith fece in tempo a cogliere il piccolo sorriso sulle labbra di Thomas prima che tornassero sulla sigaretta.
“Ventitré. Io ho ventitré anni.”
“E per quale motivo me lo dici?”
Lei si andò a sedere accanto a lui, posando la testa sulla sua spalla e sorridendo.
“Nel caso ti venisse voglia di baciarmi.”
Thomas si morse le labbra per reprimere un ghigno, quella ragazza era una novità ogni volta che la incontrava.
“Quindi secondo te sono il tipo che va in giro a baciare le ragazzine?”
“Se mi reputi una ragazzina, puoi sempre andartene. Nessuno ti trattiene qui.”
Judith gli strizzò il braccio in modo giocoso, era divertente provocarlo. Si distese supina sul letto e incrociò le mani sullo stomaco che brontolava in sottofondo. Quella sera aveva lasciato il Mayfair senza cenare, non avrebbe sopportato gli sguardi sofferenti di Ben e degli altri ancora per molto.
“Vuoi tornare a casa? Ti manca la tua famiglia?”
Thomas stava cercando di capire perché la ragazza dovesse fare ritorno a casa in fretta, aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di losco sotto.
“Ho fame. E tu? In mansarda c’è del cibo. Vieni!” disse Judith, sviando la conversazione.
“Judith …”
“Andiamo, Tom. Non vorrai far morire di fame una ragazzina?”
Thomas si alzò con riluttanza e la seguì lungo una ripida scalinata che portava al piano superiore, una mansarda arredata da mobili ricolmi di cibo.
“E’ qui che tenete le scorte, eh.”
Judith soffocò una risata per non essere sentita e chiuse piano la porta a chiave. La proprietaria aveva il sonno leggero e non osava immaginare cosa sarebbe successo se avesse scoperto l’uomo a girare per casa.
“Posso farti una domanda, Tom?”
“L’hai già fatta.”
La ragazza roteò gli occhi a quell’atteggiamento stoico dell’uomo, la maggior parte del tempo sembrava impassibile alla vita.
“Sei sposato? Te lo chiedo perché la mia amica Lisa crede che tu … ecco, ti stia approfittando di me.”
Thomas si era seduto su una vecchia poltrona sgualcita, le molle sotto la stoffa gli pungevano la schiena. Judith aprì la dispensa e agguantò un pacco di biscotti alla cannella, erano i suoi preferiti.
“Vedi una fede al mio dito?”
“No.”
“Appunto.”
Judith si rese conto che per un secondo Thomas si era guardato l’anulare con la nostalgia stampata negli occhi.
“Tua moglie è morta, vero?”
“Io me ne vado.”
Thomas si alzò come una furia, la mascella serrata e le mani strette a pugno, e si avvicinò alla porta per aprirla e scendere.
“Aspetta! Mi dispiace, Tom!”
Poi accadde tutto velocemente. Judith si issò sulle punte, circondò il collo di Thomas con le mani e lo baciò. Lui dapprima rimase rigido, non si aspettava una cosa simile, ma l’attimo dopo avvolse un braccio intorno alla vita della ragazza per attirarla a sé. Il bacio era lento, desiderato, e soprattutto era dolce. Era una dolcezza che Thomas non provava da tempo, era travolgente e lo istigava ad abbandonarsi. Strinse le mani sui fianchi di Judith e approfondì il contatto fra i loro corpi. Più si baciavano e più si volevano.
“Mi sa che ti ho convinto a restare.” Sussurrò Judith con un sorriso.
“Sai essere molto persuasiva.”
Il sorriso della ragazza si spense quando la mano di Thomas risalì sulla schiena sfiorandole il gancio del reggiseno attraverso il maglioncino. Si staccò di colpo, quasi si fosse bruciata.
“Non posso … io non … non posso.”
Thomas si grattò il mento con fare pensieroso, non sapeva come comportarsi. Era abituato a trattare con donne più grandi e disposte a passare la notte con lui, ma in questo caso la giovane età di Judith era un freno. In quale guaio si era cacciato?
“Forse è meglio che io vada. Devo prendere l’ultimo treno.”
Judith abbassò gli occhi nel totale imbarazzo, prima lo invitava a casa sua e poi si tirava indietro. Ripensò alla voce di sua madre, autoritaria e fredda, e fu invasa dalla vergogna.
“Vorrei trascorrere le notte con te, Tom. Lo vorrei davvero tanto, ma non posso.”
“Hai un fidanzato che ti aspetta?”
“No. Non sono mai stat con nessuno e … domani torno a casa e … e se mia madre scoprisse che non sono più … che non sono più pura … lei … ehm …*”
Thomas capiva bene che la ragazza avesse timore di essere rimproverata dalla madre, perciò sollevò la mano per farla smettere di parlare.
“Ho capito.”
“Però vuoi andartene.” Asserì Judith, sconsolata.
“Judith, che cosa vuoi? Presto sarai di nuovo a casa e Londra sarà un ricordo. Mangia i biscotti, saluta i tuoi amici e va a casa col cuore leggero.”
Thomas era sul punto di fiondarsi giù per le scale, non ne poteva più di quella situazione irreale. Judith, però, era caparbia e gli schiaffeggiò la mano poggiata sulla maniglia.
“Resti con me stanotte? Lo so che non era questo il tuo piano per la serata, però io vorrei passare questa notte a Londra in maniera memorabile.”
Ormai era passata la mezzanotte e la stazione aveva chiuso i battenti, quindi Thomas non poteva fare ritorno a casa. Accarezzò un riccio di Judith e sospirò.
“Resto solo perché ormai non partono più treni.”
Judith sorrise compiaciuta e lo riportò in camera sua, attenta a non fare passi falsi davanti alla camera della proprietaria. Il letto era piccolo per due persone e dovettero arrangiarsi con Judith che si addormentò fra le braccia di Thomas.
 
L’indomani Judith si svegliò con i muscoli intorpiditi per la posizione scomoda ma con un sorriso allegro. Si rigirò nel letto e sgranò gli occhi quando non trovò Thomas. L’orologio al polso segnava le sette e un quarto del mattino e le lenzuola erano ancora tiepide, segno che lui se l’era svignata da poco. Sulla porzione di cuscino che Thomas aveva occupato c’era un biglietto ripiegato e un oggetto rotondo in mezzo. Judith si mise seduta e lesse il messaggio: E’ stato un piacere conoscerti.
L’oggetto era il gemello rotto di Thomas, una piastrina dorata circolare ornata da un’aquila incisa. Sebbene la tristezza dell’imminente partenza, Judith sorrise al ricordo di quel bell’uomo tenebroso che aveva conosciuto in una tavola calda di Londra.
 
 
Salve a tutti! ;)
Eccomi tornata per vostra sfortuna.
Beh, che ve ne pare di questa nuova storia?
Ariadne e Judith daranno filo da torcere al nostro signor Shelby.
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Alla prossima, un bacio.
 
Ps. Noterete che le citazioni a inizio capitolo riguardano l’inferno perché è il tema che ho scelto come filo conduttore della storia.

*Ovviamente faccio riferimento ad una società di fine anni '20 e capirete che la libertà sessuale era piuttosto limitata, almeno per le ''signorine dabbene''.
  
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