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Autore: Bibliotecaria    09/12/2020    1 recensioni
In un mondo circondato da gas velenosi che impediscono la vita, c’è una landa risparmiata, in cui vivono diciassette razze sovrannaturali. Ma non vi è armonia, né una reale giustizia. È un mondo profondamente ingiusto e malgrado gli innumerevoli tentativi per migliorarlo a troppe persone tale situazione fa comodo perché qualcosa muti effettivamente.
Il 22 novembre 2022 della terza Era sarebbe stato un giorno privo di ogni rilevanza se non fosse stato il primo piccolo passo verso gli eventi storici più sconvolgenti del secolo e alla nascita di una delle figure chiavi per questo. Tuttavia nessuno si attenderebbe che una ragazzina irriverente, in cui l’amore e l’odio convivono, incapace di controllare la prorpia rabbia possa essere mai importante.
Tuttavia, prima di diventare quel che oggi è, ci sono degli errori fondamentali da compire, dei nuovi compagni di viaggio da conoscere, molte realtà da svelare, eventi Storici a cui assistere e conoscere il vero gusto del dolore e del odio. Poiché questa è la storia della vita di Diana Ribelle Dalla Fonte, se eroe nazionale o pericolosa ed instabile criminale sta’ a voi scegliere.
Genere: Angst, Azione, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Note dell'autrice: scusate il ritardo ma non credo che riuscirò più a pubblicare ogni settimana, pertanto d'ora in avanti pubblicherò un capitolo ogni due anche perchè così riuscirò a darvi dei capitoli migliori, almeno spero, credo... almeno ci avrò provato.
A presto con il prossimo capitolo!





9. Lo squarcio nel velo
 
Ricordo la mattinata del 25 ottobre del 2023 come tranquilla. Il giorno prima avevo discusso con Giulio perché non aveva ancora parlato con i suoi genitori di me, a mia difesa dico che era la prima volta che gli ricordavo la faccenda, tuttavia, effettivamente, avevo un po’ esagerato e mi ero ripromessa di scusarmi dopo le lezioni. Fu in quel momento che un bidello, o come cavolo li chiamino ora, ci venne ad informare che le lezioni erano sospese e che per tornare a casa dovevamo attendere l’arrivo dei nostri genitori o tutori cosa che non era mai successa prima d’ora, neanche alle elementari si erano mai curati di farmi venire a prendere dai genitori.  Ci dissero che avevano già iniziato a chiamarli e che sarebbero arrivati a breve.
Il professore dovette lasciare l’aula per raggiungere la sala insegnanti e, forse per la fretta, affidò a me il compito di controllare la classe e fare andare avanti la lezione finendo il capitolo a cui eravamo arrivati. Feci leggere tutti a turni un paragrafo, concludendo il capitolo alla svelta e iniziammo a discutere di cosa sarebbe potuto succedere di così grave per rispedirci a casa. Guardai Nohat e pareva confuso quanto me quindi non poteva essere qualcosa legato ai Rivoluzionari o a Malandrino, supposi che fosse un altro gruppo, ma ne dubitavo, finora nessun colpo aveva mai scombussolato a tal punto la scuola. Per di più fare un colpo alle dieci e mezza di mattina mi pareva strano.
A breve i primi genitori si fecero vivi, avevano maschere o qualcosa di simile sul viso e il bidello che arrivò assieme a loro ci portò degli stracci bagnati che dovemmo posizionare sulle finestre dopo esserci assicurati che fossero ben chiuse, ci ordinarono di restare accovacciati a terra. Eseguimmo, e ne parlai con Nohat. “Questa procedura a che serve?” Mi domandò. “Non ne ho idea. Nella mia vecchia scuola facevamo una volta al anno prove d’evacuazione antincendio, ma questa procedura è diversa.” “Credo che abbia a che fare con l’aria, forse un avvelenamento.” Disse una mia compagna che doveva aver sentito la nostra conversazione, non ne ricordo il nome a dire il vero, ma mi ricordo che se ne stava sempre da una parte della classe e si faceva gli affari suoi, quando veniva interrogata dimostrava di essere sveglia ma nulla di straordinario, tuttavia quando mi disse quella cosa mi diedi della stupida e mi pietrificai.
 
Ero sempre stata conscia di vivere in un mondo in cui solo il dieci percento della superficie terrestre è vivibile dalle creature umanoidi e che il resto del pianeta è una landa selvaggia e desolata piena di gas tossici che ci farebbero impazzire e morire soffocati o avvelenati, ero estremamente conscia di quanto l’equilibrio del nostro piccolo angolo di paradiso fosse fragile ma quella fu la prima volta che ci pensai seriamente. Non avevo mai visto le terre di confine, ma gli antenati di mio nonno venivano dal profondo sud, nel cuore del deserto Sharai, quindi qualche storia sulla sua vita prima di trasferirsi a Lovaris mi era stata raccontata dalla nonna e mi avevano parlato delle bestie spaventose che vivono oltre il confine dell’aria tossica. In quel momento mi visualizzai grifoni, chimere, mannari, aracnei o altre bestie che vivevano come noi in questa terra che mi attaccavano affamate per cercare cibo, o di altre bestiacce che vivevano oltre il confine di cui avevo visto solo qualche illustrazione nei libri, poi io che soffocavo o impazzivo per poi morire di avvelenamento, i gas tossici che si avventavano su di noi come una mano punitrice e altri scenari apocalittici.
Gli scienziati ne parlavano ogni tanto: l’inquinamento diminuisce lo spazio a nostra disposizione, ogni consumo di energia d’origine fossile avvelena il nostro pianeta e l’unica area in cui potremmo mai vivere. Il cuore mi batté forte e iniziai a respirare piano per cercare di calmarmi, ma non ci riuscivo. Poiché non esistono altre isole di salvezza, e se anche ci fossero sarebbe impossibile raggiungerle senza rischiare di morire soffocati e gli altri pianeti sono irraggiungibili, in millenni non siamo mai riusciti a conquistare neanche il cielo, figurarsi lo spazio, forti telescopi possono mostrarci quanto vogliono la superficie lunare e gli altri pianeti, ma sono irraggiungibili e anche se fosse non sono vivibili, questo è l’unico luogo in cui possiamo vivere, il nostro giardino di pace, la nostra casa, non ce ne sono altri e non possiamo abbandonarlo: o lo si rispetta e si convive con esso o si muore, fine della storia.
Non avevo mai avuto pensieri apocalittici prima di allora, anzi nessuno li aveva mai avuti, ma dalla mia generazione l’apocalissi divenne vera e plausibile, persino vicina a noi come idea. Tuttavia è necessario comprendere che fino a tre anni prima gli scienziati avevano stimato un avanzamento delle nubi tossiche di cinquanta metri quadrati negli ultimi centoventicinque anni, ovvero dalla scoperta dei combustibili fossili e le macchine a vapore, ma nessuno ci credeva seriamente, la parola inquinamento esisteva ma non era presa seriamente: avevamo sempre avuto altro per la testa.
Quella fu la prima volta che non trovai ridicola l’idea di tornare in dietro alle lance e alle case di paglia se questo significava non percepire l’apocalisse alitarmi sul collo.
 
