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Autore: Elena Waters    10/12/2020    3 recensioni
I classificata al “Wr-Ink-Tober" contest indetto da fantaysytrash sul forum di EFP
Oliver è stato la prima ventata di vita dopo mille anni senza significato. Prima, di vivere o di morire non mi importava: nemmeno adesso mi importa, ma so che la morte ― che pure nei secoli mi ha tentato tanto, senza mai riuscire a ghermirmi davvero, a spingermi a compiere l’estremo gesto di gettarmi tra le sue braccia ― è un luogo in cui lui non esiste; e che anche la vita, d’altra parte, è un lato dell’esistenza presso il quale Oliver potrà soffermarsi ancora per poco, perché ti ho promesso di ucciderlo, Aileen. L’idea di separarmi da lui mi fa bruciare dentro, mi scava un buco nel petto, ma sarà morto prima che finisca questa stagione, prima che l’alba sorga su Samhain.
Genere: Angst, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Henry/Cailean e Oliver'
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ATTENZIONE: questa storia, nel rispetto delle regole del Wr-Ink-Tober contest, era inizialmente una One-Shot. Decorsi i tempi dopo la consegna dei risultati nei quali è impossibile modificare la storia, ho corretto gli errori fatti notare dalla giudice e ho deciso, per rendere la storia più facilmente leggibile da cellulare, di dividerla in due parti. Pertanto, le recensioni a questa prima parte contengono spoiler e vi invito caldamente a NON leggerle se non volete scoprire il finale.
NB: Questa storia era stata scritta inizialmente, oltre che per il contest di fantaysytrash, anche per il contest Darkest fantasy (II edizione), indetto da Dark Sider sul forum di EFP. A quest'ultimo contest non ho poi partecipato, ma ci tenevo comunque a citare la giudice e a ringraziarla, perché ho scritto ispirandomi a uno dei suoi pacchetti.






Oliver


 
Oliver arriva come un soffio di vento autunnale e si siede davanti a me, che sorseggio ancora il caffè seduto al tavolo, il cilindro appoggiato sulle ginocchia. Alzo gli occhi dal giornale e lui mi sorride sotto i baffi appena arricciati. Vedo il mio riflesso nei suoi occhi scuri: allo sguardo umano sembro un ragazzo appena ventenne, perfino più giovane di lui.
Pranziamo insieme al club da un mese, forse, ma mi sembra che sia da sempre: abbiamo visto ingiallire le foglie del parco, i venti alzarsi da ovest e il cielo gonfiarsi di nuvole scure.
Oliver. Vorrei potergli dire che sono nato quando questa isola era ancora ai confini del mondo, tra le colline verdi di pioggia e umide di bruma, sotto il cielo azzurro e sconfinato. Ho visto questo stesso cielo velarsi di fumo scuro, la terra incrostarsi di cemento. I treni sbuffano e sferragliano lungo le loro linee di metallo; le città crescono su se stesse, le periferie si gonfiano come la marea, inglobano altri centri e sempre più fango imbratta le strade. A volte mi sorprendo a pensare che, ora che i tentacoli degli uomini  si sono allungati in ogni direzione, la mia esistenza sarà sempre meno invisibile: non ci sarà più spazio, tra questi esseri che mi brulicano attorno come formiche indaffarate, prese dalle proprie esistenze insignificanti, per fingermi sempre un uomo diverso, senza che nessuno, attraverso i documenti e le tracce che inevitabilmente mi lascio alle spalle, possa comprendere chi sia davvero.
Oliver è stato la prima ventata di vita dopo mille anni senza significato. Prima, di vivere o di morire non mi importava: nemmeno adesso mi importa, ma so che la morte ― che pure nei secoli mi ha tentato tanto, senza mai riuscire a ghermirmi davvero, a spingermi a compiere l’estremo gesto di gettarmi tra le sue braccia ― è un luogo in cui lui non esiste; e che anche la vita, d’altra parte, è un lato dell’esistenza presso il quale Oliver potrà soffermarsi ancora per poco, perché ti ho promesso di ucciderlo, Aileen. L’idea di separarmi da lui mi fa bruciare dentro, mi scava un buco nel petto, ma sarà morto prima che finisca questa stagione, prima che l’alba sorga su Samhain.
Per ora, però, prima che l’oscurità di novembre avvolga il cielo e preannunci l’inverno, lasciami guardare le sue mani candide, lasciami scaldare l’anima da un suo sorriso: voglio ancora specchiarmi nei suoi occhi scuri come pozzi scavati nelle profondità della terra, come il fumo che copre la città con la sua cortina impenetrabile.

