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Autore: Soul Mancini    11/12/2020    5 recensioni
Quella notte – come tutte le notti – l’avevano svegliata e attirata a loro, l’avevano richiesta e rivendicata con quella loro inesorabile delicatezza. Per un attimo aveva confuso quei sospiri col vento, che sibilava forte oltre la finestra e fischiava tra le imposte cigolanti, ma ben presto aveva capito che si trattava di loro. Erano venuti a cercarla. [...]
Ma Skye non aveva paura. Loro non le volevano fare del male: le venivano a far visita, le sfioravano la pelle e le orecchie, volevano un po’ di compagnia. E ogni tanto, tra tutto quel sibilare e frusciare, Skye aveva riconosciuto la voce di Timmy. [...]
“Timmy, io non ti volevo lasciare solo” mormorò Skye, trattenendo un singhiozzo.
Lui le sorrise innocente. “Ma tu non mi hai mai lasciato solo. E non ho mai lasciato sola te. Siamo gemelli, e i gemelli sono legati per sempre; non si dividono mai, mai.”
- QUINTA CLASSIFICATA al contest "Darkest Fantasy II edizione" indetto da Dark Sider sul forum di EFP.
- Partecipa alla challenge "Seasons Die One After Another" indetta da Laila_Dahl sul forum di EFP.
Genere: Angst, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Kidfic | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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I
Dal primo all’ultimo istante
 
I
 
 
 
 
 
 
Knock my chest, emptiness
Sound of death and loneliness
All these walls, crush my head […]
I’m disappearing now
My body’s falling down
And I’m alone
[Melancholia – Alone]
 
 
 
 
 
 
La vestaglia bianca in cotone – unico bagliore su cui la fioca luce della luna si posava – le accarezzava i polpacci con leggerezza, oscillava al ritmo dei suoi passi silenziosi. I piedi scalzi sfioravano appena il pavimento in marmo, talmente gelido da scottare la pelle, mentre lei si guardava attorno con occhi sgranati, fissi nell’oscurità che inghiottiva il corridoio dall’alto soffitto.
Una ragazzina, un’ombra fatta di luce, uno spettro che si spostava furtivo e agile nella notte.
Li sentiva, li inseguiva, vi sfuggiva: sospiri. Voci smorzate e lamentose, che a volte si tramutavano in sussurri e sembravano chiamare il suo nome.
Skye.
Skye.
Skye.
Quella notte – come tutte le notti – l’avevano svegliata e attirata a loro, l’avevano richiesta e rivendicata con quella loro inesorabile delicatezza. Per un attimo aveva confuso quei sospiri col vento, che sibilava forte oltre la finestra e fischiava tra le imposte cigolanti, ma ben presto aveva capito che si trattava di loro. Erano venuti a cercarla.
Il vento soffiava forte e Skye affrettò il passo, inseguendo quei sospiri che la portavano sempre più lontana della sua camera. Strisciavano sui muri e lei si lasciava scivolare nelle tenebre con loro, in una muta e aggraziata danza di cui solo lei era a conoscenza.
Ma Skye non aveva paura. Loro non le volevano fare del male: le venivano a far visita, le sfioravano la pelle e le orecchie, volevano un po’ di compagnia. E ogni tanto, tra tutto quel sibilare e frusciare, Skye aveva riconosciuto la voce di Timmy.
Solo qualche volta l’avevano spaventata.
Giunse davanti alla rampa di scale che conduceva al piano di sotto. Una folata di vento scosse il vecchio monastero e una brezza gelida le si insinuò tra i capelli scarmigliati.
Skye.
Si immobilizzò e sbarrò gli occhi, il cuore le batteva a mille. Strinse forte tra le dita il tessuto sottile della veste.
Skye.
Era così vicina, quella voce. Ed era così familiare. Ostile, accusatoria, arrabbiata; così vicina, a un millimetro da lei.
Tenne gli occhi sgranati nel buio davanti a sé, che scorreva giù per le scale e la voleva risucchiare. Non ebbe il coraggio di voltarsi, nonostante sapesse che alle sue spalle non avrebbe trovato altro che ombra; nessuno di loro si faceva mai vedere, si limitavano ad accarezzarla e sussurrare alla sua anima.
Skye. Devi badare a tuo fratello.
Serrò la mascella e gli occhi le si riempirono di lacrime, come quando era piccola.
Devi badare a Timmy.”
“No, no, no…” Stritolò il cotone tra i polpastrelli, serrò le palpebre.
Perché non sei stata attenta a Timmy?
“No!” Un nuovo rivolo di gelo le accarezzò la nuca, facendola tremare.
Skye, devi badare a Timmy.
“Non è colpa mia, non è colpa mia!” strillò, la sua voce intrisa d’isteria rimbalzò per le pareti del corridoio, mischiandosi ai sospiri.
Fece un passo avanti e il suo piede scalzo trovò il vuoto.
Un grido le squarciò la gola ma, mentre si preparava a precipitare giù per i gradini, un tocco invisibile la sostenne per un braccio.
Una risatina di cristallo si sparse nell’aria.
“Timmy…”
Si voltò, ma accanto a lei non scorse nessuno.
 