Rimasi accucciata a lungo fino a quando non vidi mio padre arrivare a prendermi con una maschera antigas addosso e una in mano per me. La presi senza fare domande e la indossai, viaggiammo rapidi in macchina, in una strada semi deserta. A casa mia madre aveva già sigillato tutte le finestre e stava controllando il cibo che avevamo nel frigorifero. “Che succede?” Domandai con un filo di voce appena mi tolsi la maschera antigas, non mi risposero, mi passarono una copia del giornale: in prima pagina, stampato in bianco e nero c’era il fumo a fungo, quello della nuova bomba che avevo visto al cinegiornale al inizio di quel anno. Scritto a caratteri cubitali c’era scritto: BOMBA VELENOSA! 2450 KM2 PERDUTI! Il suo creatore fa esplodere il suo lavoro per cancellarne l’esistenza. È dimostrata la sua pericolosità.
Mi sedetti e lessi tutto l’articolo; mi sentii sempre peggio ad ogni parola che si aggiungeva. Nelle pagine successive era scritto che l’inventore della bomba aveva distrutto tutti i suoi studi su questa e il modo per fabbricarla per poi aver causato un omicidio-suicidio di sé e del suo staff, tutti coloro che avevano lavorato alla bomba con lui quando avevano scoperto che non c’era un vero rimedio alle questione delle radiazioni. Lessi anche che avevano scoperto grazie agli innumerevoli esperimenti attuati per costruire la bomba nucleare una forma di energia basata su tali radiazioni. Però ben presto si erano accorti che gli animali che erano entrati a contatto con quelle sostanze si erano ammalati e così avevano scoperto altre testimonianze risalenti all’infanzia dei miei nonni, se non prima, in cui era stata provata la loro tossicità. Da quel che avevano scritto capii che non c’era un rimedio per questo genere di avvelenamento. Una volta accertato questo, il 23 ottobre il capo della ricerca aveva deciso di far esplodere tutte le sue ricerche e le persone che avevano lavorato con lui. Qualcosa però era andato storto durante l’esplosione dei laboratori con tutti gli scienziati presenti: alcuni detriti avevano danneggiato la centrale nucleare, una qualche sorta di centrale elettrica basata sulla stessa energia che scatenavano quelle bombe, e adesso c’era una discreta fuoriuscita di sostanze radioattive. Lessi che avevano mandato i pochi scienziati rimasti che conoscono la materia a contenere quella che rischiava di divenire una catastrofe ambientale. Guardai la piantina lasciata a disposizione e se in parte mi sollevai quando notai che era territorio desertico e molto vicino alla zona di confine con i territori velenosi dall’altra mi sentii male quando vidi quanto era relativamente vicina a Lovaris e ad altre minuscole città sulla costa del Sale. Continuai a leggere, e compresi che l’alto inquinamento della zona era dovuto ai rifiuti e scorie radioattive che non erano state smaltite a dovere e a quanto pareva anche la centrale rilasciava dei fumi molto inquinanti. Ricordo anche che per spiegare quanto fosse grave la situazione scrissero che di per la bomba della manifestazione, a livello di tossicità, era equivalente a un centesimo rispetto alle scorie che si stavano liberando nell’aria.
 
Come finii di leggere l’articolo il telefono squillò e risposi io. “Dalla Fonte, deve venire qui subito!” “Sono la figlia.” Risposi in un fil di voce intuendo che fosse la S.C.A. e compresi la serietà della situazione se usavano il cognome. Poiché malgrado l’ambiente estremamente formale nella S.C.A. era una cosa estraniante sentire qualcuno chiamare una persona per cognome: in primo luogo perché poco educato, in secondo perché implicava una comando a cui non ci si poteva sottrarre. “Mi passi sua madre allora, signorina Dalla Fonte.” Passai la cornetta a mia madre a capo chino. “È per te.” Sussurrai senza neanche guardarla.
Tornai a leggere l’articolo che descriveva le procedure da attuare per il prossimo mese, ovvero fino a quando i venti provenienti dalla zona radioattiva non si fossero fermati, assieme ad altre procedure da attuare immediatamente: eliminare i cibi dalla provenienza delle pianure di Libris o comprarle fino a nuovo ordine, in particolare le verdure e la carne di ruminanti, tenere le finestre sigillate, uscire il meno possibile, e se lo si fa bisognava coprirsi il più possibile e tenere sempre con sé la maschera, per di più non si poteva uscire con la pioggia.
“Io devo tornare al lavoro. Tesoro, tu resta qui con Diana ed elimina tutti i prodotti che sono segnati come pericolosi.” “Certo tesoro.” Guardai i miei genitori di sottecchi, erano proprio una coppia del millennio scorso. “Diana, la scuola resterà chiusa fino a nuovo ordine. Per il momento cerca di prenderti avanti.” Mi ragguardò mia madre mentre si copriva il più possibile e si metteva la maschera. “Certo.” Sussurrai distrattamente, a quel punto mia madre mi si avvicinò e mi baciò sulla fronte come quando ero piccola. “Fa la brava.” Quelle tre parole furono una prova sufficiente per farmi comprendere che la situazione era molto più grave di quel che sembrava ma non osai interrogare mia madre sulla questione già conscia che non mi avrebbe risposto. “Non garantisco.” Risposi donandole un mezzo sorriso e lei fece un sorriso sofferente. Un istante dopo stava uscendo di casa.
Pochi minuti dopo io e mio padre iniziammo ad eliminare tutto ciò che poteva essere pericoloso e rimanemmo quasi senza scorte. Fu in quel momento che il telefono squillò, risposi. “Diana, ti prego dimmi che stai bene?” “Giulio?” Domandai, ero convinta che fosse la sua voce. “Acqua capitano, sono Oreon.” Disse il ragazzo dal altra parte dello stato e quando realizzai sgranai gli occhi. “Voi piuttosto? State bene?” “Le colline ci proteggono ed evitano che le correnti colpiscano la città in pieno ma siamo in stato d’allerta. Nessuno sa bene cosa succederà. Ci sono molti agenti per le strade.” “Lo immagino. I ragazzi come stanno?” “Spaventati, ma per il resto bene…. Scusa ma non posso fermarmi qui, ci sono altre persone che devono chiamare.” “Okay, Oreon. Ci sentiamo più avanti.” “Ciao, capitano.” Continuammo a sussurrarci ciao fino a quando chiudemmo la linea e a quel punto mi accorsi dello sguardo di mio padre. “Era Oreon, il mio ex-vicecapitano.” “Sì, me lo ricordo, bravo ragazzo.” Disse mio padre preoccupato. “Io vado a prendere qualcosa da mangiare prima che le scorte dei supermercati finiscano.” Decise mio padre, lo avrei lasciato andare quando mi seri conto di una cosa. “Tu non sai fare la spesa papà, vado io.” Dissi conscia che papà non aveva mai dovuto farla in tutta la sua vita, io invece sapevo cosa prendere e in che quantità dopo aver dato un bello sguardo alle scorte. “No Diana, io sono l’adulto, io devo rischiare.” Decretò mio padre. “Non ci tengo a morire di fame e tu non ti sai muovere nei supermercati, lo sai.” Gli ricordai dirigendomi verso l’entrata. “La gente sarà spaventata, potrebbero aggredirti.” Disse bloccandomi con una stretta sulla spalla. “So badare a me stessa e sarò attenta e veloce.” Promisi mentre mi liberavo della sua presa. Lo vidi soppesare la cosa qualche istante per poi rispondere e già dalla sua espressione capii che gli stava costando molto ammettere che avessi ragione. “Va’ bene. Ma aspetta un secondo, ti do una cosa.” Mio padre sparì al piano di sopra e tornò con in mano la sua pistola. Mi sentii il sangue congelare, non mi aveva mai lasciato neanche guardarla prima d’ora al di fuori delle rarissime volte che mi aveva portata al poligono, figurarsi permettermi di portarla in giro. “L’ho caricata a salve, sai usarla e conosci le regole, tienila nascosta.” Subito la infilai nella vita dei pantaloni e la coprii con la felpa e la giacca, presi le borse e mio padre mi consegnò le chiavi della macchina. “Giuda con prudenza, la gente sarà spaventata quindi potrebbe essere più impulsiva quindi non. Attaccare. Briga.” Mi ragguardò guardandomi dritto negli occhi mentre mi passava la maschera anti-gas. “Certo.” Dissi con calma, stavo per uscire quando sentii mio padre parlare. “Ti voglio bene Diana.” Lui non lo diceva mai, non mi aveva mai detto così esplicitamente ti voglio bene da quando ero una bambina, dovetti ricacciare in dietro le lacrime e non riuscii a rispondere.
Una parte di me avrebbe voluto corrergli in contro abbracciarlo forte e dirgli che anche io gli volevo bene, che mi dispiaceva essere la peggior figlia nella storia e che non si meritava che l’odiassi, l’altra parte però era ancora molto arrabbiata con lui e non sarebbe bastato quello per sanare un legame oramai appeso ad un filo così sottile che minacciava di spezzarsi al prossimo scossone. Scoppiai a piangere mentre scendevo le scale fino al seminterrato con il parcheggio.
 
