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Autore: Queen of Superficial    10/12/2020    1 recensioni
“Dobbiamo parlare seriamente”, annunziò quella specie di cartomante fuori servizio che lui si era scelto come compagna di vita.

Che palle, pensò lui. Lui era James, ma per tutti era Jimmy.

“Una tazza di tè?”, propose Grace, che non andava facendo altro da quella mattina, ma lo disse guardandolo e lo disse in quel modo che, lui lo sapeva, significava che palle. Si sorrisero. La cartomante li vide, e si rabbuiò. Matt Shadows entrò abbattendo di netto la porta d’ingresso, e non fece in tempo a sfilarsi gli occhiali da sole specchiati.

“Che cazzo è?”, chiese, indicando allarmato un brutto scheletro di cartapesta.

“È tua madre”, gli rispose la cartomante.

“Non mi sembra”.

L’orologio a cucù batté le cinque del pomeriggio.
Valary Sanders si sporse sulla ringhiera della veranda e cominciò a urlare “sciò, sciò.” in tono monocorde ad un ristretto stormo di gazze ladre che si intrattenevano in giardino.

Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, The Rev
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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“Noi abbiamo sognato il mondo.
Lo abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile,
ubiquo nello spazio, fermo nel tempo.
Ma abbiamo ammesso nella sua architettura
tenui ed eterni interstizi di assurdità,
per sapere che non è reale.”

J.L. Borges, Finzioni

 

Silenzio.
Capelli color grano al confine tra la realtà e la curva audace del collo, mentre lei si dedicava a faccende senza importanza; candele, conchiglie; una drusa di ametista che, nonostante gli sforzi, non era mai nel posto giusto.
La casa era una casa di campagna, come ce ne sono tante; né più grande, né più piccola di quella di qualunque fiaba. In ogni caso, non speciale. 
La bambina sedeva nella penombra, in attesa, avvolta da un complesso sistema di scialli e maglioni; l’odore dell’inverno penetrava dal bosco fino alle mura e tutto acquistava la consistenza di ciò che non è destinato a durare a lungo, l’acqua in una pozzanghera, o i ricordi di un tempo. Aveva gli occhi chiusi, i sensi in allerta, e si sforzava di respirare all’unisono con le galline distanti.
“Mamma?”, chiamò, rivolta alla donna che sentiva trafficare a qualche metro da lei. Il sole era ormai calato e la bambina sapeva che quella era l’ora delle sue streghe personali, quelle senza corpo né poesia che si spostavano inquiete in attesa che qualche sprovveduto lasciasse loro aperto uno spiraglio per intrufolarsi nella realtà. Aspettò il segnale, la frase di rito che spalancava le porte al suo mondo interiore di trepidante mistero.
“È tardi, amore; va’ a prepararti per la nanna. Ma prima chiudi la finestra, altrimenti entrano gli spifferi”.

 

Venticinque anni dopo,
 gli spifferi erano entrati

 

atto I

Un motivo che,
 per quieto vivere,
 chiamiamo Shakespeare

 

Questo governo non lavora con il favore delle tenebre.
Ovunque si posi il sole c’è anche un’ombra; è un dato di fatto universalmente accettato. Grace appoggiò la tazza di caffè sul relativo, imprescindibile e fino ad allora mai sostituito tavolino, chiedendosi quante ovvietà uno dovesse pensare prima di approdare ad una qualche forma di certezza. Urlò qualcosa alla gente al di là del vetro; qualcosa che nessuno capì o volle capire. Si era svegliata male, come spesso le accadeva in quel periodo dell’anno in cui le giornate si allungavano e le speranze bruciavano, consumando più in fretta la cera delle candele. 
Ascoltami bene.
William stava dormendo un sonno ignaro e pacifico al piano di sopra; un fatto di per sé semplice che le ricordò quanto in fretta si incanalava negli interstizi della realtà un sentimento così piano e discreto come l’abitudine. A lungo, svegliarsi l’uno senza l’altra era parso non solo impossibile, ma anche scorretto.