 
♦♦♦
 
 
Quando varcò per la prima volta l’enorme cancello in ferro battuto, pioveva. L’imponente e sinistra struttura, un ex monastero, pareva ancora più minacciosa mentre si stagliava contro il cielo grigio d’autunno.
Nel bel mezzo della campagna inglese – si ritrovò a pensare Skye mentre faceva il suo ingresso nell’ampio androne – in realtà sembrava autunno tutto l’anno. Non sapeva effettivamente in quale mese dell’anno si trovassero, in ospedale aveva perso il conto dei giorni e delle stagioni.
L’aveva accolta una vecchina sciupata e dai capelli dello stesso grigio di quella giornata uggiosa, che l’aveva squadrata da capo a piedi con i suoi occhietti vigili e le aveva ordinato di pulirsi le scarpe, che le brave bambine non lasciano le impronte fangose sul pavimento.
“Sono la signora Havelock, fondatrice e responsabile di quest’orfanotrofio” si presentò, la freddezza nella voce e un velo di stanchezza sul viso rugoso.
Skye rimase immobile e in silenzio a fissarla. Non era mai stata una bambina particolarmente esuberante, non sapeva bene cosa fare in questi casi – e, a dire il vero, nell’ultimo periodo non aveva molta voglia di parlare.
La signora Havelock la scrutò a sua volta per qualche istante, severa. “Beh? Non ti hanno insegnato che, quando qualcuno si presenta a te, dovresti fare lo stesso?”
Skye serrò le labbra e sgranò maggiormente gli occhi, intimorita da quella donna.
La signora Havelock sospirò, poi si accostò a lei, le afferrò una manina ghiacciata e la strattonò con indelicatezza, prima fuori dall’androne e poi su una rampa di scale. “Mi avevano detto che sarebbe stato un caso difficile, ma addirittura una bambina che soffre di mutismo… sarà la solitudine. Lo dico sempre, io: un uomo senza famiglia è il più solo al mondo!” diceva tra sé e sé, e la sua voce arrochita dagli anni rimbombava tra le pareti fredde e spoglie degli anditi.
Skye non rispose, ma durante il tragitto si guardò attorno quasi con curiosità, nella speranza di scorgere qualche altro bambino.
Ma i corridoi erano deserti e le porte davanti a cui passarono sigillate.
Una volta giunti davanti alla soglia in fondo al corridoio del primo piano, la signora Havelock mollò bruscamente la presa sulla sua mano per abbassare la maniglia. “Questa è la tua stanza, Skye. Sistemati qui. E tieni d’occhio l’orologio: alle sei devi essere puntuale in sala da pranzo, al piano di sotto, per il pasto serale” spiegò in tono piatto e la lasciò sola nella stanza.
Skye rimase immobile per qualche istante, ad ascoltare i passi lenti della donna oltre la porta e il ticchettio della pioggia che bussava alla finestra, poi si accostò al letto e vi si sedette sopra timidamente, come se non fosse suo.
Posò il borsone in tessuto sdrucito – tutto ciò che le era rimasto – accanto a lei, sulle coperte candide, si strinse le ginocchia al petto e vi posò sopra il mento, lasciando che il suo sguardo venisse catturato dalla fiamma che scoppiettava nel grande camino.
Aveva solo sette anni, ma certe cose del mondo le sapeva, le aveva sentite dire.
Per esempio, era a conoscenza della fama dell’orfanotrofio della signora Havelock: lì ci finivano tutti i bambini senza speranza, quelli che nessuno voleva adottare, quelli che avevano visto la fame, le disgrazie e le follie della vita, e che di fanciullesco non avevano più niente.
A lei non importava poi tanto di dove l’avrebbero portata e dove avrebbe abitato; soltanto una piccola parte di lei era ancora aggrappata al mondo, solo con le unghie di una mano graffiava quella vita che le aveva voluto male.
Con l’altra mano, invece, sfiorava le dita di Timmy, il fratello che le voleva così tanto bene da volerla trascinare con sé, colui che non l’aveva mai realmente abbandonata.
Perché un legame come il loro, nemmeno la morte avrebbe potuto spezzarlo.
Mentre la luce dorata delle fiamme danzava sul suo viso, Skye poté quasi percepire una presenza rassicurante al suo fianco; capì che lui era lì, e non se ne sarebbe mai andato.
 
