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Autore: _Lightning_    16/12/2020    3 recensioni
Ogni pochi secondi, Din continua a chiedersi come sia finito nel letto di Cara.
Non è ancora riuscito a darsi una risposta razionale.

[The Mandalorian // Angst // Hurt/comfort // Spoiler! (S2X15) // implied!CaraDin // Maritombola 11 - Prompt 11: Apatia]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Baby Yoda/Il Bambino, Carasynthia Dune, Din Djarin, Yoda
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Tales of Two Space Warriors and Their Green Womprat'
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Contesto: S2X07 – The Believer
Genere: introspettivo, hurt/comfort, sentimentale
Personaggi: Din Djarin, Cara Dune, Grogu&Altri (menzionati)
Avvertimenti: Missing moment/what if, implied!CaraDin, Spoiler!Capitolo15
[Partecipa alla Maritombola 11 indetta da Lande di Fandom – Prompt n°11: Apatia – SFW]


 



 

 

“If I could start again
A million miles away
I would keep myself
I would find a way”


[Hurt – Johnny Cash]

 

Ogni pochi secondi, Din continua a chiedersi come sia finito nel letto di Cara. Non è ancora riuscito a darsi una risposta razionale.

È tutto sfocato. È tutto sfocato da quando hanno preso il Bambino. Da quando la Crest non cè più. Da quando ha infranto il Credo. Non è davvero sfocato – è vuoto, un vuoto che si espande nella sua mente e divora vivi i pensieri.

Non riesce nemmeno a pensare davvero; a ciò che è accaduto. È tutto un brusio nel retro della sua testa, un sottofondo di vibrazioni costanti, come di un motore acceso e impostato in pilota automatico che non lo lascia dormire. Fissa il soffitto, consapevole della presenza tiepida di Cara accanto a lui, consapevole della sua testa scoperta poggiata su un cuscino condiviso, con un braccio ripiegato sulla fronte a fare inutilmente da scudo al suo volto nudo. Consapevole di non essere consapevole. Nemmeno lontanamente.

Il suo corpo è qui, adagiato su un materasso sottile, annidato nel lieve calore delle coperte, ma la sua mente è ancora intrappolata sotto il beskar, al freddo. Gli trema in testa, spaesata, e percepisce lelmo che lo fissa dallangolo in cui lha riposto. Giudicandolo. Ritenendolo indegno di indossarlo. Scorticandolo vivo con ogni secondo che passa fuori dallabbraccio del metallo.

Cerca di prendere un respiro profondo, di distendere muscoli e contrazioni che lo attanagliano, ma gli rimane impigliato tra le costole. Serra gli occhi inutilmente, coprendoli col braccio, ma è come se fossero comunque aperti.

Vorrebbe solo riuscire a dormire.


 



Poche ore prima.
 

Hanno deciso di fare tappa su Nevarro per i rifornimenti. La rotta di Gideon sembra comunque puntare verso quel settore, quindi saranno in grado di intercettarlo nel giro poche ore non appena uscirà dall’iperspazio. Non possono attaccarlo direttamente: devono elaborare un piano, capire dove sia diretto di preciso, organizzare ogni singola mossa. Non hanno più la vibrolama dalla parte del manico, dopo aver scoperto le loro carte in modo così plateale.

Almeno, questo è ciò che Fett dice loro, dall’alto della sua innegabile posizione di veterano. Din ha la sensazione che quel discorso sia rivolto principalmente a lui. Come se si aspettasse qualche obiezione da parte sua riguardo al dover agire subito, o qualche altro colpo di testa come la bravata dell’olomessaggio. Din, invece, tace e annuisce, anche se si sente quasi sordo nell’ascoltarlo. Dopotutto, quella linea d’azione ha senso. La Slave I ha bisogno di carburante; loro di sonno, cibo e riposo. 

E a lui serve un maledetto momento da solo, lontano da tutti, così da potersi scartavetrare gola e polmoni a forza di gridare nell’elmo – quello stesso elmo che non dovrebbe mai più indossare in vita sua, e che è invece ancora calcato sulla sua testa. Bastano pochi, lunghi secondi e un singolo urlo viscerale, per sentire le corde vocali scorticate e doloranti, mentre un sapore metallico gli invade la bocca. 

Non sa cosa fare. La sua testa pulsa sotto il metallo, inutile, vuota. Non sa cosa fare, se non dibattersi all’infinito in quei minuti agonizzanti a volto scoperto, e a cosa significano davvero. Vorrebbe rinchiudersi nel buio rassicurante della sua cuccetta sulla Crest – ma la Crest non c’è più, e il Bambino non c’è più, e forse non c’è più nemmeno lui stesso – si è dissolto assieme al Credo.