Entrata in macchina, mi imposi di ricompormi e uscii. Le strade erano un delirio, o almeno per l’epoca, se paragonato al traffico di oggi sembrerebbe una giornata normale, comunque per me trenta macchina erano già un traffico notevole cento erano il delirio. Parcheggiai vicino al alimentari più vicino e vi trovai praticamente tutto il quartiere, corsi tra le corsie per prendere quel che mi serviva e pagai alla svelta, feci il giro lungo al ritorno e raggiunsi la base dei Rivoluzionari, dove trovai solo Idorel. “Diana…” Come mi vide mi portò nel corridoio. “Qual è la situazione e quali sono gli ordini?” Domandai schietta. “Malandrino è fuori di testa. Meglio se non ti vede. Comunque sia gli ordini sono di aspettare la fine del emergenza.” “Come?” Domandai sconvolta ero convinta di dover compiere un’arringa con Malandrino per convincerlo a lasciar stare i colpi. “Malandrino è terrorizzato e dice cose insensate, ma su questo credo sia serio. Ora torna a casa o farai insospettire i tuoi.” “Felicitis è con voi?” Domandai preoccupata; la settimana scorsa l’avevano ufficialmente scacciata dal orfanotrofio, da allora dormiva alla base dei Rivoluzionari in attesa di trovare abbastanza denaro per un monolocale. “Sì, ma è meglio se la prendi tu, è praticamente scappata da scuola ed era terrorizzata, credo che abbia avuto un crollo.” Mi spiegò Idorel. “Va’ bene, dov’è?”
Quando vidi Felicitis nello stato in cui era ridotta mi sentii male: era sempre allegra, sorridente, ora invece aveva le orecchie basse, le occhiaie, gli occhi rossi e sgranati in uno stato di puro terrore. “Felicitis?” La chiamai, questa scatto e mi guardò terrorizzata, si alzò alla velocità di un fulmine e mi abbracciò. “Diana! Ti prego portami con te! Gli altri non possono! Ti prego! Farò la brava! Giuro!” “Calma, calma. Ora vieni con me, okay? Tutto si aggiusterà.” Le promisi accarezzandola, non sapevo come avrebbero reagito i miei genitori ma in quel momento me ne fregai, Felicitis era mia amica e non l’avrei abbandonata, non avrei potuto accettarlo.
 
Quando arrivai a casa mio padre aveva sigillato ogni anfratto del nostro appartamento. “Diana!” Mi chiamò ma come vide Felicitis si bloccò confuso. “È una mia compagna, non ha un posto dove andare, starà in camera mia per un po’.” Decretai trascinando Felicitis in camera mia per sistemare le sue cose.
“Quello è tuo padre?” Mi domandò Felicitis confusa. “Sì, lo so, senza la divisa ha la faccia da bravo contabile, cambierai idea quando smetterà di fare il padre apprensivo: il che significa questa sera a cena.” La informai. “Non mi ero accorta che ti assomigliasse così tanto.” Guardai Felicitis confusa e irritata: nessuno mi aveva mai paragonata a mio padre se non per quanto riguardava i problemi di rabbia. “In che senso?” Domandai seccata. “Beh, la sua faccia, è la stessa che fai tu ogni volta che vedi tornare qualcuno da una missione.” Ammise in imbarazzo, ci ragionai su qualche secondo e mi resi conto che in effetti c’era una certa somiglianza ma mi rifiutai di vedere altro di simile tra noi due. Io ero bionda, lui moro, io avevo gli occhi verdi, lui nocciola, io ero alta come donna, lui appena nella media come uomo, la sua pelle era di uno scuro caffelatte la mia dorata. L’unica cosa che avevamo in comune nel aspetto era il volto squadrato e la mascella sporgente. “Diana?” Mi richiamò Felicitis. “Si scusa, mi ero incantata. Puoi mettere la tua roba dove preferisci. Ti faccio fare un giro della casa.”
 