 
 
È una fumosa notte degli inizi di ottobre, nel cuore di Londra: una foschia fredda si solleva dai canali, dal Tamigi che scorre poco lontano, lento e scuro. Esco dal boudoir dove ho trascorso la serata con i miei amici del circolo, tra le sete sgargianti, le membra di donne bellissime, provenienti da tutti i territori dell’Impero, e il fumo denso dell’oppio. L’amore degli uomini per questi divertimenti, questa ansia di abbandonarsi all’estasi dei sensi, Aileen, mi ricorda la Britannia di quando ti ho incontrata. Sei arrivata sulla mia isola con i conquistatori del Sud, che hanno costruito case e strade di pietra in mezzo ai nostri villaggi di legno, teatri, terme e splendidi giardini. Non avevamo mai visto una simile bellezza, né una cultura tanto complessa; anche noi creature antiche, che da sempre vivevamo nei boschi, imparammo ad apprezzare lo sfarzo dei marmi screziati, i monili d’oro e d’avorio, le sete e le perle che venivano dall’Asia. Ci piaceva mescolarci a voi, conoscere le vostre usanze e lasciarci cullare nel vostro lusso, che era completamente diverso da qualsiasi cosa avessimo mai conosciuto.
Fu a una di quelle splendide feste che ti vidi danzare, tra i marmi striati e gli affreschi purpurei. Ondeggiavi alla musica dei flauti, coperta di sete cangianti; i tuoi occhi di ghiaccio si posarono appena su di me, mi accarezzarono come le ali capricciose di una farfalla, scomparvero sotto le ciglia d’oro e di rame. In mille anni, non ho mai incontrato una donna bella come te, Aileen, o almeno che sia stata in grado di aprirmi lo stesso squarcio nel petto.