Prova anche adesso l’impulso malsano di togliersi l’elmo, di scagliarlo via nella cenere e fuliggine grigia con cui si confonde. Non lo fa, non sa se per coraggio o vigliaccheria. Gli serve quel beskar per salvare Grogu, e sta andando contro tutto continuando a indossarlo. Ma non riesce neanche a farne a meno, e quel fatto non ha nulla a che vedere con la sua missione. 

Ha l’impressione di non sapere più nulla ormai, come se gli anni vissuti come Mandaloriano gli stessero sfuggendo via tra le dita, svuotandogli la testa e lasciando dietro di sé voragini incolmabili in cui rischia di cadere.

Cara lo trova al tramonto su uno dei crinali lavici che circondano la città, e il suo arrivo gli impedisce di diventare completamente afono. Nonostante tutto, si trova a ringraziare l’isolamento acustico dell’elmo, anche se non può nascondere del tutto il suo stato d’animo: marciare avanti e indietro con la mani serrate dietro alla nuca, a capo chino, non è un comportamento normale per lui, ed è certo che lei l’abbia scorto da un pezzo. Ma ha il tatto di non indagare, anche se gli rivolge uno sguardo penetrante che racchiude ogni domanda alla quale non ha intenzione di rispondere – e sa che non insisterà.

Gli riferisce invece qualcosa riguardo a una parvenza di piano di cui stava discutendo con gli altri poco fa, in sua assenza, ma non si sente in grado di seguire il filo del discorso, figurarsi di contribuirvi. Si limita ad annuire, più rigido che mai, per la prima volta incapace di guardare qualcuno negli occhi.

Cerca di riscuotersi. Dovrebbe concentrarsi su Grogu, sul farla pagare a Gideon, ma non riesce più a separare un pensiero dall’altro. È tutto rumore di fondo che riverbera nell’elmo, ormai. Si sente distante, col filo tra corpo e mente reciso di netto.

«Hai un posto dove dormire, stanotte?» gli chiede all’improvviso, e non sa dire se abbia cambiato discorso già da un po’, o se sia solo un qualcosa a cui ha pensato in quell’istante.

È una domanda lecita. Cerca di deglutire, con l’impressione di mandar giù un bolo di plasma incandescente.

«Ho ancora il mio alloggio al Rifugio,» risponde, conscio che il vocoder camuffa solo in parte quanto sia sfilacciata e roca la sua voce.

Capisce dalla reazione interdetta di Cara che deve suonare ancor peggio di quanto credeva. Tra l’altro, non ha idea di come sia riuscito a formulare una risposta sensata quando non riesce nemmeno a ricordarsi quando ha mangiato l’ultima volta, o come sia finito lassù a sgolarsi.

«Non credo sia una buona idea,» replica lei, con delicata fermezza.

E ha assolutamente ragione. Non crede nemmeno lui che sia il momento giusto per dormire coi fantasmi – o per starci sveglio assieme. Per esserne perseguitato come fosse un reietto.

«Ho una branda in più nella mia stanza alla Cantina, se non sei schizzinoso.»


No, non lo è. Dormirebbe sui campi lavici attivi, se potesse aiutarlo ad annullarsi per qualche istante. E stare con lei gli sembra un’opzione migliore che rimanere con gli altri – nello specifico, con un altro Mandaloriano dal dubbio Credo. Accetta l’offerta senza nemmeno arrivare a concludere quella trafila di pensieri fulminei, annuendo di riflesso, senza una parola.

La segue verso la città, tenendole dietro a passi affaticati, ma regolari. Se in passato le ha affidato la vita e ieri l’armatura, per una notte può anche affidarle se stesso, o quel poco che ne è rimasto.


 



Non sa dire come, ma in un battito di palpebre si ritrova nella stanza di Cara. È certo che sia passato molto più di un battito di palpebre, ma forse è sprofondato così a fondo nel proprio gorgo di riflessioni da non essersene reso conto.

Una brandina pieghevole è aperta lì accanto, nell’angolo. Il letto vero e proprio è in quello opposto; a separarli c’è scomparto incassato nel muro, probabilmente l’armadio. Un tavolinetto e una sedia completano l’arredamento essenziale, assieme a un baule per armi accanto alla porta e a un vano schermato da una tenda dove immagina sia il bagno. Perlustra l'ambiente in automatico, seguendo il riflesso istintivo che lo spinge a mappare i dintorni quando si ritrova in uno spazio nuovo.