Mia madre non tornò quel giorno, aspettammo alla radio notizie per ore ma nessuno sembrava intento a dire qualcosa di diverso dal ordine di stare in casa se non per estreme necessità, mio padre provò a chiamare l’ufficio di mia madre più volte ma era ad una riunione straordinaria del consiglio di emergenza, ciò non impedì a mio padre di tentare ogni cinque minuti di chiamare qualunque ufficio gli venisse in mente e tutti i suoi amici al lavoro, alcuni chiamarono noi ma non fummo in grado di dire nulla in più da quel che la stampa rilasciava. A notte fonda il telefono squillò svegliandomi ma non riuscii ad uscire dalla porta che mio padre aveva già risposto. Silenziosamente camminai verso la sua stanza per carpire qualche informazione. Mi mossi quatta, quatta lungo il corridoio fino a raggiungere la stanza dei miei genitori. Lì origliai la conversazione che mio padre stava avendo con mia madre con estrema attenzione.
“Che vuol dire Luisa? Non possiamo…” Mio padre interruppe la sua sfuriata, probabilmente la mamma lo stava facendo ragionare. “Sì, lo so, ma… va bene, farò in modo che Diana non lo venga a sapere.” Rimasi immobile davanti alla stanza dei miei, mio padre parlava sempre ad alta voce quando era al telefono, quindi anche se la porta era chiusa riuscivo a sentirlo perfettamente. “Certo che non la farò uscire.” Continuò lui tranquillo. “Certo, a costo di legarla.” Continuò divertito. “Comunque com’è la situazione?” Domandò mio padre tornando serio e camminando su e giù per la stanza, gesto che faceva spesso quando era nervoso. “Certo, capisco…. Stai attenta Luisa.” Mi appoggiai alla parete, avevo un brutto presentimento. “Non possono mandare qualcun altro? Un uomo correrebbe…” Mio padre si interruppe, intuii che stava subendo un rimprovero di mia madre. “Sì, scusami Luisa... Certo, farò del mio meglio con Diana…. Ma che dici, la posso gestire!” Alzai gli occhi al cielo, si stava illudendo parecchio o stava dicendo parecchie fesserie per rassicurare mia madre. “Certo, certo, sì, non ci prenderemo a martellate a vicenda.” Continuò pacato e contro ogni previsione mantenne la promessa, certo litigammo spesso ma non arrivammo mai alle mani, forse la presenza di Felicitis aiutava però fu piacevole scoprire che potevamo convivere senza scannarci a vicenda.
“E Luisa… ti amo.” Sussurrò mio padre lasciandomi di sasso: mio padre non diceva mai quella frase, almeno non davanti a me ma iniziavo a sospettare che quei due non se lo dicessero neanche tra loro, non li avevo neanche mai visti baciarsi, per me fu strano sentire un momento d’intimità tra loro due. “Non sono smielato! Rischi la vita, sono solo preoccupato!” Mi sentii mancare le gambe: ero abituata a sapere che mio padre rischiava una pallottola in petto ogni volta che usciva di casa ma mia madre lavorava in ufficio, per quanto importante il suo lavoro negli interrogatori non era certamente così rischioso e non se ne era mai andata per più di un giorno finora. “Certo, ti saluto Diana… non credere che le dirò una cosa del genere, capirebbe tutto, adesso sei tu ad essere smielata!” Sorrisi e piansi sentendo quelle parole mentre comprendevo che la situazione era più seria di quel che credessi. “Ciao Luisa, ciao, ciao, cia’-cia’-cia’…” Come sentii chiudere la chiamata mi alzai e andai in punta dei piedi verso la mia camera. Avevo infranto l’intimità dei miei genitori abbastanza per quel giorno.
 
