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Autore: inzaghina    10/12/2020    8 recensioni
A diciassette anni Steven Hughes era convinto di vivere una vita praticamente perfetta: si divideva tra la scuola, il campo da football e la ragazza dei suoi sogni. A seguito di una notizia sconvolgente però, comprese quanto fosse difficile opporsi a un destino apparentemente già scritto e come fosse ancora più arduo accettare il futuro che lo attendeva.
Il ruolo di quarterback era il più invidiato, il più conosciuto e quello che potenzialmente apriva il maggior numero di porte che conducevano a un futuro brillante — eppure non si poteva negare quanto al tempo stesso fosse solitario e difficile.
[Storia partecipante al contest “Wr-Ink-Tober” indetto da fantaysytrash sul forum di EFP e al “Gioco di scrittura” del gruppo Caffè e Calderotti]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Brooklyn Tales'
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Destino infausto


 
 
New Orleans, ottobre 1945
 
L’aria umida della sera era permeata dal profumo inebriante dei fiori di calendula e pervinca che crescevano rigogliosi nel terreno paludoso sul quale sorgeva la città affacciata sul Mississippi. Nuvole dense di pioggia fluttuavano nel cielo plumbeo, minacciando lo scoppio di un temporale che sarebbe stato salutato con gioia dalla città, dopo un’infinita estate torrida.
Jasper Hughes andava di fretta: ansioso di raggiungere la sua destinazione e di mettere fine a una relazione che si era trascinata troppo a lungo e gli si era appiccicata addosso come il clima soffocante della Louisiana. Poco gli importava del contratto tra gentiluomini che suo padre Sébastien e l’amico di vecchia data Maurice Bergeron avevano stretto prima che lui partisse per combattere in Europa, non era innamorato di Cecile Bergeron e non aveva alcuna intenzione di sposarla. Il suo cuore aveva iniziato a battere per Amélie LeBlanc sin dal momento in cui i loro sguardi si erano incrociati, a pochi giorni dal suo ritorno dalla Francia, e Jasper aveva promesso eterno amore a quella diciottenne il cui sguardo di giada riusciva a leggerlo come nessuno era mai riuscito a fare prima.
Sarebbero partiti alla volta del nord la settimana successiva, con l’intento di raggiungere New York e sposarvisi prima della fine dell’anno; era certo che Cecile avrebbe capito, del resto nemmeno lei lo amava e lo avrebbe sposato solo per rispetto nei confronti del padre. Con la testa affollata da questi pensieri, Jasper raggiunse casa Bergeron e suonò alla porta ansioso di parlare con Maurice e sua figlia.
“Signor Hughes, che sorpresa… siete qui per vedere Mademoiselle Cecile?” chiese la domestica Georgette, spostandosi per lasciarlo entrare.
“In realtà speravo di parlare con Monsieur Bergeron,” ribattè, seguendola nell’ampio ingresso illuminato da un vistoso lampadario di cristallo.
“Mi duole informarla che il signore è via per lavoro e tornerà la prossima settimana.”
Jasper emise un mormorio deluso, ma non si perse d’animo. “Allora parlerò con Cecile se possibile,” rispose quindi, tentando di suonare tranquillo.
“Certamente, la faccio chiamare subito,” annuì l’anziana donna, facendo segno a una cameriera di andare a chiamare l’unica figlia del padrone di casa e della defunta moglie.
“Posso offrirle qualcosa nel frattempo? Magari del tè freddo?”
“No, grazie. Non mi tratterrò a lungo.”
La donna rimase sorpresa dalla risposta, ma assentì, per poi fargli strada fino al salotto, dove fu immediatamente raggiunto dalla creatura che lei stessa aveva allevato come se fosse una figlia.
 