Realizza che Cara lo sta fissando con fare interrogativo, a giudicare da come inarca le sopracciglia quando sposta lo sguardo su di lei. Cerca di ricordare se gli abbia chiesto qualcosa, e dubita di aver risposto a una sua singola domanda, o di aver pronunciato una sola parola. O lei è la persona più paziente della Galassia – e non lo è – o lui ha impostato di nuovo il pilota automatico, agendo e rispondendo senza alcuna volontà propria.

Di certo ha perso il contatto con la realtà, e detesta quella sensazione. Lo fa sentire più vulnerabile di quanto già non sia. Si limita a fissare Cara, sperando che ripeta qualunque cosa abbia appena detto. Vorrebbe che in qualche modo intuisse cos’è successo, e ne è al contempo terrorizzato.

«Mando?» lo chiama lei in quel mentre, incrociando le braccia sotto al seno. 

Lui quasi sobbalza a quell’appellativo, che ormai non lo rispecchia in modo veritiero. Si sforza comunque di darle un cenno, a segnalare che la ascolta. O almeno, che ci sta provando.

«Ti stavo chiedendo se di solito dormi al buio, così puoi toglierti l’elmo. Non ho intenzione di guardarti, ovvio, ma dimmi cosa preferisci. Non so come funziona,» aggiunge, incurvando appena le labbra con fare di scuse.

Sta parlando più lentamente di quanto faccia di solito, ed è chiaro che abbia notato la sua difficoltà a concentrarsi. Non può fare a meno di pensare a ieri, a quando quell’ufficiale gli ha parlato come se fosse sordo, o stupido, o entrambi. Guardandolo in volto. Sente l’umiliazione che lo ustiona dall’interno, il disonore che gli pesa in mezzo alle scapole come una pressa, e si sente scaraventato di nuovo in quell’esatto momento, costretto a riviverlo. Indifeso, esposto. Ha freddo, sotto il velo bollente che gli si posa sulla pelle. Parla senza scegliere le parole, come fa spesso sotto pressione:

«Non lo so nemmeno io.»

La sua voce è così strozzata che crede di sentire qualcuno che lo strangola davvero – come ieri, quando una mano invisibile gli strizzava la gola, tagliandogli l’ossigeno e facendo nuotare la sua testa nel vuoto. È in preda alle vertigini anche adesso, e folate d’aria gelida gli sferzano il volto, anche se è del tutto coperto. Non percepisce il resto del corpo: si sente un guscio di beskar vuoto, troppo pesante per muoversi.

«Come– non lo sai? Che vuol dire?»

Cara è presa alla sprovvista, quasi irritata – o preoccupata. Forse pensa che stia facendo il difficile. Forse è così. Forse non lo sa davvero. L’ha mai saputo?

«Ho infranto il Credo.»

Gli sfugge di bocca come un colpo di blaster, anche se parla così piano e pacato da essere a malapena udibile. Vede il puro sconcerto esplodere sul volto di Cara, assieme l’orrore, all’incredulità, al dolore, come se l’avesse colpita in pieno petto e lei non riuscisse ancora a capacitarsi di essere stata ferita.

«Ho dovuto farlo.» Din scuote appena la testa, fissandola inerme. «Non so come funziona, adesso. Non–» 

La sua voce evapora, e non è più in grado di spingerla attraverso le sue corde vocali martoriate per produrre suoni di senso compiuto. È come se qualcuno gliel’avesse risucchiata via. Sente il suo corpo diventare ancor più distante, con la testa che si impantana in pensieri troppo densi per essere filtrati o separati gli uni dagli altri. Si addensano in sabbie mobili attorno al suo cervello mentre se ne sta là impalato, come un droide malfunzionante.

Cara si agita sul posto, freme, lotta chiaramente per elaborare una risposta o una reazione, gli occhi ancora sgranati per lo shock, il volto una maschera mutevole di emozioni contrastanti. 
Finché non la sente sospirare profondamente. Si passa una mano sul volto, si stropiccia gli occhi, stritolandosi la radice del naso e serra con forza le labbra, senza dire una singola parola, anche se Din può percepirne mille che si affastellano dentro di lei, tentando di strabordare e raggiungerlo.