Ora si faceva, come tutto il resto si fa. 
Ascoltami bene, Grace; tu non sei dio, e comunque, a scanso di equivoci, ti garantisco che nessun dio si preoccuperebbe in questo modo.  
Sì, ma passiamo tanto di quel tempo a dire la parola ‘impossibile’ che dimentichiamo quanto spesso, e quanto in fretta, l’impossibile invece si palesi, si assesti, ci invada il divano, rovesci tutte le carte e le edizioni da collezione di Vogue, stenda i piedi sul tavolino da caffè che nessuno ha mai voluto cambiare e diventi la norma. Com’è che scriveva Joan Didion in quel romanzo straziante? La vita cambia in un istante. Ti siedi a tavola per cena, e la vita come la conoscevi è finita. 
William si affacciò dalla scala: “Tesoro?”
Grace si accorse di James seduto in poltrona soltanto perché parlò.
“Ti chiama tesoro? Tu detesti essere chiamata tesoro”.
“Non da lui”.
“E perché no?”
“Perché lo pensa seriamente”.
Sentendosi ignorato, l’uomo in questione scese le scale.
“Tesoro, sei qui. Ti sto chiamando da tantissimo tempo, a cosa servono i cellulari?”
“Non a farsi geolocalizzare in casa, amore mio. Vuoi del caffè?”
“Un tè, grazie… ah, James”.
“Ah, William”.
“Ah, per favore smettetela. Non sono neanche le nove del mattino”.
“Ho un po’ di jet lag”.

Grace guardò William per un lungo istante, e le vennero in mente due cose: l’espressione ‘una specie di silenziosa trasparenza’, che aveva usato una volta Michel Foucault ma non ricordava a che proposito, ed un dipinto di Carel Fabritius che si chiamava Il cardellino. Gli consegnò una tazza, una sorta di tè alla passiflora, e si guardò a disagio l’anello che lui le aveva messo al dito. Sua madre, incastonata tra le spighe dorate di un campo in una foto analogica che si teneva in ostinato equilibrio contro il dorso di metà della Recherche di Proust sulla biblioteca della veranda, gettava sulla scena uno sguardo che sembrava il preludio di un’avventura indimenticabile.
William diede un sorso alla tazza e fece una smorfia mortificata: “Sa di rimpianti”.
Grace e James si guardarono interminabilmente, chiedendosi se tra le loro conoscenze figurasse qualcuno che si fosse mai bevuto un rimpianto e potesse confermare. Ma, quando Grace assaggiò la bevanda, non potè fare a meno di capire: in effetti, sapeva di rimpianto.
“Scusate, ho interrotto qualcosa? — disse William facendo gesti tra James e Grace, nonché da capo il tè — È tanto che non vi vedete, avrete molte cose da dirvi”.
La vita è tutta una palestra per imparare a stare lontani dalle persone che ami senza sentirne la distanza, pensò Grace. Senza soffrire. Una volta l’aveva detto a suo fratello Conor, che le aveva risposto “ed io cosa dovrei dirti, ora?”
Dovresti dirmi che mi sbaglio”, gli aveva risposto Grace, “Hai vent’anni. I vent’anni sono fatti esattamente per questo”.

Interno, giorno, qualche ora più tardi.
Il sole caldo della California. Lo sciabordio dell’oceano. La quieta respirazione delle rose nel patio.