 
♦♦♦
 
 
“Che bello, il mare! Andiamo al mare!”
Skye e Timmy non avevano fatto che esultare per tutta la mattina, dal momento in cui avevano aperto gli occhi a un nuovo soleggiato giorno che sapeva di nuove avventure.
Il loro papà, il signor Whistler, aveva portato a casa proprio due giorni una nuova e scintillante automobile, la prima mai posseduta dalla famiglia Whistler; era stato un grande sacrificio per lui, che le automobili erano un lusso riservato ai più abbienti, ma quando l’aveva annunciato alla moglie e i figli aveva in fondo alle iridi un orgoglio e un entusiasmo in grado di spazzare via ogni ripensamento.
“Non appena la ritirerò, vi porterò al mare” affermò, guardando dritto negli occhi prima Timmy e poi Skye – due paia identiche di occhioni scuri e grandi, identici come lo erano i loro proprietari.
E così quella mattina, dopo essersi svegliati alla stessa ora del sole, i due vivaci gemelli si erano infilati sui sedili posteriori troppo stretti, bramosi come non mai di intrecciare lo sguardo alla distesa azzurra che avevano visto solo sulle cartoline.
“Mamma?” Timmy si dimenava, preda dell’entusiasmo, e si sporgeva per sfiorare il braccio della donna che sedeva accanto al marito, di fianco al posto di guida.
“Dimmi.”
“Quanto manca per arrivare al mare?”
“Non lo so, Timmy. Ma se stai seduto e buono, sicuramente il tempo passerà più in fretta” ribatté la signora Whistler, voltandosi di un poco per lanciare un’occhiata ammonitrice al figlioletto. Era una donna ancora giovane e straripante della stessa vitalità e determinazione di quando era ragazza, ma diventare madre le aveva dipinto il viso di dolcezza.
“Papà, tu lo sai quanto ci vuole?” proseguì il bimbo, sporgendosi ancora di più in avanti.
“Non lo so nemmeno io.”
“Timmy! Non lo devi distrarre mentre guida!” sbottò Skye preoccupata. Aveva passato tutto il tempo a fissare il paesaggio fuori dal finestrino – forse già in cerca del mare – ma tutta quella confusione l’aveva riportata alla realtà.
“Skye, tesoro, devi badare a tuo fratello, che è un diavoletto e finirà per farci cappottare” disse la signora Whistler con una leggera risata nella voce.
Skye allora posò una mano sulla spalla del gemello e lo strattonò leggermente a sé, costringendolo quasi a sedersi composto. “Stai buono, Timmy. Se continui ad agitarti così, il sedile si staccherà dalla macchina e rimarremo in mezzo alla strada!” si inventò, giusto per tenerlo buono.
Timmy le sorrise sornione e piegò appena il capo di lato. “Macché, io non ci credo! È impossibile!”
Skye lo scrutò con attenzione, era quasi come guardarsi allo specchio: la pelle diafana, i capelli corvini e arruffati, gli occhi scuri mai sazi di vedere cose nuove, le guance arrotondate, il nasino sottile.
E a Timmy bastò ricambiare lo sguardo per calmarsi un po’. Erano gemelli, loro: sapevano parlare con gli occhi, sapevano capirsi in un battito di ciglia e leggersi nella mente. Erano indissolubilmente legati, parlavano un linguaggio primordiale che solo loro conoscevano.
E l’eccitazione di andare al mare per la prima volta, che Skye vedeva brillare negli occhi del fratello, apparteneva a entrambi.
Ogni singolo istante delle loro vite apparteneva a entrambi. Dal primo all’ultimo.
Skye gli strinse di più la spalla e lo attirò ancora a sé.
Un grido squarciò l’aria.
Il mondo cominciò a oscillare e sfocarsi fuori dai finestrini.
“Timmy!” strillò la signora Whistler, tra i fischi dei freni impazziti.
Il cuore di Skye batteva a mille, più forte degli sbalzi, più forte degli scossoni. Aveva preso a stritolare Timmy in una stretta intrisa di terrore, e lui aveva preso a strillare al suo orecchio.
“Skye, tesoro…” li raggiunse nuovamente la voce della madre.
Devi badare a tuo fratello.
Skye piangeva forte mentre tutto il suo mondo si sgretolava e le lasciava lividi e graffi sulla pelle giovane.
In mezzo a quel finimondo, i suoi genitori non riusciva più a vederli né a sentirli, ma continuava a tenere tra le braccia quell’altra metà di lei, quel gemello che era sempre stato più vivace e più ingenuo di lei, quel coccio della sua anima che si aggrappava con disperazione al suo vestitino.
Devi badare a tuo fratello.
Uno scoppio più forte degli altri, e Timmy venne sbalzato via, lontano da lei. Skye lo sentì gridare, ma non poté fare altro che serrare gli occhi e portarsi le braccia sopra la testa per proteggersi.
Devi badare a tuo fratello.
La voce di Timmy non si sentiva più.
E nemmeno quella di mamma e di papà.
Devi proteggere tuo fratello.
Skye, stai attenta a Timmy.
L’incubo durò ancora per alcuni istanti, o forse furono anni.
E quando Skye si guardò attorno, realizzò che l’incubo in realtà era cominciato proprio in quel momento.
Mamma se n’era andata.
Papà se n’era andato.
Anche Timmy se n’era andato.
E Skye? Era ancora viva, ma anche lei se n’era andata.
 
