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Autore: Soul Mancini    14/12/2020    2 recensioni
Quella notte – come tutte le notti – l’avevano svegliata e attirata a loro, l’avevano richiesta e rivendicata con quella loro inesorabile delicatezza. Per un attimo aveva confuso quei sospiri col vento, che sibilava forte oltre la finestra e fischiava tra le imposte cigolanti, ma ben presto aveva capito che si trattava di loro. Erano venuti a cercarla. [...]
Ma Skye non aveva paura. Loro non le volevano fare del male: le venivano a far visita, le sfioravano la pelle e le orecchie, volevano un po’ di compagnia. E ogni tanto, tra tutto quel sibilare e frusciare, Skye aveva riconosciuto la voce di Timmy. [...]
“Timmy, io non ti volevo lasciare solo” mormorò Skye, trattenendo un singhiozzo.
Lui le sorrise innocente. “Ma tu non mi hai mai lasciato solo. E non ho mai lasciato sola te. Siamo gemelli, e i gemelli sono legati per sempre; non si dividono mai, mai.”
- QUINTA CLASSIFICATA al contest "Darkest Fantasy II edizione" indetto da Dark Sider sul forum di EFP.
- Partecipa alla challenge "Seasons Die One After Another" indetta da Laila_Dahl sul forum di EFP.
Genere: Angst, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Kidfic | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Dal primo all’ultimo istante
 
II

 
 
 
 
 
 
Pazza, la chiamavano.
La ragazzina che sentiva le voci. La ragazzina che aveva le allucinazioni e vedeva i fantasmi.
Pensavano che si stesse inventando tutto, che farneticasse e che fosse impazzita a causa del brutto trauma che aveva vissuto.
Perfino gli altri bambini avevano cominciato a vociferare e bisbigliarsi le cose all’orecchio.
“Dicono che vede il fantasma di suo fratello.”
“Dicono che sente le voci della sua famiglia.”
“È una matta, io non ci voglio mai più parlare!”
“Ma no, non è pazza. Tutta la sua famiglia è morta davanti ai suoi occhi, è normale che adesso dica cose strane.”
“Che brutto! Io almeno la mia famiglia non l’ho mai conosciuta!”
“Ma che dici? Io invece li avrei voluti conoscere, i miei genitori. È stata fortunata!”
A Skye in realtà non importava granché. Non aveva mai stretto amicizia con gli altri bimbi della casa; se qualcuno ora evitava di rivolgerle la parola, non faceva alcuna differenza.
Avevano chiamato una psicologa, che andava a farle visita ogni settimana; era una delle più brave della zona nel suo mestiere, si teneva sempre aggiornata e seguiva le nuove teorie sui traumi e sulle fasi dello sviluppo. Dove l’avessero pescata e con quali soldi l’orfanotrofio riuscisse a pagarla, era un gran mistero per tutti.
La prima volta che Skye l’aveva incontrata, in una stanza del secondo piano rimessa a nuovo apposta per quelle occasioni, l’aveva trovata abbastanza simpatica ma troppo impicciona. Si trattava di una ragazza molto giovane, dal viso gentile e i capelli castano chiaro sempre in ordine, che sorrideva un po’ troppo spesso e finiva per risultare finta; si era presentata come la dottoressa Beck.
“Allora Skye,” aveva esordito, dopo che la bambina si fu accomodata sul gradino del grande camino, “cosa ti piace fare nel tuo tempo libero?”
Lei l’aveva scrutata con confusione. Che le importava?
“Niente” fu la sua risposta, e non era del tutto falso.
“Non ti piace giocare con gli altri bambini?”
Skye aveva scosso la testa.
“Non hai qualche amico qui dentro?”
“Sì, ma i miei amici non li può vedere nessuno.”
L’aveva tempestata di domande, le aveva chiesto di descrivere ciò che le capitava ogni notte; Skye aveva risposto controvoglia e non aveva dato tanti dettagli. Era la prima volta che qualcuno si interessava ai suoi spettri che sospiravano nelle tenebre e lei non sapeva come comportarsi.
Andò così anche la volta successiva, e quella dopo ancora. Addirittura la dottoressa Beck le domandò, dopo una manciata di incontri, della sua famiglia e del giorno dell’incidente; a Skye non piacque, e si chiuse in se stessa.
Non era una bambina stupida: ben presto capì a quale gioco stesse giocando quella donna che voleva farsi i fatti suoi, e altrettanto presto comprese come neutralizzare i suoi trucchetti. A ogni incontro apriva bocca sempre meno, e quando lo faceva era solo per dire bugie e farle credere che la terapia stesse funzionando.
La dottoressa Beck era convinta che lei stesse mentendo, che i suoi spettri non fossero veri. Che ingenua! Se solo avesse potuto sentire quei bisbiglii come li sentiva lei, se solo avesse potuto avvertire quelle presenze capaci di una forza magnetica inesorabile, se solo avesse potuto toccare la pelle di Timmy, più vera e concreta che mai.
La terapia si dilatò per mesi – anni.
Skye cresceva, non era più una bambina ormai, ma nulla era cambiato.
Di notte, quando i sospiri la avvolgevano e gli spettri le parlavano, si sentiva sempre più viva e completa.
Di giorno, quando i suoi amici si nascondevano e la lasciavano con quegli estranei che le vivevano attorno, si sentiva sempre più morta e arida.
Nessuno – né la dottoressa Beck, né lei stessa – si rendeva conto che la morte teneva stretta la sua anima tra le braccia più forte di quanto non facesse la vita.
 