Sono vecchio e stanco, annoiato da tutto. Saluto i miei amici in anticipo, mi chiudo alle spalle la porta del locale fumoso. I miei sensi si acuiscono: è il cuore della notte, l'ora di una preda. L’unica cosa che mi dia un vero fremito di piacere, ormai, è entrare nella mente delle mie prede per carpire la bellezza della mia immagine riflessa nei loro occhi. Non ho mai fretta: li invito a bere qualcosa, ci parlo; li trascino in un vicolo buio e li uccido.
A quest’ora della notte uomini di tutte le età si riversano nelle strade della città, dopo una serata a gozzovigliare, per dirigersi alle loro carrozze o a una qualche stazione dove noleggiarne una; in questo quartiere così malmesso, forse, semplicemente per perdersi nel buio della notte, nella speranza di ritrovare la strada di casa. Individuo la mia preda: è in mezzo a un gruppo di studenti alticci che schiamazzano e che non noteranno la sua assenza.
Non so cosa mi abbia spinto a sceglierlo; cosa della sua virilità appena maturata mi abbia risvegliato un desiderio che non ha a che fare solo con il sangue: forse il riflesso della gola candida alla luce delle lampade, i capelli scuri che fuoriescono dal cappello e si arricciano appena sulla nuca. Li immagino incrostati di sangue, mentre trema negli ultimi spasmi della morte e mi trasmette, attraverso la sua carne, il sangue intriso di paura e dolore. 
Il ragazzo scambia con un uno dei suoi amici una battuta che non riesco a sentire, ride schiudendo appena le labbra. Chiudo gli occhi e inspiro l'aria fredda, la notte autunnale che sa di fango e di pietra e di foglie ancora verdi. Sento la traccia del ragazzo, potrei stringerla tra le dita come se fosse reale. Si ferma un attimo, come congelato; quando lascio la presa su di lui, i suoi amici sono scomparsi in un vicolo. Nell’aria, gonfia di umidità, comincia a scendere una pioggia sottile. Il ragazzo scuote la testa, si ripara con le mani, si volta in tutti le direzioni tra le goccioline di pioggia che scintillano alla luce delle lampade.  
Mi avvicino a passi misurati, il lastricato scivoloso mi scricchiola sotto le scarpe.
«Vi siete perso, buon uomo?»
Ora che sono così vicino posso vedere il mio riflesso nei suoi occhi: un giovane uomo vestito come un perfetto gentleman, la giacca scura aperta sul petto che lascia intravedere il panciotto damascato.
«I miei amici», balbetta, «erano qui un momento fa...»
Si volta ancora verso un vicolo scuro e senza nome, come se sperasse di vederli riapparire da un momento all’altro.  È un uomo ancora più bello da vicino, giovane — non giovane come me, che sembro appena uscito dall'adolescenza, ma al massimo di venticinque o ventisei anni. I suoi vestiti hanno un taglio elegante, alla moda, ma ai miei occhi attenti non può sfuggire la fattura scadente, la stoffa da pochi soldi. Mi soffermo sui suoi lineamenti duri, ma proporzionati, sulla curva dritta del naso e il pomo d'Adamo appena sporgente oltre il colletto della camicia. Pregusto il momento in cui lo ucciderò: voglio stringere la sua camicia con le dita imbrattate di sangue, lacerargli la pelle sentendo tra le dita il sussulto della sua gola bianca.
«Suvvia, vi accompagno a una carrozza.»
Torna a guardarmi, gli occhi scuri inondati di confusione.
«Una carrozza? Non posso…»
Vedo un lampo nella sua testa: non ha soldi, non può pagare e si vergogna di dirmelo. Che cosa penserei di lui?
«Venite con me, non preoccupatevi.»
Gli infilo una mano guantata sotto il braccio e la sua carne si tende appena sotto la mia stretta. Imbocchiamo uno di quei vicoli scuri; sento ancora la confusione nella sua testa, il calore pulsante che gli scorre nelle vene. Per quanto mi dispiaccia spezzare questo giovane, come mi dispiace ogni volta, sento di non poter rinunciare a morderlo, a lasciar sgorgare il suo sangue finché la sua vita si spegnerà tra le mie braccia: solo concedermi di tanto in tanto un’estasi come questa, e cullarmi poi nel suo ricordo, può rendermi sopportabile l’eternità senza di te.
Sollevo gli occhi al cielo opaco e sorrido alla pioggerellina lenta e sottile.
«È una notte deliziosa», gli dico.
Non penso al fatto che lui sia un uomo, alle gocce fredde sulla sua pelle come lame di ghiaccio. Lui mi sorride appena, con le labbra che sembrano intagliate in un blocco di marmo, o dipinte con poche pennellate furiose.
«Dovete scusarmi, non mi sono nemmeno presentato. Mi chiamo Oliver Adams.»
Mi tende la mano guantata e sento una sua punta di vergogna per le cuciture lise in punti ben nascosti, di cui spera che io, un gentiluomo così ben vestito, non mi renda conto. Gli stringo la mano con un guizzo veloce; sento le sue dita sottili tendersi sotto la stoffa. Non aspetta nemmeno che gli risponda, che gli dica il mio nome
 il nome falso che ho inventato per questa stagione della mia vita.
«Devo proprio ringraziarvi, signore. Ho bevuto un po’ troppo… forse non avrei mai trovato la strada per la stazione delle carrozze in queste condizioni. Siete un amico.»
Non stiamo andando nella direzione giusta per le carrozze, ma lui non può rendersene conto. Sono nella sua testa e lo confondo, e alla nebbia indotta da me si aggiunge quella dell'alcool, forse del fumo dell'oppio. So che quando uccido una preda in queste condizioni, oltre all'ebbrezza del sangue e della vita che si spegne, mi capita di sentire una nausea strana, intossicante. Questo rischio non mi ferma, di solito, ma camminando accanto a lui per i vicoli scuri, guardando le sue mani muoversi dentro i guanti chiari, ascoltando il suono dolce della sua voce, mi accorgo che forse tutto questo sì, potrebbe fermarmi. Capisco che la direzione che ho preso è quella della pensione in cui alloggia, perso nei suoi pensieri e forse alticcio quanto lui, intossicato dalla sua presenza.
La facciata è la più scrostata nel vicolo squallido, ma vedo nei suoi ricordi — sbiaditi, come sono i ricordi dell'aria rispetto a quelli del sangue — che all'interno lui ha una stanza confortevole e abbastanza ampia, almeno per la miseria che la paga, dove non si vergogna di far salire di tanto in tanto qualche amico per fumare insieme un sigaro o una donna conosciuta chissà dove.
«Vi ringrazio per avermi accompagnato.»
Non gli rispondo. Vedo, come qualche volta mi capita, affondando nei ricordi, una ragazzina pallida e minuta. In un attimo so che è per lei che Oliver fa tutto ciò che fa. All'università non lo pagano così male, ma invia quasi tutti i soldi alla sua famiglia, per aiutare la madre e la sorella, malata di un’affezione alle vie respiratorie che richiede molte attenzioni. Oliver frequenta gli stessi locali dei suoi studenti non perché li preferisca, ma perché sa che non potrebbe permettersi i divertimenti degli altri assistenti con le ristrettezze a cui si costringe. Con un cenno del capo lo saluto, mi volto indietro e lo lascio.
Non lo ucciderò stanotte.
 