Così iniziarono i lunghi giorni di attesa, alla radio ripetevano all’infinito sempre le stesse informazioni come un disco rotto e non lasciavano trapelare nulla di più, i giornali lo stesso. All’epoca non avevamo una televisione a casa quindi nella mia famiglia non sapevamo nulla dai cinegiornali ma non dissero nulla di aggiuntivo da quel che appresi in seguito.
Mio padre usciva quasi tutti i giorni coperto alla perfezione con una maschera, guanti e cappotti pesanti e prendeva anche delle medicine per evitare di assorbire troppe radiazioni. Tornava la sera lasciando le scarpe fuori e per prima cosa metteva in lavanderia i suoi vestiti e si andava a lavare e comunque preferiva evitare i contatti con me e Felicitis dato che neppure lui sapeva quanto le radiazioni fossero gravi a Meddelhock, né era sapeva se avrebbe potuto trasmettercele. Nel frattempo noi ragazze passavamo tutta la giornata chiuse in casa a studiare, ogni tanto ricevevamo una chiamata breve da parte di Galahad e Garred, gli unici ad avere un telefono in casa e comunque potevano starci per pochi minuti, da loro ricevemmo anche dei messaggi da parte dei Rivoluzionari anche se non compimmo nessuna rapina o altro data la strettissima sorveglianza che si era formata con l’emergenza. Quindi Felicitis divenne la mia unica compagnia in quelle settimane di isolamento totale. Condividevamo la stanza, l’armadio, la casa, il letto e fu l’ancora di entrambe: avrei dato i numeri nel restare sola con mio padre per un mese e avendo sempre odiato l’isolamento quando prolungato, malgrado non disprezzassi qualche sporadico momento per me stessa in cui riflettere, ma così avrei perso la ragione.
Fu verso metà strada di una di quelle lunghissime giornate che una chiamata inaspettata arrivò dalla portineria del grattacielo. Felicitis stava iniziando a cucinare la cena e la stavo aiutando imparando a fare qualcosa di diverso dalla pasta e della carne grigliata, le uniche cose che mia madre sapesse cucinare. Sapevamo che mio padre sarebbe tornato nel giro di un’ora e mezza e non attendavamo certamente visite, quindi fu una sorpresa quando sentii il telefono squillare. Andai a rispondere. “Pronto, qui casa Dalla Fonte, se state cercando mio padre o mia madre non sono a casa.” Dissi meccanicamente: oramai stavo facendo da segretaria a mio padre dato il numero esorbitante di persone che lo cercava durante la giornata. “Signorina Dalla Fonte, scusi il disturbo. Sono Giorgio, il portiere. C’è un licantropo che dice di conoscerla e di avere bisogno di una mano.” Strabuzzai gli occhi. “Il nome?” Domandai malgrado avessi già intuito di chi si trattasse. Sentii un vociare dall’altro capo del telefono. “Un certo Giulio Longo. Lo stavate aspettando?” “No, ma lo lasci passare, è mio amico.” Dissi pacata. “Signorina le ricordo che il coprifuoco è quasi scattato.” “Lo so, ma lo lasci passare. Non sarebbe venuto se non fosse indispensabile.” Decretai seria. “Come volete signorina.” A quel punto misi giù il telefono e andai ad aprire la porta. “Chi è Diana?” Mi chiese Felicitis dalla cucina. “È Giulio.” Sentii che smise di tagliare le verdure a quella notizia. “Cosa ci fa qui? Vive dall’altra parte della città, e… è quasi ora del coprifuoco.” Disse lei sconvolta. “Non lo so. Lo stiamo per scoprire.” Dissi mentre attendevo lo squillo del ascensore.
Rimasi appoggiata allo stipite in attesa fino a quando non vidi una figura avvolta in un cappotto familiare e una spessa sciarpa in lana grezza da cui spuntavano solo gli occhi che parevano più gialli del solito in mezzo a tutto quel marrone; teneva delle borse piene di spesa e aveva l’aria chiaramente spossata. “Ciao Diana.” Mi salutò quando mi vide, a quel punto mi scostai chiaramente preoccupata. “Stai bene?” Domandai in ansia. “Sì, sono solo stanco.” Lo vidi un secondo tentennare in imbarazzo. “Senti… non riesco a tornare a casa per il coprifuoco… potrei….” “Non serve che tu chieda, entra pure. Solo lascia le scarpe fuori e lasciami le buste.” Lui mi porse le quattro borse in stoffa, erano decisamente pesanti e le portai dentro mentre Giulio si spogliava. A quel punto gli lanciai un’occhiata: era stravolto, aveva le occhiaie enormi e pareva chiaramente denutrito, lanciai un’occhiata alle borse e notando i componenti umanoidi, a quanto pare la situazione a casa sua si era fatta insostenibile se erano dovuti andare dall’altra parte della città per quelli. “Dove posso lasciare la roba?” Mi domandò dopo aver salutato Felicitis. “Seguimi, meglio lavare tutto.” Mentre dicevo questo lo condussi in lavanderia dove recuperai un’altra bacinella, la riempii d’acqua accanto a quella di mio padre, e la riempii di sapone in polvere e altre sostanze chimiche che non ricordo. “Lascia in ammollo la giacca e la sciarpa. Non fa moltissimo ma sempre meglio di niente.” Gli spiegai. “Grazie.” Disse Giulio spogliandosi e riponendo gli indumenti nella bacinella chinandosi davanti a me. Non resistetti all’istinto di avvicinarmi a lui di accarezzargli i capelli, Giulio alzò lo sguardo fece per avvicinarsi ma tentennò un secondo. “Diana… non dovremmo… sono stato fuori tutto il giorno.” “Immaginavo.” Sussurrai allontanando con riluttanza la mano. “Vuoi farti una doccia? Ti accompagno.” Gli proposi preoccupata per le occhiaie che si erano formate sotto i suoi occhi. “Grazie ma… non vorrei sfruttare troppo dell’ospitalità.” Disse in imbarazzo. “La padrona di casa sono io e sarebbe un problema se non dimostrassi ospitalità verso il mio fidanzato.” A quelle parole un sorriso sincero comparve tra le sue labbra. “Allora ti ricordi ancora della mia proposta.” “Certo che me la ricordo. Sei tu che me l’hai fatta nel momento poco opportuno.” Risposi sorridendogli dolcemente, per poi sospirare un secondo ripensando alla nostra ultima discussione. “E, senti, Giulio. L’ultima volta che ci siamo visti… ho esagerato: non avrei dovuto dire quelle cose, sono stata insensibile. Mi dispiace.” Ammisi a capo chino. “Ehi.” Mi richiamò Giulio facendomi alzare lo sguardo. “Accetto le tue scuse.” Gli sorrisi teneramente e lo condussi verso il bagno che generalmente veniva usato da mio padre al piano superiore.
Lì Giulio iniziò a spogliarsi ma quando notò che ero rimasta sullo stipite mi lanciò un’occhiata divertita. “Vuole unirsi a me signorina?” Mi chiese con fare galante, facendomi sorgere un sorriso vispo. “Stavo valutando.” Risposi mordicchiandomi evidentemente il labbro per provocarlo. “Ma mi sembri piuttosto stanco, ti lascio in pace. Ti vado a prendere un accappatoio pulito.” Sussurrai per poi chiudere la porta del bagno dietro di me e trotterellare di sotto dove vidi Felicitis fissarmi con un leggero rimprovero. “Cosa c’è?” Domandai confusa. “Vi ho sentiti. Diana non dovresti fare certe cose prima del matrimonio.” Mi rimproverò. “Felicitis non mi fare la predica, non servirebbe: i danno, per così dire, l’abbiamo già fatto.” A quel punto la vidi sbiancare. “Diana! Non pensi alla tua purezza!” La guardai di sbieco. “Felicitis… non ho mai fatto nessun voto di castità, non sto infrangendo nessuna promessa verso la Luna, il Sole o qualsiasi Astro se può farti sentire meglio. E prima che tu inizi a parlarmi del rischio di gravidanza: so prevenirlo, non sarò maggiorenne ma per comprare dei preservativi non serve esserlo.” Gli ricordai leggermente irritata mentre mi dirigevo in lavanderia per prendere un accappatoio pulito. “Come sarebbe a dire che non hai fatto il voto di castità? All’orfanotrofio ci hanno obbligate dicendoci che chi non lo faceva saremmo… finite nel Oblio.” Felicitis sussurrò l’ultima parte, io mi voltai e alzai un sopracciglio. “Felicitis i testi dicono che infrangere un giuramento agli dei ti fa finire al Oblio. Non è scritto da nessuna parte che le donne debbano essere caste e, credimi, le ho lette le scritture: il sacerdote della mia città è anche stato il mio insegnante di religione fino alle superiori e ha spiegato la questione a tutta la classe quando noi ragazze abbiamo iniziato ad avere il mestruo.” Spiegai alzando la voce mentre rovistavo tra gli asciugamani puliti per farmi sentire. Quando trovai l’accappatoio uscii e a quel punto Felicitis mi fissò malamente. “Sarebbe stato più rispettoso verso le tradizioni.” “Forse. Ma io ho scelto questo e non me ne pento: ho fatto certamente degli errori, anzi ultimamente non faccio altro che questi.” Ammisi inclinando leggermente il tono della voce. “Ma da essi ho imparato molto più di quello che avrei potuto apprendere se non avessi mai sbagliato.” Conclusi con un mezzo sorriso. Sentii che Felicitis stava per aggiungere qualcosa ma si trattenne. “Cosa c’è che non va’?” Le domandai appoggiandomi al tavolo. Felicitis mi fissò per qualche secondo e poi confessò quello che la turbava. “Alle volte ti odio Diana. Tu fai sempre quel che vuoi, te ne freghi del giudizio altrui e hai molte più possibilità di tutti noi messi assieme ma te ne freghi. Per di più tu hai sempre scelto cosa essere, invece a me è sempre stato impossibile scegliere. Non ho scelto di restare orfana e di vivere in uno schifoso orfanotrofio sovrappopolato mentre guardavo tutti i bambini andarsene quasi subito mentre io aspettavo di raggiungere i vent’anni o che l’assicurazione finisse per andarmene da lì, non ho mai potuto scegliere nulla della mia vita, anche l’essermi unita ai Rivoluzionari è stata una scelta forzata.” Si bloccò un secondo, mentre vedevo il suo sguardo e le sue orecchie abbassarsi mentre le sue braccia si stavano stringendo tra loro come in un abbraccio disperato. “Ogni tanto credo che non sarei in grado di prendere nessuna scelta da sola. Infondo sono solo una piccola fauna, che speranze ho contro un modo così grande?” Un tenue calore mi avvolse e la strinsi a me, la sentii irrigidirsi per un istante poi però rispose al abbraccio. “Felicitis tu non te ne rendi conto ma non necessiti di possedere ciò che è mio o di eguagliarmi in ogni arte per diventare magnifica, poiché, mia piccola ed immensa principessa, sei già in possesso di tutte le armi che mai potresti desiderare.” Sussurrai dolcemente delle parole che avevano usato con me molto tempo fa. “Ha un’aria familiare questo discorso.” Ammise Felicitis sorridente, non mi sorprese che lo conoscesse, in fondo frequentava i corsi del classico. “Bergebaldo, La Libris liberata, 1425, terza Era, è il discorso che Fergore, il protagonista, attua alla principessa Isabella di Libris prima che venga venduta al suo re per portare la pace.” Spiegai. “Come conosci questo passaggio?” Mi domandò Felicitis sorpresa. “Non è quello il punto Felicitis: il punto è che tu hai già le tue armi, le tue doti, devi solo trovarle e affinarle e su questo purtroppo non ti posso aiutare poiché sono di quanto più distante da te potrei mai essere ma questo non vuol dire che anche tu possa diventare grande.” Felicitis mi sorrise, e sussurrò qualcosa di simile ad un grazie, stavo per aggiungere del altro però Giulio mi chiamò. “Torno tra poco.” Pormisi salendo al piano superiore dove consegnai l’accappatoio a Giulio.
 