Non si è mai parlato abbastanza della difficoltà di crescere i figli altrui.
“È come scrivere con le bic”.
“Scusa?”
“Io odio scrivere con le bic, però amo il profumo che quell’inchiostro lascia sul foglio. Capisci cosa intendo?”
Non lo capiva.
Erano passati già da un po’ i tempi in cui ogni frase detta doveva essere un perfetto compendio di arguzia ed intelligenza, una specie di superstizione di stampo estetico e morale nel complicato rapporto tra lei ed il mondo. Intanto, certuni insistevano nel tenere vive le tradizioni su cui si erano intrecciate le loro esistenze, anche se nessuno ricordava più perché.
“Dobbiamo parlare seriamente”, annunziò quella specie di cartomante fuori servizio che lui si era scelto come compagna di vita.
Che palle, pensò lui. Lui era James, ma per tutti era Jimmy.
“Una tazza di tè?”, propose Grace, che non andava facendo altro da quella mattina, ma lo disse guardandolo e lo disse in quel modo che, lui lo sapeva, significava che palle. Si sorrisero. La cartomante li vide, e si rabbuiò. Matt Shadows entrò abbattendo di netto la porta d’ingresso, e non fece in tempo a sfilarsi gli occhiali da sole specchiati.
“Che cazzo è?”, chiese, indicando allarmato un brutto scheletro di cartapesta.
“È tua madre”, gli rispose la cartomante.
“Non mi sembra”.
L’orologio a cucù batté le cinque del pomeriggio.
Valary Sanders si sporse sulla ringhiera della veranda e cominciò a urlare “sciò, sciò.” in tono monocorde ad un ristretto stormo di gazze ladre che si intrattenevano in giardino.
Conor uscì dalla cantina con e braccia cariche, lanciò una bacchetta alla pendola del nonno che ancora suonava, la mancò, e ritenne di osservare — come sempre — che in famiglia ci si scervellava da generazioni a trovare nuovi modi, creativi ed il più rumorosi possibile, di rompere i coglioni.
“Infatti tu suoni la batteria”, gli rispose sua sorella Grace.
“Come lo zio James”, disse Jimmy.
“Per colpa dello zio James”, rettificò Shadows.
“Quel vecchio stronzo”, aggiunse Zacky Vengeance, portando i suoi troppi anni incastrati in un paio di ingiustificabili calzoncini alla zuava dentro l’affollato salotto. I bambini sciamavano qui e là becchettando caramelle e distruggendo le decorazioni di Halloween.
“Dobbiamo fare un figlio”, pigolò la cartomante a Jimmy, che la ignorò in un modo così plateale da risultare quasi sonoro.
“Facciamo prima il tè”, intervenne Grace, e condusse la sventurata verso i fornelli.
“Non dovevamo far mettere un muro, qui?” urlò Grace a Jimmy, muovendo il braccio come per accarezzare lo spazio vuoto tra la cucina e il salone.
Matt e Zacky si guardarono eloquentemente: “Noi chi?”
“Sì, dovevamo”, urlò Jimmy di rimando, “ma poi tu sei partita per l’Inghilterra e non ne abbiamo fatto più niente”.
“Sai perché sono andata a Londra: dovevo.”
“E volevi. Londra ti ha portata via da me e tu ti sei fatta portare.”
“C’era un motivo.”
“Un motivo che, per quieto vivere, chiamiamo Shakespeare.”
“Sai bene che è proprio per Shakespeare che ci sono andata. Il resto è accademia e maldicenze.”
Matt si chinò per sussurrare più agevolmente qualcosa a Zacky. Qualcosa che suonò come secondo te lo sanno che i loro rispettivi compagni si trovano qui con noi, in questa stanza?, ma furono interrotti da Jimmy che disse: “L’uomo che sussurrava alle chitarre ritmiche. Hai finito?”
Shadows aveva finito.
Valary no: stava ancora urlando “sciò, sciò.” alle gazze ladre.