Gli si avvicina, con una prudenza che non gli ha mai riservato, e si ferma a una distanza ragionevole da lui. Lo guarda oltre il beskar, e Din scorge chiaramente un orlo di lacrime a bordarle gli occhi, gridandogli in faccia un mi dispiace sonoro, spezzato. Anche se non lo dice, anche se non fa il minimo cenno di volersi avvicinare ancora. È più grato per quel silenzio che per quelle mille parole non pronunciate.

«Vuoi ancora rimanere?» gli chiede soltanto, attraverso un tremito ben percettibile nella voce.

Non è una domanda di circostanza. È una vera domanda, che pretende un netto  o no come risposta. E da come lo sta guardando, sa di poter rispondere come preferisce, senza temere di offenderla. Forse dovrebbe davvero dormire altrove. O passare la notte marciando a vuoto, perdendo testa e voce. Non riesce a costringersi a farlo, e si sente come se avesse appena perso una guerra contro se stesso. Serra i pugni, poi li rilassa con un respiro interrotto che quasi soffoca la sua risposta:

«Sì.»


Cara annuisce, serrando ancor di più le labbra, fino a sbiancarle. Din capisce solo ora che sta attivamente trattenendo il pianto, e sente lo stomaco sprofondare.

«Vuoi stare da solo?»


In tutta risposta, Din china il capo verso di lei, poggiandolo appena sulla sua spalla. La sua voce è di nuovo svanita, persa nei recessi del proprio petto. Non riesce ad esprimere in altro modo quanto non voglia rimanere solo in questo momento, senza compremettere ancora la propria dignità. Sente la mano di Cara che va a cingergli la nuca, premendo contro il tessuto spesso, che gli lascia comunque percepire l’orma del suo calore, una lieve elettricità che gli risale i nervi fino al cervello, sedandolo. 

La percepisce annuire e si scosta da lui, rivolgendogli un ultimo sguardo intenso, prima di superarlo. Spegne rapida tutte le luci per poi chiudere gli scuri, gettando la stanza nell’oscurità quasi completa.

Din si toglie l’elmo. Lo fa senza permettersi di pensare, col corpo che agisce di sua sponte non appena avverte la relativa sicurezza di quella parziale cecità. Non vede nulla, nemmeno il contorno delle proprie mani, ma non dovrebbe sentirsi al 
sicuro – la vista non ha nulla a che fare con come dovrebbe comportarsi in questa situazione.

L’elmo non si toglie, punto. Ma lo toglie lo stesso, e lo adagia ai piedi della brandina. Decine di Imperiali lo hanno visto; Mayfeld l'ha visto; uno scanner connesso a un database imperiale l'ha visto. Non importa più, ormai.

Prende a rimuovere anche l’armatura, con gesti meccanici e consumati, gli stessi che ha ripetuto per una vita intera. Questa potrebbe essere una delle ultime volte che li compie, e gli tremano le dita tra cerniere, fibbie e legacci, a quel pensiero. Si spoglia fino a rimanere con la casacca leggera e i pantaloni morbidi che porta sotto la tuta di volo. 
Non si sente sollevato, ma forse riesce a respirare più facilmente. Non sa nemmeno se faccia freddo, lì dentro, perché la sua pelle sembra insensibile, anche se gli si accappona sulle braccia. Riesce solo a percepire i lividi che quelle giornate gli hanno impresso addosso, e scopre un nuovo dolore e acciacco ad ogni movimento. Quasi li cerca, incapace di percepire altro se non quel sordo indolenzimento, ed è meglio del nulla.

Le volta le spalle, ma può udire Cara svestirsi a sua volta dall’altra parte della stanza. Sa che dovrebbe sentire qualcosa, sapendolo – non può negare di averci pensato, né che è una situazione in cui avrebbe voluto trovarsi, in circostanze differenti – ma sente il proprio corpo plumbeo, esangue, incapace di reagire anche agli stimoli più basilari.

La intravede come una fievole ombra nel buio, adesso, seduta sul letto. Sembra in attesa, in completo silenzio. Din finisce di riporre con meticolosità l’armatura, un pezzo alla volta, sentendosi come se le stesse dicendo addio. Solo quando ogni tintinnio e fruscio si spegne lasciandolo lì, pietrificato sul posto, senza sapere se debba stendersi sulla brandina o passare la notte così, in piedi, la sente alzarsi.