 
♦♦♦
 
 
A Skye avevano sempre fatto paura i temporali. Non era tanto la pioggia che cadeva forte o il vento che la frustava contro le pareti a disturbarla, ma piuttosto la luce improvvisa e abbagliante dei fulmini che si insinuava tra le ciglia e scuoteva via il sonno.
Si svegliò col cuore che martellava più delle gocce grosse sul vetro, un brivido le corse lungo il corpicino giovane e acerbo e lei si rannicchiò maggiormente tra le coperte.
C’era qualcosa che non andava quella notte, non era soltanto la tempesta a renderla irrequieta.
Si portò le mani alle orecchie per allontanare il ruggito dei tuoni che squarciava il cielo, ma tra le sue dita s’insinuarono comunque i sospiri e i sussurri di sempre.
Stavolta erano diversi. Respiravano più forte, sembravano più vicini e prepotenti.
Scattò a sedere sul letto – fu costretta a serrare gli occhi quando un nuovo lampo inondò la camera di luce – e un tocco gelido le sfiorò la guancia.
Skye.
Tremò tutta quando sentì pronunciare il suo nome.
“Skye.”
Ora la voce era chiara, aveva scandito bene le consonanti – le vocali erano un rantolo glaciale.
Non riconobbe subito quel timbro, in mezzo al tumulto del temporale. Eppure, nonostante l’incertezza e il terrore che le attorcigliava le viscere, si alzò e lasciò la sua stanza. Non era qualcosa che poteva controllare, non ci era mai riuscita: quando loro venivano a svegliarla e a cercarla, esercitavano sul suo essere una forza attrattiva che la obbligava a seguirli. Buoni o cattivi che fossero, ce l’avevano in pugno.
Uscì in corridoio e si concentrò per udire e seguire quei sospiri così tetri che scivolavano sul pavimento freddo e sul soffitto crepato.
Avrebbe voluto piangere, ma era troppo spaventata anche per quello; si limitò a tenere gli occhi sgranati e avanzare a piccoli passi laddove l’istinto la guidava.
Per alcuni brevi istanti che a lei parvero un’eternità, i sospiri le si infransero sulla pelle – sbuffi gelidi e colmi di cattiveria – e la condussero sul fondo del corridoio, un anfratto in cui non l’avevano mai attirata prima. sulla parete davanti a sé, piccolo e inerpicato quasi sul soffitto, si apriva un lucernario da cui si poteva scorgere tutta la furia della tempesta.
Skye era accerchiata da mura: davanti, a destra, a sinistra. Solo dietro di lei si estendeva il corridoio deserto.
“Skye.”
La ragazzina serrò le labbra e strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi.
“Skye, devi badare a tuo fratello.”
Era una voce più forte delle altre, ed era più rabbiosa. Le parlava in tono sprezzante, la accusava.
La riconobbe.
Si voltò di scatto, appiattendosi contro la parete e scrutando attentamente davanti a sé, nel corridoio buio. Un lampo rischiarò per un attimo la penombra, infiltrandosi dal lucernario, e lei non poté che sobbalzare appena.
“Skye, stai attenta a Timmy.”
“Mamma…” mormorò la ragazzina, per poi mordersi il labbro inferiore. Cos’aveva fatto per far arrabbiare così tanto lo spirito della sua mamma, quella donna che era sempre stata così buona e comprensiva con lei? Perché non era come Timmy, entusiasta e affettuoso ogni volta che veniva a trovarla?
“Devi badare a tuo fratello, stai attenta. Lo devi proteggere!” Il grido squarciò l’aria come un tremendo stridio; Skye era sul punto di sollevare le mani e portarsele alle orecchie, quando qualcosa – qualcuno – le sfiorò il polso.
Un nuovo rivolo di luce inondò l’andito, ma stavolta Skye poté vedere qualcosa davanti a sé.
Una figura agghiacciante, improvvisa come un lampo: una donna dalla pelle talmente diafana che la tempesta vi brillava sopra, dai capelli annodati, gli occhi torbidi e l’espressione furiosa.
Era la sua mamma, e il suo viso era così crudele e accusatorio da mettere i brividi.
E gridava, le labbra spaccate e gli occhi infiammati.
“Devi badare a tuo fratello!”
Skye serrò gli occhi e fece per sollevare le mani con l’intento di proteggersi, ma ecco di nuovo quel tocco sul suo polso. Stavolta però non fu fugace: lo spirito le aveva intrappolato il braccio tra le dita sottili e gelide e ora stava conficcando le unghie nella sua pelle, come a rivendicarne la proprietà.
Quelle dita ghiacciate bruciavano, quelle unghie rabbiose ferivano. Skye era in trappola.
Si morse il labbro per trattenere le lacrime e guardò davanti a sé, ma come se n’era andato quel lampo di luce, era scomparsa anche l’orrorifica visione; ora la ragazzina poteva avvertirne soltanto la presenza e le unghie che le scorticavano il polso.
“Perché ce l’hai tanto con me, mamma? Cos’ho fatto?” mormorò, la voce incrinata dal pianto e dal terrore. Suonava come la voce di una bimba piccola, anche se Skye era ormai quasi una donna.
La risposta le giunse in un sussurro cattivo e troppo vicino al suo orecchio, che le solleticò la pelle: “Ti sembra giusto, piccola mia, che tu sia viva e tuo fratello sia morto?”.
“Ma…”
Un tuono esplose fuori dalla finestra, talmente feroce che sembrò sul punto di sventrare l’orfanotrofio, e lo spirito della donna gridò di rabbia, graffiando la pelle di Skye con ancora più violenza.
La ragazzina, colta da un dolore lancinante – era quello della sua pelle o della sua anima? – si ritrasse d’istinto, con una tale foga che riuscì a liberarsi dalla stretta. Sbatté con la spalla alla parete, ma non se ne preoccupò; non badò nemmeno al rivolo di sangue che le colava sul dorso della mano fino a impiastricciarle le dita.
Corse via, fulminea, tremante e spaventata, raggiungendo alla cieca il punto in cui sapeva di trovare la porta della sua camera. I sospiri e i sibili la seguivano, frammisti al tamburellare della pioggia e i sommessi gorgoglii del cielo, e lei voleva soltanto tapparsi le orecchie e non sentire più niente.
Si chiuse dentro la sua stanza, si assicurò che il legno pesante della soglia le facesse da scudo – anche se sapeva benissimo che una stupida porta e delle stupide pareti non potevano niente contro di loro.
Si rese conto solo allora di quanto stesse tremando.
Ma non si rese affatto conto di quanto la sua vestaglia bianca fosse macchiata di sangue.
In fondo la sua mamma aveva ragione: lei era viva, Timmy era morto, e nessuno dei due sarebbe stato completo finché non fossero appartenuti alla medesima dimensione.
 