“Dunque, parlaci di quest’Inghilterra”, aveva chiesto solennemente Zacky Vengeance. Lui, Matt, Jimmy, e Grace si erano ritirati nel piccolo spazio terrazzato che ospitava un tavolo ed alcune sedie, lontani dal baccano dei bambini, che la cartomante stava cercando di rabbonire per placare il suo desiderio di maternità, e lontanissimi da William e Conor, usciti per comprare chissà quale imprescindibile oggetto necessario al prosieguo dei festeggiamenti.
“È davvero un bel posto. Secondo me avete fatto male a mollare tutto e naufragare fin qui sul Mayflower, seicento anni or sono”.
“Chi dice seicento anni or sono al giorno d’oggi?”
“Lei dice seicento anni or sono”, spiegò Jimmy, “dice anche egregio, delucidare, interstizio, chiama piatti e bicchieri ‘stoviglie’, e sa qual è il nome del riflesso della luce sull’acqua”.
“E qual è?”
“Gibigiana.”
“Sono sconvolto.”
“Sei nato sconvolto.”
“Questo pure è un dato di fatto.”
“Come mai abbiamo smesso di drogarci?”
“Jimmy per poco non moriva.”
“Ah, sì.”
“E, invece, come mai abbiamo iniziato?”
“Pensavamo che avremmo scritto canzoni più interessanti.”
“Ed era vero?”
“In effetti, era così.”
Calò comprensibilmente il silenzio.
“Sciò, sciò.”
“Valary, smettila.”
Tanto non se ne vanno.
Grace si tirò su raccogliendo le gambe contro il petto, appoggiò la testa sulle ginocchia e guardò Jimmy: “Te la ricordi quella vecchia filastrocca sulle gazze ladre?”
Lui rise. “Come no. Una gazza porta dolore, due gazze portano gioia…”
“Valary, conta un po’ queste gazze.”, intervenne Shadows.
“Non le contare, magari non lo vogliamo sapere.”, ribatté saggiamente Zacky Vengeance.
“Sono sette.”
“Sette gazze… sette gazze sono…”
“Sono un segreto che non va mai rivelato.”, dissero Grace e Jimmy all’unisono, scambiandosi uno sguardo carico di affetto.

 

Atto II
Avevo un appuntamento

 

Si svegliò in un groviglio di lenzuola e sudore, e somigliò a qualcuno che riemergeva da un abisso in cerca di aria. L’orologio segnava le tre del mattino; quello che lei, in altri tempi, avrebbe definito il cuore della notte. Da un po’ non era più sicura che la notte avesse un cuore; o che lo avesse lei, per quel che valeva. Cercò il corpo addormentato di William due volte, prima di ricordarsi che William non era lì ma all’estero per lavoro, e che quindi i suoi occhi di ghiaccio non potevano raffreddare le fiamme che sentiva bruciare nel petto al posto dei polmoni. Si alzò ed infilò la doccia senza guardare niente; non un mobile, non un libro. L’acqua fredda le sciolse un po’ il groppo di disperazione nello sterno. Ancora fradicia d’acqua, ma più calma, afferrò il cellulare e lo chiamò.
“Will?”
“Piccola, stai bene? Un altro incubo?”
Il sollievo le sgretolò la pietra del pianto, e si chiese se sarebbe mai più riuscita a piangere, nel caso in cui le cose con William un giorno fossero andate male e lo avesse perso. Perché le cose vanno male, a volte. Capita. Terribilmente male. Può succedere. A chiunque. In qualsiasi momento. Anche se è già esausto, anche se non ha ormai più lacrime, anche se non ne può già più. Le venne la paradossale nostalgia di riuscire ad affrontare il dolore intera ed esserne devastata, invece di avere la sensazione che qualsiasi nuovo dolore finisse per abbattersi su un edificio già marcio e pericolante, e che nessuna tragedia potesse più fare la differenza. L’inglese ha una parola per tutto. Dull. Una particolare sfumatura di vuoto, un preciso tipo di inerzia. Pietrificata e insofferente, le sembrava che il cervello volesse ritirarsi da qualsiasi attività più complessa di un sospiro. Le pesava qualsiasi cosa, tremendamente ed inesorabilmente, per di più in un modo vuoto e stanco che non aveva alcun senso spiegare.
“Mi manchi tanto, Will”
“Anche tu mi manchi, piccola. Torno presto. È questione di giorni, lo sai”.
Cosa doveva fare? Farsi trovare viva per non turbare la pace del suo solenne e gentilissimo fidanzato? Sempre così presente, mai una parola fuori posto, sembrava uscito da una fabbrica di fidanzati ideali, o direttamente dai sogni di sua madre. Lo rassicurò, oppressa da un training lungo una vita sull’importanza di non arrecare disturbo alla gente, e chiuse la chiamata. In salotto accese le lampade più discrete che c’erano, mise un disco dei Dire Straits e si stese davanti al camino spento, pregando per niente in particolare, se non che le passasse il vuoto, e si ricordò una frase letta una volta in un libro, che diceva è più facile morire di niente, che di dolore. Al dolore si reagisce, al niente no.