Non era nemmeno passata mezz’ora quando Georgette udì la porta d’ingresso chiudersi e raggiunse una Cecile dall’espressione sconvolta, che rimase per alcuni minuti in un ostinato silenzio.
“Che succede, ma belle?”
“Jasper ha deciso di andare a New York.”
“Che ne dirà vostro padre? Sapervi così lontana sarà un dolore immenso.”
“Non andrò con lui,” confessò Cecile, battendo lentamente le palpebre.
“No?” Georgette non riuscì a nascondere lo sgomento dalla propria voce.
“Non vuole più sposarmi.”
“Come osa?” s’adirò la governante, stringendo la delicata mano della ragazza tra le proprie.
“In fondo è giusto così, noi non ci amiamo, Georgette… avemmo solamente sofferto se ci fossimo sposati,” sospirò Cecile, “lui si è innamorato di una ragazza e giustamente vuole sposare lei.”
Il viso d’ebano della domestica fu attraversato da un lampo d’ira, presto sostituito dal desiderio di vendicare il torto subito dalla sua adorata bambina.
“E a voi non pensa?”
“Io ho apprezzato la sua onestà e spero che potrà farlo anche il mio caro papà…”
“Non credere che sarà così semplice, ma belle! Come osa sfidare in questo modo il nobile nome dei Bergeron? Che ne dirà la comunità?”
“Evidentemente non era destino…” singhiozzò la ragazza, cercando conforto nell’abbraccio dell’unica madre che aveva conosciuto.
“Vedrai che ne sarà del suo di destino! Nessuno spezza il tuo cuore senza pagarne il prezzo,” giurò l’anziana donna, stringendo Cecile a sé e asciugando invano le lacrime che cominciarono a cadere copiose come la pioggia tanto agognata.
 
Poche ore più tardi, infradiciato fino alle ossa, Jasper raggiunse la casa di Amélie per comunicarle la fine ufficiale del suo fidanzamento con Cecile e progettare insieme alla donna che amava il futuro felice a cui anelavano — inconsapevole di come quella semplice scelta avrebbe influito in maniera indelebile sul loro avvenire. La luce dei fulmini che illuminava a sprazzi la città, non lasciava spazio per i dubbi, in quel momento contavano solo le labbra di Amélie premute contro le sue e la notizia riguardo all’allargamento della loro piccola famiglia che lei gli aveva appena comunicato. Era convinto che anche Cecile avrebbe trovato l’amore lontano da lui e che quella decisione avrebbe giovato a entrambi.
Ignorava che in quello stesso momento Georgette e il fratello stessero effettuando un antico rito di cui lui e la sua famiglia sarebbero stati vittime negli anni a venire — si rifiutava di pensare che un sentimento puro e incontrovertibile come quello che legava lui e Amélie lo avrebbe portato a una vita costellata dal dolore e caratterizzata dalla solitudine.

 
 