La mattina dopo, quando Skye si ridestò di soprassalto, gli squarci rossi erano ancora lì, a deturpare la sua carne morbida e giovane. Partivano dall’avambraccio e percorrevano il polso, fino a offendere il dorso pallido.
Skye cercò di nasconderli più che poté, indossando la veste con le maniche più lunghe che possedeva; se qualcuno li avesse notati e le avesse chiesto spiegazioni, poi cos’avrebbe raccontato?
Non le avrebbe creduto nessuno, avrebbero pensato che si fosse ferita da sola per risultare convincente.
Ma i fantasmi che Skye s’inventava non potevano farle male davvero.
Quando uscì dalla sua stanza per la colazione, camminò a sguardo basso per non far vedere i suoi occhi, ancora più neri e torbidi del solito. La morte si stava insinuando dentro di lei, e quelle unghie rabbiose non avevano fatto che spingergliela ancora più nelle ossa.
 
 
♦♦♦
 
 
Era una bella ragazza, di una bellezza fragile e particolare. Aveva la carnagione fatta di neve, tanto era chiara e delicata, possedeva gambe lunghe e sottili che slanciavano la sua figura da giovane donna e i tratti del viso erano di una dolcezza che la rendevano eterea. Gli occhi scuri erano rimasti gli stessi di quando era bambina, talmente enormi da potervi scorgere dentro interi universi, e i capelli corvini e fluenti le ricadevano vaporosi sulle spalle, spesso raccolti in una morbida coda.
Era forse un po’ troppo magra, questo sì, talmente tanto che le ossa a volte sembravano sul punto di bucarle la pelle.
Skye era una quindicenne giovane e bella che, se solo ne fosse stata in grado, avrebbe potuto cominciare ad affacciarsi al mondo. Il mondo, già: quel luogo estraneo abitato da estranei che mai aveva avuto interesse a conoscere.
Non mangiava quasi mai, e se lo faceva le veniva la nausea. Meglio, avrebbe detto qualcuno, almeno ci sarà più cibo per gli altri orfanelli che hanno voglia di crescere.
E nemmeno parlava più; nessuno si ricordava quale fosse la sua voce e si cominciò a mettere in dubbio che ne avesse una. Non che fosse mai stata granché loquace, in realtà.
“Come mai non parli? Ti è caduta la lingua?” le chiedeva qualcuno tra i bimbi più piccoli e curiosi, ma era come se Skye non li udisse nemmeno.
La psicologa Beck non andava più a farle visita da un pezzo. La terapia era andata avanti per cinque lunghissimi anni, ma a ogni incontro Skye si chiudeva sempre più in se stessa e alla fine aveva smesso definitivamente di parlare. Non le interessava più della presenza della dottoressa, la ignorava del tutto.
Alla fine la Beck aveva comunicato alla signora Havelock che lei non poteva fare nient’altro per aiutare Skye, che era un caso troppo difficile e non c’era speranza di recuperarla; da quando aveva cominciato il suo percorso con lei, non aveva visto alcun progresso. Era pazza e non ci si poteva far molto.
Skye aveva quindici anni, lo sguardo vuoto e una bellezza che sembrava appartenere a un altro mondo. E forse, in fondo, era proprio così.
Skye somigliava sempre più agli spettri che solo lei poteva vedere.
 