Gettò un’occhiata distratta alle carte sulla scrivania e le vennero in mente i giorni e le settimane passati a scarnificare il Re Lear. Quanto tempo occorre per spogliare qualcosa… Vestire le sembrò, allora, un gesto molto più fluido e immediato. Si rese conto, con la forza di un’illuminazione, che mettere è sempre molto più semplice che togliere. Pensò a quanto è facile prendere un’abitudine o sviluppare una dipendenza, e quanto invece è complicato abbandonarla. Doveva essere qualcosa che aveva a che fare con l’istino naturale dell’uomo all’aggiunta, all’accumulo e all’addizione.
Ma se aggiungere è spesso confortante (anche se a volte rischia di trasformarsi in un fardello), togliere è sempre terapeutico. Magari, perfino rivelatore.
“Una cosa è certa”, disse ad alta voce, “occorre un coraggio che nessuno di noi ha. eppure, ce lo dobbiamo per forza inventare. Non è un caso che la strada per il paradiso sia una scala in salita, e quella per l’inferno un comodo scivolo”.
Forse il punto era smettere di insistere ad aggiungere, a far camminare quel cervello così stanco da non tollerare neppure i sospiri. Forse quel niente le serviva da reset. 

William era arrivato alla quarta telefonata in otto ore.
“Se chiama un’altra volta, appena torna lo ammazzo. Poi lo abbraccio. Ma per prima cosa lo ammazzo.”
“Certo che sei strana forte.”
“Non capisco perché si preoccupi tanto."
“Rettifico, non sei strana: sei fuori di testa. Lo hai chiamato nel cuore della notte, è il tuo fidanzato, sa che stai passando un periodo difficile, è il tuo fidanzato, il suo lavoro lo tiene lontano e non può starti accanto come vorrebbe, tu stai male ed è preoccupato per te: è il tuo fidanzato.”
“Non sono sicura di aver capito, è il mio…?”
“È il tuo fidanzato. Lo stesso uomo che ti è stato amico e confidente, prima, e che hai mandato al manicomio per mesi, anche se ti piaceva moltissimo. Perché sei fuori di testa. Quello che, prima di chiederti di sposarlo, a chiesto a me sei volte se era una buona idea; perché lo sa bene, che sei fuori di testa. E tu lo sei, fuori di testa.”
“Il tuo camice è così bianco da essere quasi catarifrangente, mi fa male a guardarlo” disse Grace ridendo, e nello schermo del suo telefono l’amica di una vita alzò le sopracciglia fin quasi a staccarsele. Si sentì gracidare debolmente una rana in lontananza. La rana, precisamente, era una raganella australiana; si chiamava Alfonso.
“Io lo so come sei tu.”, andò avanti l’Oracolo Meridionale, gettando il cuore oltre l’ostacolo che in questo caso era la rana, “Tu sei romantica. Tu infili i fiori nei vasi vuoti in casa di chiunque, apri le finestre per far passare l’aria, mi scrivi per mesi elencandomi sei cose impossibili prima di colazione perché ti sembra una buona idea; tu costruisci cattedrali, sempre, ovunque. Non importa quanto sia misero il materiale con cui ti ritrovi a doverlo fare, tu prendi due assi di legno e tiri su Nôtre Dame, ed anche se quel legno sa perfettamente di non essere altro che comune, stronzissimo legno, in mano a te si sente pietra santa. Perché tu sei fatta così.”
Grace bucò con lo sguardo il vetro della finestra davanti a sé, oltre la quale Londra sonnecchiava sotto un manto di neve.
“Nôtre Dame è bruciata, Oracolo.”
“Come?”
La ragazza spostò gli occhi di nuovo sull’amica, che aveva ingaggiato una feroce battaglia contro lo stetoscopio intorno al suo collo.
“Nôtre Dame è bruciata.”
L’Oracolo le gettò un’occhiata saggia, uscita dal buio di diverse ere.
“Ma è esistita.”
La rana sullo sfondo assentì, molto distante.