Manhattan, ottobre 1993
 
Jasper Hughes III misurava a grandi passi la sala d’attesa del reparto ostetricia dell’ospedale Mount Sinai, nella trepidante attesa di notizie riguardo alla nascita del suo primogenito. L’uomo, su esplicita richiesta della moglie Marylin, non avrebbe assistito al parto e negli anni a venire avrebbe sempre ricordato con tenerezza e nostalgia le sensazioni provate nella tiepida giornata ottobrina che stava volgendo al termine. Quando la luce aranciata del crepuscolo, che rispecchiava al meglio sia le sfumature delle foglie attaccate agli alberi che di quelle già cadute al suolo, fu raggiunto da suo padre Jasper Hughes Jr., che lo convinse a sedersi e prese posto al suo fianco.
“So bene quanto tu sia agitato, figliolo.”
“Forse avrei dovuto insistere ed essere al suo fianco…”
“Tienilo a mente per la prossima volta,” gli suggerì il padre.
“Credevo che noi Hughes non riuscissimo ad avere più di un figlio,” borbottò il più giovane.
“Ah, ma io spero che tu possa rompere questa tradizione, se così la vogliamo chiamare,” dichiarò enigmaticamente il padre, dopo essersi schiarito la gola.
“Vediamo come andrà con il primo e poi ci penseremo…”
“Figliolo, forse non è il momento più adatto, ma al tempo stesso è urgente che io ti racconti qualcosa di molto importante.”
Le iridi del futuro padre saettarono verso il viso dell’uomo più anziano, sorprendendosi d’imbattersi nell’espressione seria che era solito sfoggiare durante le riunioni di lavoro più cruciali.
“Mi stai spaventando, papà,” lo avvertì quindi, continuando a scrutarlo.
“Mi dispiace, ma quello che sto per dirti non è affatto facile, eppure è necessario che tu lo sappia prima di diventare padre.”
Il figlio rimase in silenzio, spingendolo a proseguire, così Jasper Jr. prese un respiro profondo e iniziò il proprio racconto. “Ricordi di come il nonno e la nonna s’innamorarono a prima vista e scelsero di cominciare da zero venendo New York, dove ebbero me appena qualche mese dopo essersi stabiliti qui, nonostante lui avrebbe dovuto sposare un’altra donna?”
“Certo, Marylin sostiene che sia la storia più romantica che abbia mai sentito…”
“Beh, in realtà questa loro scelta avventata spinse la governante della promessa sposa di tuo nonno a maledire lui e tutta la sua stirpe attraverso un rito vudù, augurandogli ogni genere di sofferenza e patimento.”
“Un rito vudù?” il tono di Jasper III era a dir poco sbalordito e attirò più di un’occhiata tra gli altri presenti.
Il padre annuì.
“Non mi starai dicendo che credi a simili sciocchezze, papà!”
“La governante dei Bergeron era una strega molto potente, proveniente da un’antica stirpe di stregoni vudù.”
“Non mi sembra che la stirpe nel nonno sia stata particolarmente sfortunata; voglio dire è riuscito a creare un impero dal nulla, un’azienda di famiglia molto fiorente che tu hai portato avanti con successo, nella quale io ti sto aiutando e che spero di poter lasciare a mio figlio un domani.”
“La maledizione di cui il nonno fu vittima riguardava l’ambito amoroso.”
“Eppure mi sembra che tutti noi abbiamo trovato il vero amore,” s’intestardì il futuro padre.
“Certo, ma se ci rifletti ricorderai che mia madre morì dando alla luce mia sorella e nemmeno lei riuscì a sopravvivere per più di qualche settimana; che mio padre, nonostante la giovane età, non si risposò mai preferendo una vita in solitudine piuttosto che sostituire la sua amata Amélie; che tua madre ebbe sei aborti prima che rinunciassimo ad avere altri figli dopo di te e Dio solo sa quanto abbia sofferto per colpa della malattia che ha finito per portarsela via…”
Ascoltando il padre snocciolare le tragedie di famiglia, Jasper si trovò a pensare che forse non avrebbe dovuto affatto sposarsi e creare una famiglia con Marylin. “Perché non me l’hai mai raccontato? Avevo il diritto di saperlo!”
“Ma sei le hai appena chiamate sciocchezze,” obiettò il genitore, scuotendo la testa.
“Questo era prima di scoprire che rischiavo di condannare a morte mia moglie e infliggere un destino altrettanto tragico a mio figlio.”
“Sono sicuro che non ci sia nulla di cui preoccuparsi, questo è un ospedale eccellente e tua moglie è in ottime mani.”
“Non credo nemmeno io che corra alcun rischio in questo momento, quanto piuttosto in futuro. Cosa mi consigli di fare, papà? Lo devo raccontare a Marylin?”
“Io credo di sì, ovviamente non oggi e probabilmente nemmeno a breve, ma è importante che tu lo condivida con la donna che ami.”
“E poi? Cosa dovrei fare con nostro figlio? Come posso proteggerlo?”
“Inizierei evitando di chiamarlo Jasper Hughes IV,” consigliò l’uomo, piegando le labbra in quello che si augurava fosse un sorriso rassicurante.
“Marylin non ha nemmeno voluto considerare questa opzione…”
“Saggia ragazza!”
 