 
♦♦♦
 
 
Quella sera faceva tanto freddo. Per tutta la giornata un nevischio grigiastro e sporco era piovuto piano, rigando i vetri e spruzzando la campagna spoglia e dormente di fine autunno.
Quando Skye aprì gli occhi, tuttavia, uno strano e piacevole calore le si spandeva per tutto il corpo. Percepiva l’aria gelida della notte su di sé, ma non ne era affatto infastidita, come prigioniera in una bolla tiepida che la proteggeva.
Sorrise nell’oscurità. Sapeva che quella notte sarebbe successo qualcosa di bellissimo, sentiva già la presenza di Timmy. Era venuto a trovarla.
Udì una risatina e un leggero sbuffo d’aria l’avvertì di un fugace spostamento; si guardò intorno, curiosa e dopo qualche istante mise a fuoco una figura minuta che si stagliava ai piedi del suo letto, accomodata sul bordo del materasso. Il suo visetto chiaro era appena illuminato dalle ultime deboli fiamme nel camino.
Col cuore che batteva a mille, Skye sgusciò fuori dalle coperte e si accovacciò accanto a quello spiritello. Tutto intorno a loro era silenzioso, anche i soliti sospiri che accompagnavano l’arrivo di qualche anima si erano messi a tacere.
“Skye.” La vocina sottile di Timmy riempì l’aria, un sussurro dolce.
“Sono qui.”
“Mi manchi tanto.”
“Anche tu mi manchi.”
Il bimbo allungò la mano e afferrò quella della ragazza, stringendola forte. Avevano ormai quasi dieci anni di differenza, ma in quel momento, con le dita intrecciate e le mani calde e amorevoli che si sfioravano, si sentirono di nuovo gemelli. Mai come in quel momento si erano sentiti così vivi ed elettrizzati, così completi – a casa.
In quel momento Skye lo realizzò veramente, forse per la prima volta nella sua vita: erano legati indissolubilmente, l’uno senza l’altra non potevano esistere, ovunque uno di loro sarebbe andato l’altro l’avrebbe seguito.
Era il destino delle anime nate nello stesso istante: erano fatte per proteggersi, amarsi e non separarsi mai.
“Timmy, io ti voglio proteggere.”
Il bimbo sorrise e i suoi occhi scuri e grandi, identici a quelli della sorella, brillarono. “Lo so. Resta con me per sempre.”
Skye non seppe cosa rispondere. Piegò appena la testa di lato e lo scrutò, tenendogli ancora stretta la mano.
Dopo qualche istante, Timmy si liberò dalla stretta e balzò giù dal letto; corse verso la porta, la socchiuse e uscì in corridoio, non prima di aver strizzato l’occhio alla sua gemella. “Vieni a prendermi!”
Skye sorrise e, senza farselo ripetere due volte, si mise in piedi e gli andò dietro. Chissà cos’aveva in mente quel birbante.
Si affacciò al corridoio e la risatina leggera di Timmy le accarezzò le orecchie. Senza nemmeno preoccuparsi di richiudere l’uscio, seguì la sua forza attrattiva – poteva sentire la sua presenza pur senza vederlo – fino all’imboccatura delle scale che portavano al piano terra.
Timmy era sull’ultimo gradino in fondo e la osservava col suo solito sorrisetto scherzoso e impertinente. “Skye, tu mi vuoi seguire?”
Dei leggeri sospiri cominciarono a spargersi tutt’attorno a loro, lenti e dolci, per nulla invadenti.
“Certo.”
“Allora ti porterò in un posto bellissimo, ti piacerà un sacco. Vieni con me, Skye.”
Il corpicino di Timmy ora era avvolto da un alone luminoso quasi impercettibile, ma che fece brillare ancora di più il suo sorriso dolce da bambino.
E Skye da quella luce si fece guidare. Non si trattava più della stessa forza attrattiva che gli spettri esercitavano su di lei, non era un’obbligazione: scese le scale e lo fece per sua volontà, procedette a piccoli passi sul pavimento gelido e sentiva di volerlo.
Ovunque Timmy l’avesse portata, nulla sarebbe potuto andare storto se fossero stati assieme.