“Ecco qui, spero ti stia.” Dissi consegnandoglielo. “Grazie.” Sussurrò lui. “Seguimi adesso ti do un cambio d’abiti e mettiamo a lavare quello che hai usato oggi.” Dissi afferrando la cesta in cui Giulio aveva lasciato i suoi vestiti. “Aspetta, li tengo io.” Disse prendendomela dalle mani, gli sorrisi e gli feci cenno di seguirmi. Rubai una vecchia maglia e dei pantaloni a mio padre e dopo qualche insistenza Giulio se li mise. “Se prima tuo padre non mi sopportava adesso mi odierà.” Sussurrò Giulio nervoso mentre si metteva i vestiti. “Per una lavatrice in più, serio?” Domandai scettica. “Diana… sono un Altro, alcune persone non mi permetterebbero neanche di avvicinarsi a loro. Anche prima con il portiere ho dovuto insistere parecchio prima che si decidesse a chiamarti.” Mi spiegò. “Come scusa?” Domandai già irritata, Giulio sospirò e iniziò a spiegarmi. “Non mi ha lasciato neanche entrare nel edificio fino a quando non gli hai detto di lasciarmi salire, e non ti ha chiamata fino a quando non ho detto il tuo numero di telefono, descritto il percorso per arrivare a casa tua e anche dopo ha avuto parecchie reticenze. Ad essere sincero ero quasi tentato di fare il giro per la scala antincendio ma oramai era diventata una questione di principio quindi ho insistito per quasi mezzora prima di riuscire a salire.” Sentii i miei pugni stringersi con forza mano a mano che andava avanti con la storia. “Io lo ammazzo quello….” Sussurrai incazzata, a quel punto Giulio mi si avvicinò e mi accarezzò dolcemente il viso. “Tranquilla, ne è valsa la pensa.” Mi lasciai accarezzare ma continuai a parlare. “Non è questo il punto, lo sai.” Sussurrai stringendogli dolcemente i capelli che in questo mese si erano fatti un po’ più lunghi. “Lo so.” “Ti garantisco che gli do una strigliata a quello.” Sussurrai. “Non fare scenate Diana, peggioreresti la situazione.” “Allora gli ordinerò gentilmente di chiamare a casa sempre se gli sorge un dubbio sulle mie conoscenze.” Sussurrai dolcemente per poi baciarlo a fior di labbra ma Giulio mi strinse a sé e approfondì il bacio, ebbi un attimo di esitazione ma lasciai che le mie paure mi scivolassero addosso poiché sapevo e soprattutto sentivo di essere al sicuro tra le sue braccia. Dopo qualche minuto però mi resi conto di una cosa. “Giulio… questa è la camera dei miei vecchi.” Sussurrai nervosa, a quelle parole Giulio arrossì e fece una risatina nervosa. “Adesso è sicuro che mi uccide.” Sussurrò facendo per uscire ma una vecchia foto lo colpì.
 
“Diana quella sei tu?” Mi domandò indicando un bambino con indosso un enorme copricapo seduto sopra ad un cammello tenuto fermo da una donna chiaramente caucasica vestita da nomade del deserto e un uomo dalla pelle così scura da apparire nera tipica dei nomadi. “No, quello è mio padre da piccolo assieme a mia nonna e mio nonno.” Sussurrai dolcemente per poi accarezzare la foto di mia nonna lì accanto. “È l’unica foto decente che avessero di mio nonno, sai lui… amava fare le foto quindi non abbiamo molti suoi ritratti e non volevamo usare la sua fototessera per il tempio di famiglia.” Sussurrai mentre guardavo il ritratto dei genitori di mia nonna e una foto risalente al 1950 dove si vedevano i miei bisnonni paterni seduti accanto al antropologo Ferzeri, unico ritratto che possedevamo dei genitori di mio nonno, poi c’erano un altro piccolo ritratto dei miei trisavoli dalla parte di mia nonna ma non c’era altro, era un altare di famiglia molto scarno. Giulio fissò per qualche istante le foto e i ritratti con molta attenzione. “Assomigli molto ai tuoi nonni, sai?” “Sì, me lo diceva spesso anche la nonna.” Sussurrai mentre mi veniva un magone in gola. “Diana, tutto bene?” “Sì, non è nulla.” Sussurrai asciugandomi le lacrime e poi uscire. Non potevo mettermi a piangere come una bambina: oramai erano passati quattro anni dovevo farmene una ragione che mia nonna non ci fosse più.
Quando scendemmo per le scale riprese il discorso. “Non ho visto le foto dei genitori di tua madre.” Silenziosamente lo ringraziai per aver cambiato argomento. “Mia madre non ha mai avuto dei genitori: è cresciuta in orfanotrofio da quando è nata.” Spiegai, probabilmente avevo alzato la voce più di quanto immaginassi perché Felicitis si voltò verso di me sorpresa. “Davvero? Non lo sapevo.” Feci un cenno di indifferenza con le spalle alle parole di Felicitis. “Non ne parla spesso e preferisce che io non lo sbandieri ai quattro venti.” Spiegai placida mentre tornavo in cucina per aiutare la mia amica lasciando cadere l’argomento ma sentendo gli occhi scuri di Felicitis su di me alzai lo sguardo e le sorrisi cercando di incoraggiarla e di dirle che anche per lei le cose sarebbero andate bene. Lei rispose con un mezzo sorriso rassegnato e disilluso per poi cambiare discorso. “Ah, Giulio, ho messo ciò che è deperibile in un angolo del frigo, il resto l’ho lasciato nelle borse.” Gli comunicò Felicitis quando questi le fu vicino. “Grazie e scusami per il disturbo.” “Figurati, per così poco.” Disse Felicitis tornando a cucinare.
 