Qualche ora più tardi, osservando il figlio incantato cullare tra le braccia il nipote appena nato, Jasper Hughes Jr. si commosse, augurandosi che la scelta di un nome differente potesse essere sufficiente a proteggerlo dalla maledizione di famiglia e che il piccolo Steven riuscisse a spezzare quella catena di sventure.

 
 
Brooklyn, ottobre 2010
 
Lanciando un'ultima occhiata al timer sul tabellone che troneggiava sul campo da football, Steven Hughes prese la decisione di non lanciare la palla e di procedere lui stesso alla disperata ricerca di un touchdown che avrebbe consegnato la vittoria alla sua squadra. Fu una questione di attimi, oltre che di centimetri, e quando il fischio finale riecheggiò nello stadio gremito, e la sua squadra lo raggiunse per un abbraccio di gruppo, seppe di aver fatto la scelta giusta.
Il ruolo di quarterback era il più invidiato, il più conosciuto e quello che potenzialmente apriva il maggior numero di porte che conducevano a un futuro brillante — eppure non si poteva negare quanto al tempo stesso fosse solitario e difficile.
Uscito dagli spogliatoi trovò Sophie ad aspettarlo e la ragazza gli corse incontro per abbracciarlo.
“Sei stato fantastico!” lo elogiò.
“Questione di fortuna…”
“Non sminuirti, Steve, quell’ultima meta è stata fenomenale e il fatto che tu l’abbia segnata proprio stasera quando c’erano gli osservatori delle università più prestigiose risulterà fondamentale per il tuo futuro.”
“Sei la mia fan più entusiasta,” sorrise Steve baciandola.
“Che ne dici se ce ne andiamo da qui?”
“Cosa avevi in mente?”
“Io e te che ce la svigniamo con la tua auto nel nostro posto preferito…”
“Gli altri vorranno festeggiare,” mormorò il ragazzo, lanciando un’occhiata distratta ai compagni di squadra.
“Come preferisci tu, possiamo anche rimandare.”
Steve scosse la testa. “Voglio stare con te,” le sussurrò contro le labbra, prima di mordicchiare quello inferiore e trascinarla verso il parcheggio.
“Vale lo stesso per me,” lo rassicurò Sophie, correndo al suo fianco.
 
Una volta raggiunta la loro spiaggia, Steve ebbe appena il tempo di parcheggiare prima di ritrovarsi a inseguire Sophie che ridendo si toglieva scarpe e calze per raggiungere il bagnasciuga e lasciare che le onde le lambissero le caviglie, incurante dell’aria fredda che spirava dal mare.
“Cosa aspetti?” gli urlò divertita.
“Non finiremo col prenderci un malanno, vero?”
“Non fare il bambino,” lo rimbeccò spruzzandolo, prima di uscire dall’acqua per togliersi i jeans ed evitare che si bagnassero. “Hai sempre amato anche tu i bagni di notte…”
“In estate, ti ricordo che ormai siamo a ottobre.”
“Ma non lo sai che l’acqua è più calda di notte?”
“Sei tutta matta,” bofonchiò Steve afferrando la sua mano per attirarla a sé.
“Mhmm, forse…” concesse Sophie, posando le proprie labbra su quelle di Steve e facendogli dimenticare tutto quanto — i pensieri sul futuro potevano attendere, così come la scelta sulla scuola più giusta per sfruttare al meglio il suo potenziale.
Quando Sophie lo baciava il resto del mondo perdeva importanza ed era come se lui stesso diventasse diverso: non era più uno dei ragazzi più popolari della scuola, né il capitano della squadra di football e neppure il figlio privilegiato di una famiglia agiata che aveva avuto praticamente tutto dalla vita. Nei momenti che condivideva con Sophie erano i suoi sentimenti per lei a totalizzare ogni sua emozione, intensificando all’inverosimile ogni sensazione; questo avrebbe potuto spaventarlo, ma in realtà lo rendeva solo estremamente felice.
Osservando Sophie togliersi anche la felpa e la maglietta scosse la testa, consapevole che si sarebbe ben presto trovato anche lui seminudo a fare un bagno che non aveva affatto preventivato, adorandola per il modo in cui assaporava ogni attimo. La sua vita era dannatamente perfetta e si sentiva il ragazzo più fortunato del mondo, non riusciva a immaginare nulla che avrebbe potuto rovinarla; era inconsapevole che il destino avesse altri programmi, che lo avrebbero reso vittima della solitudine nella vita di tutti i giorni — oltre che sul campo da gioco.
 