Il suo gemello ridacchiava piano, appena sopra dei sospiri che guidavano e facevano da canto d’accompagnamento alla loro giocosa danza. Timmy scappava, Skye lo inseguiva, e quando era sul punto di sfiorarlo, lui correva via nuovamente e le chiedeva di seguirlo.
A malapena Skye si rese conto che i suoi piedi nudi non poggiavano più sul marmo freddo, ma erano pizzicati dalle pungenti sterpaglie della campagna. Non si accorse della brezza frizzante della notte autunnale, né del leggero nevischio che le si incastrava tra i capelli, talmente era concentrata a seguire quel filo che la legava all’altra metà di sé.
E quei sospiri misti al vento, che qualche volta le erano sembrati così minacciosi, ora le apparivano così dolci e festosi.
Camminarono, corsero, danzarono, risero spensierati, gettarono la testa indietro e fissarono il cielo tutto nero; lasciarono che le loro dita si intrecciassero e si scaldassero a vicenda.
Skye non ci pensava, che ormai l’orfanotrofio era lontano e mai sarebbe potuta tornare indietro. A dire il vero, in quell’orfanotrofio la sua anima non ci era mai entrata.
Non ci pensava alla pelle frustata dal freddo, alle piante dei piedi cosparse di schegge e a tutte quelle sensazioni che erano una prerogativa dei vivi.
E quando Timmy la condusse all’interno di un boschetto abbandonato a se stesso da decenni, dove le tenebre si infittivano ancora di più e i rami bassi sfioravano le guance, non ebbe paura. Strinse la mano al suo gemellino, che le fece strada con fare esperto, finché non si fermarono in una piccola radura. Uno squarcio tra le nubi lasciava trapassare un raggio di luna, mentre il nevischio continuava a cospargere le loro pelli di cristalli luminosi.
“È questo il posto in cui mi volevi portare?” domandò Skye, la voce colma d’emozione e sottile come quando era bambina.
Timmy annuì. “Questo è il posto in cui io proteggo te e tu proteggi me. E non fa niente se la mamma è arrabbiata e se tutte le anime tormentate vengono a cercarti: io e te staremo sempre insieme, come lo siamo sempre stati.”
“Oh, Timmy!” Con le lacrime agli occhi, Skye si lasciò cadere in ginocchio, macchiandosi il vestito di neve sporca, e trascinò Timmy con sé strattonandolo per la mano. Lui cadde al suo fianco.
Occhi dentro occhi – quattro pozzi neri e liquidi – e respiro contro respiro, si scrutarono a lungo, in silenzio. Non un brivido lungo le loro schiene, non un pizzico di rimpianto nei loro cuori.
Poi Timmy spinse la sorella all’indietro con delicatezza, fino a farla sdraiare tra le erbacce e il ghiaccio, poi si posizionò accanto a lei e la abbracciò stretta. Skye ricambiò il gesto, gli fece insinuare il visetto rotondo nell’incavo del suo collo e rimasero fermi, con gli occhi chiusi, a conoscersi di nuovo e fondersi insieme.
Tanti sussurri e sospiri si rincorrevano tra gli alberi, li rinchiudevano in un cerchio fatto di neve e amore.
Per la prima volta dopo quasi dieci anni, Skye non si sentiva più sola. Dovunque avesse cercato una nuova famiglia e dei nuovi legami, nulla avrebbe spezzato quell’incantesimo che la imprigionava nel passato.
Non comprese davvero che, in quell’abbraccio così rassicurante, la sua vita stava scivolando via e si stava sciogliendo come un fiocco di neve autunnale, troppo fragile per giungere al suolo. Quella che tutti avrebbero chiamato morte, per lei era tornare al luogo a cui era sempre appartenuta.
Era ritrovare la sua vera famiglia.
Attese quieta che le braccia di Timmy risucchiassero ogni sua energia, attese che le loro anime si attorcigliassero e si intrecciassero per vivere insieme il loro ultimo istante.
Era così che doveva capitolare la loro storia: insieme, dal primo all’ultimo istante.
E Skye non si sarebbe mai più sentita sola.
 