 
♦♦♦
 
 
Non parlava mai con nessuno.
Pareva che nulla e nessuno fosse in grado di destare la sua attenzione: passava giornate intere a fissare il cielo fuori dalla finestra e non rivolgeva mai la parola agli altri bambini.
Né la signora Havelock né la maestra Kingsley, incaricata di insegnare a leggere e scrivere a quei poveri orfanelli, riuscivano a scalfire quella corazza di silenzio e solitudine che avvolgeva Skye – non le importava nemmeno di memorizzare le lettere del suo nome.
Qualche volta sembrava rianimarsi all’improvviso, sgranava gli enormi occhi scuri e piegava appena il capo di lato, in ascolto di qualcosa che nessun altro poteva udire.
“Skye è strana” si vociferava in giro, tra le stanze dei bambini e attorno al tavolo in sala da pranzo.
“Lasciatela perdere: ha vissuto qualcosa di terribile” spiegava in tono lugubre la signora Havelock, accomodata su una seggiola in legno accanto al camino e intenta a rammendare o lavorare a maglia. Erano quelle le sue attività preferite mentre teneva d’occhio i bambini durante le ore di gioco.
“Signora Havelock, Skye è malata?” si arrischiava a domandare qualcuno, accovacciandosi sul tappeto soffice ai piedi della vecchina.
“È malata di solitudine” ribatteva sempre lei, una leggera nota di malinconia nella voce. E non aggiungeva altro.
 