 
Dopo quel primo incontro fugace, alla festa, non sapevo niente di te, Aileen. Non avevo un nome, né un posto dove cercarti, ma mi ero interessato abbastanza alla tua cultura per sapere che molto probabilmente amavi trascorrere il tuo tempo alle terme, tra le acque che ribollivano dalle sorgenti sotterranee e gli unguenti profumati.
Avevo lo stesso aspetto che ho ora: un ragazzo colto allo sfiorire della sua adolescenza, ancora imberbe. Fu davvero facile vestirmi da ragazza e mischiarmi alle donne con cui ti bagnavi, perché nessuno avrebbe potuto dubitare della mia voce cristallina, della mia pelle candida e dei capelli che mi sfioravano le spalle, splendenti come bacche di rosa canina sotto il sole pallido di gennaio. Passavo interi pomeriggi a guardarti mentre ti bagnavi con le tue ancelle. Forse avresti dovuto insospettirti, perché Aileen, la ragazza britanna con cui a volte ti intrattenevi, con i capelli di un rosso scuro e intenso intrecciati attorno alla fronte, a cui lanciavi di tanto in tanto uno sguardo di sfuggita e che non si bagnava mai, andava in giro sola come una prostituta. Non conoscevo abbastanza le vostre regole: se le avessi conosciute, avrei capito che eri una prostituta anche tu. Del resto, disprezzavo le leggi degli uomini: non capivo come, nello spazio delle vostre brevi esistenze, trovaste spazio per arricchire le vostre culture con nuovi intrecci, con cerimoniali e complicazioni prive di significato, ricche di sfumature che non capivo. Non sapevo che senso avesse tutto questo: per me eravate tutti prede, e ridevo delle vostre gerarchie, della quantità enorme di senso che volete immettere nelle vostre vite, che durano un battito di ciglia.
Con tutta la cautela che mi era possibile, ti strappai brandelli di informazioni che potessero condurmi a te al di fuori di quel luogo protetto, dove potessi mostrarmi con le mie vere sembianze. Frequentavi le feste più sfarzose, inseguivi i favori degli uomini più facoltosi sperando di entrare nelle loro grazie, perché era l'unico modo che avessi di guadagnarti la vita. Quando riuscii a intrufolarmi a una di queste feste, a differenza della prima notte, in cui non avevo notato niente a parte te e le onde di sete cangianti che ti accompagnava nella danza, questa volta mi guardai attorno, mi soffermai a osservare le occhiate che gli altri ti gettavano addosso. Il miscuglio di adorazione e disprezzo con cui ti guardavano era per me un mistero: tutti desideravano una donna come te e anch'io, di stirpe più nobile e antica, sentivo l'incantesimo del tuo sguardo avvolgermi fino a soffocarmi.
Nella mia lunga vita avevo solo ucciso, non avevo mai concesso il Dono: i druidi ci avevano avvertiti di avere cautela, che il segreto della nostra specie avrebbe potuto restare protetto soltanto se non ci fossimo moltiplicati, ma non riuscivo a smettere di pensare che in un attimo avrei potuto strapparti alla tua vita, alla miseria a cui, nonostante tutto, non riuscivi a sfuggire ― perché, per quanto quegli uomini ti amassero e cercassero bramosamente il blu dei tuoi occhi e il candore della tua carne, non avrebbero mai smesso di disprezzarti. Non capivo di cosa potessi esserti macchiata per non avere il loro rispetto, né perché quella macchia non si estendesse agli uomini che ti cercavano, che potevano usarti e avere il loro onore intatto. Quando quegli stessi favori, finalmente, furono offerti a me, li accettai con il cuore che scoppiava di gioia: non avrei potuto mai disprezzarti, non lo feci; non avrei inquinato il piacere provato tra le tue braccia con un sentimento tanto schifoso, Aileen.
Per mostrarti che ti ritenevo pari a me, mi rivelai per la creatura che ero. Quando ti trasformai, prendesti il nome che mi ero dato quando mi fingevo la ragazzina timida che non si bagnava mai e ti guardava da lontano. Provo vergogna per il tuo vero nome: mai più usato, dimenticato da entrambi.
Viaggiammo a lungo, ti mostrai tutta l'isola: le pallide luci del Nord, le scogliere scoscese; distese sconfinate di erba, di foreste incontaminate in cui vivevano ancora i druidi, che parlavano la mia antica lingua, la lingua barbara e dura che imparasti con vivo interesse, insieme a tutte le tradizioni del mio popolo.
 