 
♦♦♦
 
 
Quando l’alba cominciò a tingere il cielo di grigio, nessun fiocco di neve vorticava più verso il suolo.
In mezzo alla radura, coperti da un sottile strato di ghiaccio, giacevano due corpi gemelli: due bimbi di circa sei anni, dalla pelle bianca e i capelli neri.
Pallidi e immobili, stretti in un abbraccio eterno.
Insieme.
 
 
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
BASTA.
Questa storia mi ha risucchiato la linfa vitale, veramente, sono STREMATA!
Questa storia è stata un vero e proprio parto gemellare (giusto per rimanere in tema), forse per il fatto che ho interrotto e ripreso seimila volte la stesura, forse perché si tratta di un genere che non è esattamente nelle mie corde… e non so nemmeno se il parto sia andato bene o meno, a me sembra più un aborto che altro AHAHAHAHAH ma meglio non consultare la mia autostima! XD
Ho paura di essere del tutto fuori genere, tra l’altro. Non so se questa cosuccia possa essere considerata dark fantasy, e in ogni caso ho la vaga impressione che arriverò ultima al contest di Dark Sider… cara, perdonami: hai cercato di convertirmi al lato oscuro e io ti ho consegnato una kidfic.,.. e il finale è FLUFF -.-
Tra le altre cose, questa minilong sembra la sagra dei cliché… ma ehi, io non so proprio farmi venire delle idee decenti per il fantasy/sovrannaturale XD
Spero comunque che almeno a qualcuno possa essere piaciuta e di aver trasmesso almeno un minimo di inquietudine XD
E adesso vado a dormire, ci si sente dopodomani SE mi sarò ripresa da tutto ciò XD ♥
 
 
   
 
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