Gli si avvicina con la stessa cautela di prima; con ancor più cautela, fermandosi a un passo abbondante da lui. Non capisce quanto chiaramente riesca a vederlo, ma sa che i suoi occhi non sono puntati sul suo volto. Non lo farebbe mai, lo sa e basta. Cara è l'unica persona
 oltre a Grogu a cui avrebbe forse mostrato il proprio volto, un giorno, e adesso loro due sono gli unici a non poterlo o volerlo vedere. Quella situazione di rovesciamento gli brucia addosso, sbagliata in ogni suo dettaglio, e lo scalda al contempo.

Cara gli prende il polso in una stretta quasi impalpabile, che riesce comunque a scottarlo – la sente, sullo strato insensibile che gli ricopre la pelle – e lo tira con delicatezza verso di sé. La asseconda, lasciandosi guidare senza proferir parola, fino a distendersi sul suo letto, accanto a lei. È stretto, ma non così stretto da essere soffocante, e riescono ad assestarsi in modo da sfiorarsi appena. Din fa fatica a realizzare cosa stia accadendo, ma depone le armi in quella battaglia inconcludente tra corpo e cervello non appena la sua testa tocca il cuscino.

Si arrende quell’intorpidimento doloroso che lo avvolge, mentre vede e sente Cara che si gira in modo da dargli le spalle. I suoi occhi si sono ormai abituati al buio e, anche se non gli importa di riuscire a scorgere la sua silhouette, le volta le spalle anche lui. Si corica a pochi centimetri da lei, nella stessa conchetta del materasso e nella stessa bolla di calore sotto le coperte. Non sa di cosa gli importi davvero, ormai. Sa solo che, per la prima volta in vita sua, è sollevato di non dover dormire da solo.

Lei non fa il minimo cenno di volersi avvicinare, assicurandogli il suo spazio personale, seppur ristretto. È lui a far combaciare le loro schiene, sentendola respirare a fondo in risposta. Riesce a percepire quei piccoli gesti e movimenti, e cerca di concentrarsi su quelli, visto che i suoi pensieri rimangono una massa semifusa a cui è impossibile dare forma.

Gli sono rimaste poche certezze a cui aggrapparsi, e Cara è l’unica che può ancora vedere e toccare, anche se non osa spingersi oltre quel tenue contatto. Non riesce ancora a pensare davvero a quelle certezze ormai perdute, o che non può ancora raggiungere.
 

 



Ore dopo è ancora sveglio, con gli occhi che implorano sonno e la mente che non cessa di girare rumorosamente su se stessa come un’astronave in avvitamento. Si è girato sulla schiena e tenta di seguire il respiro ormai regolare e profondo di Cara, senza alcuna parvenza di successo. Da qualche minuto, il suo petto ha preso ad alzarsi ed abbassarsi in un ritmo discontinuo, doloroso, per poi smettere di funzionare del tutto, per secondi interi di apnea, e tentare quindi di recuperare tutti i respiri saltati nella metà del tempo – e così via, in un ciclo logorante che si fa sempre più difficile da arginare.

Sente ancora quel senso di freddezza diffusa nel proprio corpo, ma adesso sembra viva. Si dibatte tra flutti di rabbia e impotenza asfissianti. Prosciuga l’aria nei suoi polmoni e la risputa sotto forma di veleno caustico. La sua gola si costringe attorno alle corde vocali già sfibrate, e si ritrova a mandar giù un groppo di saliva ferrigna dopo l’altro.

Serra i denti, ricacciando indietro quel mostro con addolorata veemenza. Deve concentrarsi. Partiranno domani all’alba, e lui non dorme da forse quarantott’ore. Deve essere lucido, deve essere il guerriero che è sempre stato, anche se non è più un Mando’ad. Deve essere nel pieno delle forze, se vuole salvare Grogu. Suo figlio.

La sua vista si restringe, coi margini che di oscurano in macchie nere e dense, simili a sangue. Non riesce nemmeno a immaginare cosa gli stiano facendo, mentre lui è occupato a tormentarsi per il suo Credo infranto e il suo onore perduto e la sua vergogna inutile.

È quella realizzazione che gli spezza in due la gabbia toracica. Sussulta e deve strozzare sul nascere un singhiozzo profondo, straziato, che non sapeva nemmeno di poter emettere. Non porta con sé alcuna lacrima – gli rimangono cristallizzate dietro gli occhi, appuntite, brucianti – solo la sensazione di qualcuno che gli scardina una costola alla volta con un attrezzo arrugginito. Si pianta un braccio sulla fronte fino a farsi male, digrignando la mascella con un cigolio di denti – non può ancora arrendersi.

«Din.»