Quel giorno Skye se ne stava accucciata su una poltrona in un angolo della stanza, il corpicino esile sepolto tra i cuscini vaporosi e un libro aperto sulle ginocchia – osservava le immagini, perché non avrebbe potuto leggerlo.
Annette la scrutava con curiosità, gli occhi celesti pieni di speranza. Era una di quelle bambine grintose e audaci che, nonostante tutte le brutture della vita, non si sarebbe arresa mai.
Dopo qualche lungo istante di silenzio, riempito solo dallo scrocchiare del fuoco nel camino, la bimba dai capelli biondi si avvicinò a Skye con passo leggero e le sfiorò appena un braccio, con l’intento di attirare la sua attenzione.
Lei sobbalzò appena e sollevò lo sguardo.
“Ciao” la salutò Annette, un sorriso amichevole sulle labbra rosate.
“Ciao.”
“Che libro stai leggendo?”
Skye sollevò il volume dalle ginocchia e le mostrò la copertina. Nemmeno lei sapeva quale fosse il titolo.
Annette annuì. “È bello?”
“Sì.” Lo disse giusto per dire, non perché fosse vero.
L’altra bimba la scrutò ancora, sporgendosi appena verso di lei. “Ti piace leggere?”
Skye non rispose; prese a giocare col margine di una pagina, creando una piccola orecchia all’angolo.
“Come mai non vieni mai a giocare con noi?”
“Non mi piacciono i giochi che fate voi.”
Annette s’imbronciò e chinò appena il capo. “Allora io voglio fare quello che piace a te, così possiamo diventare amiche. Non puoi mica stare sempre sola!”
“Ma io non sono sola” obiettò Skye con fermezza e una punta di emozione nella voce, il viso illuminato da una luce tutta particolare che per un attimo la fece sembrare di nuovo bambina.
Annette sgranò gli occhi, confusa.
“Ci sono loro che mi fanno compagnia.”
La bionda si portò una mano sulle labbra. “Chi sono loro?”
Skye si sporse verso di lei, complice, e accennò un sorriso. “Li sento ogni notte, sospirano e mi chiamano, vengono a cercarmi. Non sono cattivi, sono miei amici, loro non mi lasciano mai sola.”
Il suo sguardo si fece più affilato, animato da una luce che tuttavia lo rendeva torbido. “Tu non li senti, i sospiri e i sussurri?” bisbigliò.
E il cuore di Annette perse un battito.
 