“Devo andare, Will”.
Un bacio più fugace di un’ostia e Grace era già fuori dalla porta, con un libro in mano ed una borsa ricolma dio sapeva di cosa. William si spettinò con una mano e con l’altra resse il pesante uscio di legno e metallo, indeciso se lasciarla andare oppure mettersi una buona volta di traverso tra lei e tutto il resto e scavalcare scalzo lo zerbino per frapporre se stesso tra il mondo fuori e la donna che amava. E non capiva.
“Devi proprio andare, tesoro?”
“Devo proprio andare.”
“E non posso venire con te?”
Grace pensò che i suoi anni le sembravano mille, e che non era bastato uno stuolo di amici che l’avevano vista bambina e con lo sguardo l’avevano accompagnata ovunque la sua testa dura volesse andare per metterla al sicuro dalle eccezioni; lo dimostrava il fatto che era riuscita a trovarsi un compagno che era anche l’unico uomo inglese mai esistito che ritenesse un suo preciso dovere dimostrarle affetto continuamente. William la adorava come un’icona sacra, non faceva che baciarle le mani e chiederle se fosse tutto ok, ed ogni volta che provava a farlo presente all’Oracolo questa le rispondeva dal turno in ospedale ricordandole, a giusta ragione, che era fuori di testa.
Non aveva cuore, né forza, né motivi per dirgli che due occhi azzurri la svegliavano ogni notte, che probabilmente sarebbe stato così per tutta la vita, e che non erano i suoi.
Tornò indietro sui suoi passi per baciarlo di nuovo, questa volta sul serio, senza rispondere alla domanda.
Ipocrita.
C’era una voce nella sua testa.
Lui lo sa. Lo ha sempre saputo e non può accettarlo, quindi finge che non sia vero. È la strada più semplice, lo sai anche tu. E ti sta bene. Perché non lo lasceresti per nulla al mondo, lo ami, ma è un amore che non ha niente a che vedere con l’amore. E sai anche questo.
“Ti prego, lascia che ti accompagni.”
Grace strinse le dita intorno al libro che aveva in mano.
“D’accordo.”, disse.
Ipocrita

L’aereo era atterrato in ritardo e le mancava l’aria.
Conor le andò incontro sventolando una felpa che non serviva a nulla, in quel periodo dell’anno. La investì un fortissimo odore di oceano non appena le porte della lobby si dischiusero sulla realtà.
“Will, fratellone! Ci sei anche tu!”
Si abbracciarono in quel modo in cui William lo abbracciava sempre, come aggrappandosi ad una parte di Grace che esisteva fuori di lei e che — lo sapeva bene — Grace amava più di qualsiasi altra cosa.
Sentiva il vestito aderirle addosso per qualcosa che non era il caldo della California, e fu grata dell’aria che le schiaffeggiava il viso sulla decappottabile nera. Inspirò forte le note di agrumi nel vento e quasi non si accorse che si erano fermati in un viale che conosceva bene, con le siepi di ligustro ai lati potate con la precisione di chi cerca disperatamente una pace mentale che gli sarà preclusa fino alla fine del mondo.
Un uomo anziano le aprì la portiera dell’auto e le porse una mano per aiutarla a scendere; in quella stretta riconobbe la familiarità che le stritolava lo stomaco.
“Grace”, disse l’uomo, “come stai, figlia mia? Barbara sarà furiosa, penserà che non mangi.”
“Joe”, disse Grace, senza riuscire a fermare una lacrima.
Smise di sentire qualsiasi rumore mentre entrava in casa, lasciava che Barbara la abbracciasse e la rimproverasse di essere troppo magra, riconosceva quel divano, quella piccola libreria, quella collezione di foto alle pareti, sorpassava la cucina, — forse William le sfiorava un braccio, o forse uno spiffero l’aveva trovata — entrava nel giardino sul retro e lontana da tutto, colta da un capogiro, crollava in ginocchio tra le rose.

   
 
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