Erano passate quasi due settimane da quando il mondo gli era crollato addosso, tre giorni dalla dannata sera che aveva spezzato due vite e spedito all’ospedale Sophie; da quel momento Steven non aveva più messo piede a scuola e usciva da casa solo per andare a comprare alcol sottobanco e bere fino a stordirsi.
Suo padre stava morendo e non c’era nulla che potesse fare per evitarlo.
Lui sarebbe diventato l’uomo di casa, quando non era nemmeno sicuro di essere in grado di occuparsi di se stesso.
 
“Figliolo, c’è una cosa che devo dirti…”
“Non può aspettare, papà? Dovrei incontrarmi con Jake per andare ad affittare lo smoking per il ballo.”
“Temo di no.”
Steven s’avvide del tono di voce del padre e prese posto accanto a lui sul divano. “Che succede?”
“Sto per morire, Steve.”
“Cosa? Come è possibile?”
“Un cancro al cervello inoperabile.”
“Non puoi consultare un altro medico? Sentire un ulteriore parere?”
“Ho già consultato sette tra i migliori esperti e la prognosi è sempre la stessa…”
“Quanto tempo ti rimane?”
“Mesi, forse settimane…”
“Perché non me lo hai detto subito?”
“Non volevo rovinare il tuo ultimo anno, l’homecoming per cui eri così eccitato, ma adesso mi sono reso conto che non potevo attendere oltre per comunicarti questa notizia; i dottori non sanno quando cominceranno a esserci i primi effetti sul mio modo di parlare, sulle capacità motorie e sui ricordi.”
“Oh, papà!” Steven lo strinse a sé, incurante delle lacrime che gli scorrevano lungo le guance.
“Spero tanto di poterci essere quando ti diplomerai, ma non sono sicuro che sarà possibile…”
“Shh, non voglio sentirti parlare di questo. Dicono che il pensiero positivo sia particolarmente importante per guarire.”
“Vorrei che fosse così semplice, figliolo.”
Steven annuì testardamente. “Ci sono anche degli studi al riguardo.”
“Purtroppo temo che non possa funzionare con un glioblastoma, Steve. Prima accetti questa diagnosi e più facile sarà abituarti alla mia prognosi.”
“Non lo voglio accettare!”
“So che è difficile, Steve.”
“Come puoi saperlo? Sarai tu ad andartene e a lasciarmi da solo!”
“Ci saranno tua madre e tua sorella con te…”
Steven scosse rabbiosamente la testa, tirando rumorosamente su con il naso. “Non è la stessa cosa.”
“Lo so, ma ti chiedo fin da ora di prenderti cura di loro…”
Il ragazzo annuì.
“E ora che ne dici se ti accompagno ad affittare quello smoking?”
“Non mi sembra il caso di andare al ballo, papà.”
“Non devi mettere in pausa la tua vita a causa mia, Steve.”
“Nulla è più importante di questo.”
“Il tuo futuro lo è sicuramente.”
“Che si fotta il futuro, tanto non mi servirà nessuna laurea per lavorare nell’azienda di famiglia!” urlò il ragazzo, prima di correre al piano superiore e sbattersi rabbiosamente la porta della propria camera alle spalle.
 