Non avrei mai pensato di tornare da Oliver con la stessa disperazione che mi aveva spinto a cercarti e a tornare da te. I raggi del sole del primo mattino splendono contro la facciata della pensione, penetrano impietosi tra le crepe della vernice esterna. Non so da quale di queste finestrucce scrostate la stanza di Oliver si affacci sulla strada, né se lui sia già sveglio o se giaccia ancora intontito dall’alcol.
Le vie sono deserte a quest’ora, la città si sta appena svegliando. Oliver. Di che scusa ho bisogno per vederlo? Sento, in realtà, di non aver bisogno di alcuna scusa: conosco gli esseri umani dalla notte dei tempi e, per quanto le loro società vogliano farsi complesse, so che certe cose non cambieranno mai. Un uomo che mi guardava con quegli occhi, quando mi rivedrà, non mi chiederà giustificazioni. Eppure, per un qualche scrupolo, per un pensiero umano che mi attraversa, voglio far sembrare il nostro secondo incontro casuale. Mi guardo attorno e nessuno dei locali bui e con le insegne scrostate che si affacciano nel vicolo, in cui probabilmente fa colazione Oliver, sembrano posto per un gentiluomo; non dovrei essere nemmeno in questo quartiere, dove la gente mi getta occhiate interrogative e non capisce il perché del mio aspetto, della mia raffinatezza: si chiederanno cosa ci faccia a infangarmi le scarpe in questa stradina.
L’angoscia mi stringe il petto, quando mi rendo conto che in fondo, per rivederlo, ho un’unica alternativa. Non so cosa insegni, quindi incontrarlo all’università è fuori discussione; l’unica cosa che io sappia, che mi leghi a lui, è la piazzetta di fronte a quella cantina nei bassifondi, dove l’ho visto ridere con i suoi amici tra il fumo e la luce delle lampade e ho deciso che sarebbe stato mio.
 