Quasi trequarti d’ora dopo mio padre arrivò e ci trovò tutti e tre seduti sul divano ad attenderlo. Come vide Giulio gli lanciò uno sguardo omicida. “Che ci fai qui?” Domandò irritato, Giulio mi lanciò un’occhiata, forse in attesa che dicessi qualcosa ma in un istante comprese che non mi sarei intromessa e gli rispose. “Ho dovuto girare per mezza città per trovare dei componenti umanoidi e fare la spesa per la mia famiglia, ho fatto più tardi del previsto e siccome vivo lontano da qui devo usare gli autobus per muovermi ma data la crisi molte corse sono state cancellate e non sono riuscito a prendere l’ultima corsa della giornata. Sarei anche tornato a casa a piedi ma la multa per chi è fuori oltre il coprifuoco è molto salata ed è una spesa che la mia famiglia non si può permettere allo stato attuale.” Mio padre lo squadrò per qualche altro minuto da capo a piedi e andò a mettere a lavare i suoi vestiti senza più rivolgerci la parola. La cena venne consumata velocemente e mio padre se ne andò in camera sua senza dire una parola. “Beh, è andata benino.” Scherzò Giulio quando fummo solo noi giovani. “Benino? Diana tuo padre fa paura quanto la Superiora del mio orfanotrofio ed è tutto dire.” Esclamò Felicitis sconcertata dal comportamento di mio padre. “Te lo avevo detto che si stava trattenendo finora.” Dissi divertita.
 
Pochi minuti dopo Felicitis andò in camera mia ed io rimasi sul divano con Giulio. Dopo i primi tentennamenti da parte di entrambi lo accompagnai silenziosamente verso la sala degli allenamenti e lì ci baciammo come non facevamo da un po’, non andammo oltre ma non ebbi paura. Non era che avessi dimenticato quel che era successo l’ultima volta che Giulio era dovuto venire a dormire da me, anzi ogni tanto quel angoscia mi invadeva, semplicemente decisi che non mi potevo lasciare condizionare da quello che mi era successo in eterno e il discorso che mi aveva fatto Orion mi fu d’aiuto anche in quella occasione.
 
Il mattino seguente, appena la giacca fu totalmente asciugata io e Felicitis salutammo Giulio sotto lo sguardo severo di mio padre. Giulio stava per andarsene ma la voce di mio padre lo bloccò. “Ragazzo!” Giulio si pietrificò sul posto. “Vedi di non mettere più piede qui dentro senza prima avvisare. E bada a ciò che combini: se metti in cinta mia figlia o la fai soffrire in qualsiasi modo sei morto. Non supporto quel che state facendo, sinceramente spero che rinsaviate e capiate che quello che state vivendo non è la realtà, ma un mondo di favole dove le cose vanno sempre bene alla fine. Tuttavia, se proprio non puoi farne a meno di vivere nel tuo mondo di fatato con mia figlia, vedi quanto meno di non distruggerla.” Mi voltai adirata e probabilmente gli sarei saltata addosso se Giulio non mi avesse bloccato. “Signore se crede che io non mi renda conto o che sua figlia non si renda conto di cosa significa una coppia come la nostra perché siamo giovani forse dovrebbe ripensare alla notte in cui ci siamo conosciuti. Forse è vero, stiamo vivendo una favola, ma una favola molto reale signore. E, per quanto lei creda il contrario, io rispetto Diana come donna, compagnia e amica. E ora, con permesso, devo pensare alla mia famiglia che è da più di un mese che non si nutre a dovere.” Rispose Giulio andandosene chiaramente irritato e quando chiuse la porta mi avvicinai a grandi falcate verso mio padre. “Si può sapere qual è il tuo problema?” Domandai mentre Felicitis cercava di tenermi ferma stringendomi il braccio destro. “Il mio problema, Diana, è che non voglio assistere nuovamente ad una scena come quella di un mese fa.” E con queste parole si voltò e andò in camera sua e maledissi il fatto che fosse domenica, il suo unico giorno di riposo.
“A cosa si riferiva prima Diana?” Mi domandò Felicitis preoccupata. Sospirai: non avevamo detto a nessuno dell’incidente per evita problemi o difficoltà inutili. “Ne parliamo in camera mia.” Le promisi conducendola. Pochi istanti dopo, a seguito di un mio lungo tentennamento, riuscii a dirle ciò che era successo il 29 agosto 2023 della terza Era. Lei rimase in silenzio e ascoltò ciò che avevo da dirle, le spiegai ciò che era successo, la paura e la rabbia che si erano mischiate in quel momento, la lealtà e la premura di Giulio e l’ipocrisia dei miei genitori. Felicitis non rimase mai così a lungo in silenzio come quella mattina. A discorso finito ero praticamente in lacrime ma mi rifiutavo di lasciarmi confortare oltre, lei lo comprese, non cercò di avvicinarsi, non tentò di consolarmi impacciatamente, semplicemente attese che la ferita non facesse più così male. “Sai…” Iniziai dopo un po’ mentre mi asciugavo le lacrime. “Ieri sono finalmente riuscita a stare accanto a Giulio, a toccarlo e a baciarlo. Prima facevo fatica anche solo a farmi abbracciare.” Dissi sconsolata. “Sarebbe strano il contrario Diana.” “Lo so, ma io sono sempre stata quella forte, quella su cui gli altri possono contare. Essere quella che deve essere aiutata mi fa incazzare, soprattutto perché è stato Giulio ad essere stato picchiato, ammanettato e minacciato. A me hanno solo lasciato un paio di lividi.” Fu allora che Felicitis si avvicinò di un poco. “Diana, sarebbe stato strano se non avessi sofferto. Senti io non ho mai subito nulla di simile ma… sono anch’io una donna e se fosse successo a me dubito che avrei reagito come te. Diana tu non devi rimproverarti per questo: hai subito un trauma, devi concederti il tempo per guarire. E se Giulio non lo capisce…” “No. È stato molto comprensivo, anzi temo di non avergli dato tutte le attenzioni che si meritava.” Ammisi con un mezzo sorriso. “Ieri sera l’ho voluto: ne ero spaventata un po’ ma l’ho desiderato sinceramente e non me ne sono pentita perché ero al sicuro e lo sapevo, lo sentivo.” Le spiegai mentre vedevo una scintilla di curiosità in Felicitis che non ringrazierò mai abbastanza per questo dato che, probabilmente, fu grazie a quella lunga chiacchierata se ora riesco a parlarne con lucidità.
 