 
Da quel giorno collera e apatia erano diventate le compagne di ogni suo giorno: aveva saltato le lezioni senza nemmeno darsi la pena di far credere ai genitori che stesse andando a scuola, non si era più presentato agli allenamenti, aveva smesso di vedere Sophie, ignorandone le chiamate e le visite, così come con quelle di Jake e del resto dei suoi amici.
La sera del ballo però, aveva raggiunto la palestra della scuola ed era rimasto nell’ombra osservare Sophie arrivarci accompagnata dalle sue amiche, l’aveva vista spingere Maddy a ballare con Oliver, ingoiando la rabbia che rischiava di fagocitarlo — odiandola perché era felice, nonostante lui l’avesse abbandonata senza una spiegazione, e augurandosi che lei e il resto del mondo soffrissero come lui. Aveva stretto i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi quando aveva visto Lucas raggiungerla a bordo pista per parlare con lei, per poi cadere vittima dell’ira quando le braccia del ragazzo si erano posate sulla sua schiena mentre danzavano insieme sulle note di una romantica ballata. Aveva rischiato di farsi scoprire quando i due erano usciti dalla palestra, ma le labbra di Lucas si erano schiuse su quelle di Sophie distraendoli entrambi e Steven aveva sentito il cuore spezzarsi, prima di cercare rifugio nella bottiglia di scotch rubata dalla dispensa di casa.
 
Non poteva ipotizzare che, di lì a poco, una macchina guidata da un autista ubriaco avrebbe spento per sempre il futuro di Maddy e Ollie, né che Sophie e Lucas sarebbero finiti in ospedale.
E la colpa era stata solo sua.
La maledizione inflitta alla sua famiglia aveva colpito ancora — non solo gli stava portando via il padre anzitempo, gli aveva anche tolto la ragazza che amava e due cari amici. Ricordava di aver trovato addirittura divertente la storia raccontatagli dal padre l’estate precedente, durante la loro annuale vacanza in campeggio in solitaria. Aveva trovato assurdo che un uomo pragmatico come Jasper Hughes III potesse credere ad assurdità come le maledizioni vudù, eppure il destino aveva deciso di dimostrargli quanto sbagliasse a prendere sottogamba una situazione simile.
 
Dopo quasi un mese di assenza, sotto minaccia del padre, Steven si decise a tornare a scuola, credendosi consapevole dell’accoglienza che gli sarebbe stata riservata.
Ancora una volta però, aveva preso un abbaglio.
Negli sguardi dei suoi compagni non c’era spazio per l’accusa, vi albergavano invece la pietà e la vana ricerca della cosa giusta da dirgli.
E Steven non sapeva che farsene di tutto questo, voleva solo essere lasciato in pace e tentare, almeno in parte, di rendere orgoglioso suo padre. Non sarebbe mai tornato a essere il ragazzo spensierato di prima: non c’era più spazio per lui, per i suoi amici, per lo sport in cui eccelleva, per i suoi desideri infantili e per i suoi inutili sogni di gloria. Doveva solo riuscire ad arrivare alla fine dell’anno e ottenere il diploma come aveva promesso a suo padre — nell'effimera speranza che l’uomo potesse assistere a questo momento.
 