Mi siedo in un angolo da cui si veda bene l’ingresso e, anche se le prime sere non si presenta, non perdo la speranza: ogni tanto mi sembra di vedere uno di quei ragazzi che era con lui l’altra notte e so che lo rivedrò, ho una grande fiducia nel suo ritorno. Una sera varca finalmente la soglia, circondato dallo stesso gruppo di ragazzotti poco più giovani di lui, che come lui indossano vestiti alla moda per non denunciare la propria scarsità di mezzi, che è però urlata dalla scelta del locale, dalle stoffe di scarsa fattura, dai polsini appena consumati. Mi pento di averlo aspettato. Questo secondo incontro mi lega a lui, salda la mia scelta: forse ora dovrò davvero ucciderlo, Aileen, e non perché l’abbia scelto come preda, qualche notte fa, ma per onorare la promessa che ti ho fatto.
Lasciarlo andare la prima notte poteva essere una svista, dettata da circostanze misteriose, che avrei potuto negare a me stesso di sapermi spiegare. Questa volta è diverso: l’ho cercato, l’ho aspettato per quattro giorni seduto allo stesso tavolo  incrostato e, adesso che finalmente è tornato, i miei occhi si attaccano alla sua figura come il fumo che impregna l’aria, e il suo sorriso, il suo sguardo che sembra riconoscermi ― o che voglio illudermi che mi riconosca ― mi accende nel petto qualcosa che non potrei fingere di non riconoscere.
 