 
♦♦♦
 
 
La sottile pioggia d’autunno tamburellava piano sul vetro della finestra, come una delicata ninna nanna di carezze.
Quando Skye spalancò gli occhi nell’oscurità, la prima cosa che le venne istintiva fu affinare le orecchie per percepire i sussurri attorno a lei.
Ma quella volta la ragazzina udì un unico leggero sospiro, proveniente dal fondo buio della stanza. Era un bisbiglio sottile e privo di suono, ma a Skye parve comunque di riconoscerlo.
Si mise in piedi, pronta anche quella volta a seguire quel sibilo leggero e vedere dove l’avrebbe condotta. Era diventato un gioco strano e curioso, giostrato delle tenebre e dalle sensazioni che quelle presenze invisibili le iniettavano.
Il cuore le batteva a mille mentre muoveva qualche passo verso il centro della stanza. Ormai nel camino non erano rimaste che flebili braci, che non riuscivano a rischiarare le tenebre di quella notte senza luna. Skye si guardò attorno, ma poté mettere a fuoco solo sagome indefinite.
Sentì un tocco leggero sul braccio e una risata cristallina le scivolò sulla guancia, fino a solleticarle l’orecchio.
Il suo cuore perse un battito quando avvertì lo spirito lasciare la stanza; come ipnotizzata, uscì in corridoio e lo inseguì, facendosi guidare da quel suono così piacevole che a volte era sospiro e a volte era risata. E, a dispetto della pelle candida che rabbrividiva contro l’aria frizzante, la sua mente rievocò pomeriggi estivi di giochi spensierati e quiete sere trascorse davanti al focolare.
Era come rincorrere il suo passato.
Skye si immobilizzò, i piedi nudi incollati al pavimento, quando vide baluginare una luce opalescente davanti a sé. Durò un battito di ciglia, ma ebbe il tempo di riconoscere un viso dai lineamenti vaghi e sfocati.
Poi tutto terminò con una risatina infantile che si sparse tra le pareti spoglie.
La ragazzina si portò una mano davanti alle labbra, il respiro mozzato dall’emozione.
Un’altra carezza invisibile le arruffò i capelli, poi una figura esile cominciò a definirsi al suo fianco.
Una figura piccola, bianca, col visino spruzzato d’innocenza e un sorriso birichino sulle labbra.
Una figura che Skye aveva sempre percepito accanto, ma che solo allora aveva modo di vedere per davvero.
E, quando incrociò i suoi occhioni grandi e scuri, per lei fu come guardarsi di nuovo allo specchio dopo tanti anni.
“Timmy” sussurrò piano, quasi timorosa che il suo fiato lo facesse scappare o dissolvere. Non si mosse di un millimetro, anche se aveva il cuore in tumulto e la smania di abbracciare il bimbo che aveva di fronte.
“Sì Skye, sono io. Sono sempre stato qui” ribatté lui, con quella sua vocina così dolce da far salire le lacrime agli occhi.
Timmy piegò appena la testa di lato e osservò la gemella con occhi vivaci e impertinenti.
Era proprio come Skye lo ricordava: un bimbo di sei anni – ed erano ancora gemelli, lo sentivano nell’anima, anche se lei era cresciuta e ora di anni ne aveva nove – con i capelli scuri sempre in disordine. Indossava anche gli stessi vestiti dell’ultima volta: dei calzoncini grigi sdruciti e una maglietta azzurro cielo.
“Timmy, io non ti volevo lasciare solo” mormorò Skye, trattenendo un singhiozzo.
Lui le sorrise innocente. “Ma tu non mi hai mai lasciato solo. E non ho mai lasciato sola te. Siamo gemelli, e i gemelli sono legati per sempre; non si dividono mai, mai.”
“Dici davvero?”
“Ma certo!” Timmy rise e le ruotò attorno, camminando a piccoli saltelli. Poi le si piazzò nuovamente di fronte. “Sciocchina! E poi sono io, quello un po’ tonto tra i due!”
Skye avrebbe voluto trovare le parole e i gesti adatti per esprimere quanto fosse contenta di riavere il suo gemello con sé, quanto si sentisse completa.
Non si sentiva più sola.
Ora si sentiva di nuovo viva.
Ma non trovò il coraggio di far niente, incantata da quel bimbo avvolto da un alone di luce che lo rendeva ancora più bello e magico.
“Skye?”
“Dimmi.”
“Giochiamo! Come facevamo sempre!” Detto ciò, lo spiritello fatto di luce le sfiorò una mano e poi corse via lungo il corridoio, ridendo con genuino divertimento.
Skye sgranò gli occhi e si portò d’istinto le dita davanti al viso. Quelle stesse dita che avevano sfiorato la mano di Timmy – e lei l’aveva sentito davvero quel contatto, erano stati pelle contro pelle, e quella era la cosa più vera che avesse vissuto in tre anni.
Si erano toccati. E lei si era sentita così viva ed elettrizzata!
Contagiata dall’euforia del momento e calamitata da una forza attrattiva che non sapeva – non voleva – controllare, si lasciò sfuggire una risatina a sua volta e cominciò a correre, inseguendo il fratellino che era scomparso chissà dove, magari aveva svoltato l’angolo o aveva preso le scale. Continuava a sentire le sue risate e la sua voce in una marea di eco e rimbombi, avvertiva la sua presenza più forte che mai. Lo voleva scovare, acchiappare e stringere tra le braccia, come facevano sempre quando giocavano a rincorrersi, e non voleva lasciarlo mai più andare.
Lo avrebbe protetto e tenuto con sé, come aveva promesso. La sua metà, l’unico con cui avrebbe condiviso ogni istante – dal primo all’ultimo.
Fu costretta a fermarsi, e le risa le morirono in gola, quando una delle porte che si affacciavano sul corridoio si schiuse lentamente, cigolando e lamentandosi per la vecchiaia. Quel suono stridente le ferì le orecchie e Skye si portò istintivamente le mani a coprirle.
Lo sguardo le si appannò di confusione quando mise a fuoco nella penombra la sagoma ricurva e avvizzita della signora Havelock; la vecchia, complice la fioca luce del camino proveniente dall’interno della sua stanza, l’aveva riconosciuta e ora le rivolgeva uno sguardo torvo e minaccioso.
Skye serrò le labbra, come la prima volta che l’aveva incontrata.
“Signorina Skye Whistler, si può sapere cosa stai facendo a quest’ora fuori dalla tua stanza? Devo forse ricordarti che è vietato?” cantilenò aspramente, le rughe sulla pelle visibili pure nella penombra per via dell’espressione corrucciata.
La bambina si guardò attorno, in cerca di un appiglio. La risata di Timmy risuonava ancora fioca nell’aria, ma la poteva sentire solo lei; per un istante le parve anche di vedere la sua figura luminosa ed evanescente strisciare lungo una parete.
Sbatté un paio di volte le palpebre e tornò a guardare la signora Havelock.
“Allora? Sto aspettando una risposta” incalzò.
“Io… io stavo giocando con mio fratello.”
La proprietaria dell’orfanotrofio rimase interdetta, scrutò ancora quell’esserino fragile che sembrava sempre sul punto di spezzarsi, ma che quella volta le aveva risposto con una determinazione e una candidezza disarmanti.
“Stavi giocando con il tuo gemello?”
Skye annuì. “Sì.”
Il suo gemello era morto da tre anni.
 
 
   
 
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