Con la fine delle vacanze di Natale, prima Lucas e poi Sophie tornarono a scuola ricevendo un’accoglienza speculare a quella che era stata riservata a Steven in autunno e odiandola esattamente quanto lui. Essendo in due anni diversi, Steven aveva la fortuna di non incrociare Sophie a lezione, ma lo stesso non valeva per Lucas con cui seguiva sia inglese che matematica.
“Mi spiace per tuo padre,” disse Lucas quasi due settimane dopo il suo ritorno a scuola rivolgendogli per la prima volta la parola, dopo che l’insegnante li ebbe appaiati per un progetto di letteratura.
“Grazie,” borbottò Steven. “Come va il braccio?”
“Meglio, fortunatamente è stata una frattura composta.”
Steven annuì, osservando la fasciatura che ancora impediva al compagno di tornare a giocare a basket.
“Senti, non so cosa pensi dell’homecoming e di quanto è successo quella sera, ma…”
“Non penso niente,” lo interruppe Steven, “ho scelto di non venire quando avrei dovuto guidare io, nessuno sa cosa avrebbe potuto succedere, ma è innegabile che ci sarei stato io al posto di guida invece di Ollie… chiunque può trarre le conclusioni che più preferisce, tanto me ne fotto di quello che pensano gli altri.”
Lucas lo scrutò, rimanendo in silenzio a lungo. “Per quel che vale io non penso che la tua assenza abbia cambiato nulla.”
Steven si mordicchiò il labbro, assalito dalla voglia di affrontare Lucas e pregarlo di smetterla con quella facciata ipocrita, perché tanto la sua comprensione non gli serviva a nulla. Eppure non lo fece, consapevole di quanto anche lui stesse soffrendo, oltre che del fatto che lui e Sophie sembravano evitarsi molto accuratamente nei corridoi e non li aveva mai visti insieme dopo il ballo. Avrebbe voluto odiarlo per averla baciata e averla fatta ridere quella maledetta sera, ma l’amara verità era che aveva rinunciato al cuore di Sophie nel momento stesso in cui aveva scelto di spezzarglielo, allontanandola da sè.

 
 
Brooklyn, ottobre 2011
 
Fatalità volle che Steven si trovasse proprio insieme a Sophie, nel momento in cui il destino gli giocò l’ennesimo orribile scherzo; ci era voluto del tempo, ma era riuscito a riallacciare il rapporto con lei e offrirle la sua amicizia. Il giorno del Ringraziamento era sempre più vicino e Steven sperava di potersi godere qualche altro momento felice insieme al padre durante le festività — consapevole di quanto imminente fosse ormai la sua fine, visto che aveva battuto ogni più rosea aspettativa di vita. Allo squillo del suo cellulare fu investito da una sensazione di terrore e la voce di sua madre non fece che confermare i suoi sospetti: suo padre se n’era andato.
Si sentì soffocato dalle pareti della biblioteca, il telefono gli cadde dalle mani e Sophie lo strinse a sé in un abbraccio così simile, eppure così diverso, da quelli che era solita dargli quando stavano insieme — abbracci dai quali sembrava passata una vita.
“Mi dispiace così tanto, Steve,” gli mormorò contro il petto, ascoltando il battito forsennato del suo cuore.
“Grazie,” rispose, aggrappandosi a lei, battendo furiosamente le palpebre per tentare invano di fermare il flusso di lacrime.
“Avrei solo voluto che riuscisse a godersi le sue ultime feste, ma immagino di essere già stato fortunato che abbia assistito al mio diploma…”
“Sono sicura che si pregustasse questo periodo speciale anche lui,” mormorò Sophie, scrutandolo intensamente, prima di stringerlo ancora.
“E avrei tanto voluto non finire con il rovinare tutto quanto,” ammise il ragazzo, dopo una pausa protrattasi per alcuni minuti.
“Avresti solo dovuto essere sincero con me. Pensavi forse che non avrei capito?” le iridi limpide di Sophie si adombrarono e Steven si diede mentalmente dello stupido — di nuovo.
“Non capivo nemmeno io…” abbassò gli occhi, concentrandosi sulle loro dita intrecciate.
“Avrei voluto starti accanto in un momento così difficile,” proseguì Sophie, inchiodandolo con lo sguardo e costringendolo a ricambiare la sua occhiata.
“Lo desideravo anche io, ma non si può tornare indietro e purtroppo non sapremo mai come sarebbero cambiate le cose se io avessi scelto di aprirmi con te…”
“Sai bene che non ti ritengo affatto responsabile per l’incidente che ha ucciso Maddy e Ollie.”
“Tu no, ma io sì.”
“Non sei stato tu a costringere quell’autista irresponsabile a bere fino a ubriacarsi, Steve.”
“Eppure non posso che ammettere il fatto che quella scelta scellerata abbia fatto precipitare la mia vita in un vortice di dolore e perdita…”
“Chiunque sarebbe rimasto sconvolto da una simile notizia.”
“Ma non credo che chiunque avrebbe lasciato andare a rotoli la propria vita, rinunciando a ogni sogno futuro e distruggendo un legame come quello che condividevamo noi due…”
“Steve…”
Il ragazzo la interruppe, “non ti sto facendo questo discorso per chiederti una seconda possibilità, Sophie… so di non meritarmela, così come so che ami Lucas ormai.”
“Tutti meritano una seconda possibilità, ma evidentemente non era destino per noi.”
“Credo che la solitudine sia preferibile per uno come me…”
“Spero che tu ti stia sbagliando, ti voglio troppo bene per immaginarti solo per il resto dei tuoi giorni.”
“Meglio restare solo che soffrire come ho fatto negli ultimi mesi,” la rassicurò alzandosi, “meglio che raggiunga mia madre, ora.”
“Certo, passerò a trovarvi più tardi se per te va bene.”
Lui annuì, sfiorandole la spalla. “Sei stata il mio primo amore e non lo dimenticherò mai,” mormorò, posandole un lieve bacio sulla guancia prima di lasciarla sola.
                                                                                                                                             