Svuoto il boccale di birra, che ho ordinato solo per poter occupare il tavolo indisturbato. Lo schienale di legno mi spinge contro le spalle intorpidite. Devo trovare un modo di parlargli di nuovo. Mi sento patetico: perché dovrei tampinarlo, aspettarlo, e quando finalmente arriva non avere il coraggio di avvicinarlo, quando è solo un fragile umano, che dovrò spezzare tra neanche un mese, nella notte di Samhain?
Mi costringo ad alzarmi dal tavolo; s
costo una ragazza che mi sbarra la strada, con gentilezza, e mi avvicino alla compagnia di Oliver a passi misurati.
«Signor Adams!»
I suoi amici, alla mia vista, smettono di ridacchiare. Sono troppo socialmente sopra di loro perché mi possano ignorare, e ho sfoggiato i miei migliori vestiti senza paura di attirare le attenzioni di qualche malvivente, nonostante sappia che si tratta di una delle zone peggiori della città ― una mossa decisamente stupida, se fossi un mortale.
Oliver alza gli occhi dalla sua birra, mi guarda con un’espressione confusa negli occhi bellissimi. Sembrano ancora più scuri mentre scintillano alla luce gialla delle lampade, nell'aria fumosa del locale. Un sorriso gli affiora appena sulle labbra, ma annebbiato dalla confusione.
«Signor...»
Non gli ho detto il mio nome, l'altra sera. Un uomo avrebbe sentito certamente l’esigenza di farlo, ma io non provavo nessun interesse, per un incontro di una notte, di mentirgli, di dargli il nome falso che ho inventato per questa breve stagione dell’eternità.
«Kestle. Mister Henry Kestle.»
Oh, Oliver. Vorrei dirti il mio vero nome ― Cailean ― ma sarebbe un nome troppo strano per la Londra di questo secolo, e la sua versione “Colin” è aliena sulle mie labbra, fastidiosamente a cavallo tra vero e non vero.
Vedo Oliver nel suo ambiente, completamente rilassato in mezzo ai suoi amici, eppure mi sembra che gli manchi qualcosa. Non pensavo che il mio interesse nei suoi confronti potesse crescere tanto solo sedendogli di fronte, tra due dei suoi amici che mi sembrano dei bambini, e guardandolo negli occhi scuri.
Uno dei ragazzi tira una gomitata a Oliver. «Non pensavo che conoscessi gentiluomini simili, amico!»
Oliver ridacchia, un velo di imbarazzo nei suoi occhi. Non so cosa ricordi del nostro incontro, né quanto fosse ubriaco fuori dal locale, ma percepisco il suo imbarazzo: so che si sente diverso dai quei ragazzi, che non può essere stato così ubriaco da perdersi, o almeno che non può ammetterlo davanti a loro. Mi schiarisco la voce.
«È successo l'altra sera, abbiamo diviso una carrozza per tornare a casa.»
Scoppiano tutti a ridere. «Da quando puoi permetterti una carrozza, Oliver? Ti conti sempre i soldi in tasca!»
Oliver scuote la testa. Sento un leggero imbarazzo scorrergli sotto la pelle e vorrei sapere come mai le sue membra si siano irrigidite all’improvviso e perché lo metta così a disagio ammettere la verità davanti ai suoi amici.
«Ero ubriaco l’altra sera, James. Mr. Kestle è stato così gentile da riaccompagnarmi.»
Quando usciamo dal locale, mi scuso con Oliver. Non era mia intenzione metterlo in imbarazzo.
«Perdonate voi i ragazzi, signore», mi dice invece. «È il loro modo di scherzare.»
«Non dovreste permettere che vi trattino così. Non è colpa vostra se non potete permettervi carrozze e divertimenti meno squallidi.»
Scrolla le spalle. «Non è nulla. Piuttosto voi, Mr. Kestel: cosa ci fate in un locale del genere? Scommetto che avete altri posti da frequentare, insieme alla bella società a cui appartenete.»
«La verità, Oliver? Vi cercavo.»
Non percepisco alcun imbarazzo nel dirgli questo: sono troppo vecchio per questi piccoli scrupoli. I sentimenti mi scorrono via dal petto come l'acqua, in modo sorprendente per voi umani, che vi tappate le cose nel cuore senza sapere che resteranno lì sepolte per sempre. 
«Posso chiedere perché?»
Scuoto la testa. «Non capireste.»
«Perdonatemi, Mr. Kestle, ma credo di capire.»
Si fa più vicino, mi guarda dritto negli occhi ― nel suo viso il riflesso inequivocabile del mio desiderio per lui. Schiude appena le labbra intagliate con la precisione di uno scalpellino, che creano una splendida ombra sul viso chiaro.
«Mi accompagnereste di nuovo alla pensione, Mr. Kestel?»



Oliver accende una lampada a olio, che illumina di luce giallastra la carta da parati scolorita. La finestrella della stanza di Oliver non dà sulla viuzza, ma si affaccia su un interstizio ancora più stretto, vicinissimo a un altro edificio dal muro grigio. Un quadrato di cielo, le stelle, si intravedono più in alto.
Se avessi saputo che dopo quella notte avrei visto l'alba illuminare quello stesso angolo di cielo, che mi sarei affacciato senza indossare niente, con l'umidità della mattina sulla pelle, l'odore dell'autunno nell'aria, e Oliver addormentato nel letto in cui ho trascorso la notte, forse non lo avrei accompagnato, Aileen.
Fino a un attimo prima, avrei potuto forse ancora tirarmi indietro, nascondere la verità in un ultimo sforzo di ipocrisia, che avrebbe certamente macchiato il mio onore, ma non in modo irreparabile. Le nuvole che spazzano quel quadrato di cielo, rosate e ambrate come le sete in cui danzavi, mi dicono che non posso più nascondermi a te, alla promessa che ti ho fatto. Devo ucciderlo, Aileen.





FINE PRIMA PARTE

 




 




 
Ringrazio fantaysytrash per avermi dato l'occasione di scrivere questa storia e anche Dark Sider per aver contribuito allo sviluppo dell'idea con il suo contest Darkest fantasy (II edizione).
Ringrazio anche tutti i lettori e le lettrici che sono arrivati fin qui: spero che questa prima parte della storia vi sia piaciuta e vi aspetto nella seconda parte 🥰.



 



 
   
 
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