L’emergenza durò ancora per poco a Meddelhok, fortunatamente. Meno di un mese dopo il suo inizio e pareva che la nube tossica se ne fosse andata, merito del vento dicevano ma ci consigliarono di non comprare certi prodotti per un bel po’ di tempo e non comprare niente che venisse dalla zona sud del est aldilà della catena montuosa della Luna. Riuscii a sentire i miei amici di sempre un paio di volte durante quelle settimane e mi spiegarono che la situazione era sotto controllo oramai anche se loro sarebbero dovuti restare a casa per ancora qualche settimana dato che Lovaris, per quanto protetta dalle montagne, era pur sempre più vicina.
Durante quel periodo mi informai il più possibile sulle radiazioni e i loro effetti collaterali, ma tutto quello che trovai fu meno di niente: i giornali restavano sempre sul vago, e ogni volta che alla radio parlava un esperto non riuscivo a comprendere tutto dato che non sapevo nulla di fisica nucleare, ma da quel poco che dissero compresi che le radiazioni oramai sarebbero scomparse solo tra un centinaio di anni e che, nel frattempo, si sarebbero distribuite nell’atmosfera fino a diventare relativamente inoffensive, anzi da quel che ci dicevano la nube che era passata sopra a Meddelhock era già piuttosto debole, rispetto a quando avevano fatto saltare il laboratorio, ma non inoffensiva. In seguito si scoprì che quegli esperti non sapevano praticamente nulla rispetto alla gente che lavorava in quel laboratorio e che avevano anche rilasciato un mucchio di fandonie per rassicurare la popolazione.
Sinceramente non mi ero quasi resa conto del tempo che trascorreva poiché la scuola ci aveva mandava settimanalmente una lettera con il programma da seguire, fare da soli le lezioni fu strano ma ero contenta che ci fosse Felicitis con me o sarei rimasta in dietro con il programma sicuramente. La parte più strana fu non avere notizie neanche da Malandrino, da Orion o da chiunque altro dei Rivoluzionari. E la cosa fu snervante. Per giunta ogni giorno ripetevano le stesse notizie catastrofiche e l’unico modo che trovai per accettare la situazione fu continuare a ripetermi che avevamo perso solo del territorio desertico e che tutto ciò non avrebbe cambiato la mia vita, ma sapevo che mi stavo solo illudendo.
Ma malgrado tutti i disastri che quel mese di terrore aveva causato quella situazione mi era aveva concesso qualcosa che prima non avevo: tempo libero. Così iniziai a scrivere un volantino per sfogare la mia frustrazione in qualcosa di produttivo, non avevo intenzione di mostrarlo a nessuno, fu solo grazie all’insistenza di Felicitis se il giorno dopo la fine dell’emergenza mostrammo il nostro lavoro ad Orion, il quale ne fu entusiasta e una settimana dopo spargemmo quei volantini all’entrata di tutti gli uffici possibili ed inimmaginabili. Gahad per giunta aveva avuto la mia stessa idea per passare il tempo durante l’emergenza quindi due settimane dopo i suoi volantini riempirono le strade, inutile dire che i suoi fecero più scalpore. Ammetto che provai un po’ di invidia nei suoi confronti ma fui contenta per lui.
Quello stesso pomeriggio Malandrino ci aggiornò su un nuovo piano per fare soldi facili su cui aveva potuto lavorare e accennò qualcosa su un nuovo colpo grosso che era quasi pronto. Fece molto il misterioso su cosa si trattasse ma quello che preoccupava noi ragazzi era il fatto che da quando eravamo tornati Malandrino si comportava in maniera più spaventosa del solito, era come se fosse sempre sul punto di esplodere e distruggere tutto quello che lo circondava. E questo andava oltre alle innumerevoli rapine ed atti di vandalismo che aveva indetto: i suoi occhi neri mi fissavano spesso in maniera strana e questo preoccupava Giulio che iniziò a starmi sempre appiccicato quando c’era Malandrino nei dintorni, e se non c’era lui Vanilla o Felicitis prendevano il suo posto altrettanto preoccupate per la questione. Da una parte mi faceva piacere che si preoccupassero per me, ma dall’altra sentivo che l’unico modo che avevo per capire cosa Malandrino volesse da me fosse stare da sola con lui e avrei di gran lunga preferito comprendere a cosa era dovuto quel suo sguardo strano piuttosto di vivere nel dubbio.
 
Ovviamente, quando l’emergenza si concluse, milioni di persone iniziarono a chiedersi come avessero scoperto della tossicità delle radiazioni e si scoprì che molti dipendenti che avevano maneggiato le sostanze radioattive erano rimasti malati di cancro, fu anche la prima volta che sentii parlare di questa malattia in vita mia e mi dovetti informare. Scoprii anche che per la maggior parte si trattava di Altri usati per i lavori di fatica, la cosa non mi sorprese ma mi fece infuriare comunque. Conclusasi l’emergenza Malandrino si scatenò facendoci appendere cartelloni in giro per tutta la città e vandalizzare diversi laboratori per andare contro le ricerche sul nucleare e a quella diabolica bomba. Non fummo gli unici a scatenarci contro quella robaccia, tutto il mondo si rivoltò, sapevamo che era deserto ma perdere tutti quei territori per gli esperimenti svolti per una sola bomba e una misera centrale elettrica pareva troppo a tutti, quella fu una delle poche volte che vidi umani e Altri in pari misura andare contro qualcosa assieme, manifestando e urlando le stesse frasi, sarà stupido ma una parte di me pensò che forse quello era un primo passo per far convivere umani e Altri ma ovviamente mi sbagliavo, bastò che attuassero la legge del 1° gennaio del 2024 contro l’uso del nucleare in qualsiasi forma e circostanza e tutto tornò come prima. Nel giro di un paio di mesi la città parve dimenticarsi della questione e comunque già da prima dovemmo andare avanti con le nostre vite: la gente tornò al lavoro, i ragazzi e i bambini a scuola e ben presto quelle poche notizie che arrivavano a tal proposito erano sempre più vaghe e rare. E anche io cercai di dimenticarmene.
 
Ma ben prima che tutto questo avvenisse mia madre tornò a casa e quasi nello stesso giorno Felicitis tornò alla sua vita da senzatetto-studente-terrorista. Ricominciare però fu strano, tornare alla normalità, oramai mi ero quasi abituata a quegli strani ritmi casalinghi, però ringraziai il Sole e la Luna di questo poiché potei finalmente riabbracciare tutti.
 
 
 
   
 
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