Negli anni a venire si sarebbe tormentato, chiedendosi se lasciarla andare fosse stata la scelta giusta, o se avrebbe dovuto lottare per lei — per loro.
Quando venne a sapere che lei e Lucas si sarebbero sposati però, non c’era spazio alcuno per i rimpianti ed era sicuro di averla compiuto la scelta migliore. La solitudine era un piccolo prezzo da pagare, rispetto alla consapevolezza di averla salvata da quello che, al suo fianco, avrebbe rischiato di essere un destino infausto.

 
 



Note dell’autrice:
Questa storia partecipa al contest “Wr-Ink-Tober” indetto da fantaysytrash sul forum di EFP e ringrazio tanto fantasy per aver indetto il contest e avermi spinta a scrivere di Steven; la storia partecipa inoltre al “Gioco di scrittura” del gruppo Caffè e Calderotti con il prompt: 2. Angst Steven Hughes (direi che in questo caso sono stata piuttosto fortunata che un simile prompt capitasse a questo personaggio.
Era da tanto tempo che desideravo approfondire Steven, che era poco più di un nome quando ho scritto la prima storia appartenente a questa serie, e a cui sono finita con l’affezionarmi tanto. Spero di essere riuscita a mettere in evidenza la solitudine che, dall’ottobre del 1945 in poi, caratterizza le vite degli uomini imparentati con Jasper Hughes — anche se mi piace pensare che, forse, Steven riuscirà a spezzare questa maledizione, avendo fatto una serie di scelte altruiste.
Un paio di note esplicative relative alla tempistica della storia: il contest richiedeva che la storia fosse ambientata in ottobre e quindi ho fatto in modo che la quasi totalità delle scene accadesse in quel mese (a eccezione del dialogo da Steven e Lucas); ho controllato quali piante fossero fiorite in Louisiana in ottobre e spero di non aver scritto sciocchezze, in caso prendetela come licenza poetica; la scelta di nomi e cognomi francesi è un omaggio all’origine francese di New Orleans e a come le due lingue si siano mischiate in quella zona degli USA.
In caso desideraste saperne di più della storia di Steven, ma soprattutto di quelle di Sophie e Lucas, spero vogliate leggere le altre storie della serie.

 
 
 
 
 
   
 
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