Il suo nome non gli è mai sembrato più accogliente ed estraneo al contempo, ma riesce a riportarlo in sé. Si paralizza, ma gli sfugge comunque un respiro oscillante, umido, che spinge Cara a voltarsi verso di lui. Lo fa così lentamente che potrebbe benissimo fermarla in tempo, ma non lo fa. Si volta invece verso di lei, e distingue il suo profilo nella penombra. Non lo sta guardando. Si distende solo sul fianco, un braccio sotto il cuscino che gli preme sotto la testa, gli occhi puntati su un punto sotto al suo volto, senza avvicinarsi ancora.

Din si passa con forza una mano tra i capelli. Ha la fronte madida, in contrasto con la pelle d’oca che gli scorre addosso in ondate pungenti; percepisce Cara afferrare un lembo del lenzuolo che ha scalciato via, riportandolo a coprirlo. E nel ritrarsi lascia scorrere delicatamente una mano lungo il suo braccio, in una carezza eterea che contrae e poi distende i suoi muscoli. Din inala un respiro profondo e salato, spaccapolmoni, desiderando flebilmente di sentire quel tocco ancora per un po’. Lei sposta la mano sul suo fianco, appena sotto le costole, come intuendo quel pensiero.

Quando fa per ritrarsi la trattiene, d’istinto. Le sue dita riempiono gli spazi tra le proprie, con così tanta naturalezza da non sembrare la prima volta. Gli passa il pollice sulle nocche ruvide, per adagiare la mano nel suo palmo. La stringe con improvviso slancio.

«Qualunque cosa tu abbia fatto, l’hai fatta per lui.»

Quelle parole stracciano la cortina febbricitante che lo avvolgeva come un sudario. Inghiotte un groppo spigoloso, lottando ancora per assorbire ossigeno attraverso il petto spaccato. Ricambia la stretta, con tutta la forza che sa di potervi riversare, sapendo che lei è in grado di sostenerla.

«Sì,» sussurra, con la voce che inciampa per lo sforzo. Alcune lacrime romponogli argini agli angoli degli occhi, rigandogli le tempie con una scia bollente. «L’ho fatto per lui.»

Le ruote e ingranaggi del suo cervello si arrestano con uno stridio penetrante, e dopo quasi due interi giorni riesce finalmente a sentire i propri pensieri. Il piccolo. Deve salvare Grogu. Non importa come. Non importa a quale costo. Non è importato ieri, e non importerà nemmeno domani. Non dovrebbe. Magari non è mai stato importante, dal momento in cui ha scelto lui contro tutto ciò che aveva di più caro. Ma è un Mandaloriano – ciò che ha di più caro è la sua famiglia. Dovrebbe far parte della Via, quel sacrificio che ha compiuto, in un modo paradossale che stenta a comprendere e accettare davvero.

Volta la testa e i suoi occhi trovano il visore dell’elmo; riflette la debole luce che filtra dalla finestra, dando l’impressione che il suo sguardo sia vivo. Lo fissa, e Din lo fissa di rimando, sostenendo quelle orbite inerti. Gli sembra improvvisamente freddo, quasi ostile, anche se gli ha salvato la vita in innumerevoli occasioni. Ne avrà di nuovo bisogno, domani. E lo indosserà ancora, per tutto il tempo che servirà. Il dopo è un’incognita irrilevante, adesso.

Il dopo è una distesa piatta e ignota, nella quale ha però un’unica certezza: beskar o non beskar, Credo o non Credo, sarà comunque in grado di percepire il peso tiepido di un corpicino raggomitolato sul petto, e la stretta di una mano minuscola attorno all’indice.

Porta la mano di Cara sotto al mento e preme quel calore vicino al suo battito, ancora erratico, ma via via più stabile. Lei gli si accosta con delicatezza, i capelli che arrivano a solleticargli il collo. Din inala un respiro più arioso nel sentire il tocco del sonno che gli sfiora le palpebre. Le dita di Cara si districano in parte dalle sue e trovano il rilievo di una cicatrice sulla sua clavicola, prendendo a seguirne il contorno, in un gesto calmante.

L’oscurità sembra farsi più profonda mentre vi scivola a poco a poco, anche se non vi si abbandona ancora del tutto.

«Lo farei di nuovo,» si ritrova a dire – a lei, a se stesso, a nessuno – con l’ultimo barlume di lucidità.

Quella sentenza rotola via dal suo petto come una roccia incandescente, scottandogli la carne fino all’osso, ma liberandogli al contempo i polmoni. Ogni volta. Lo farebbe di nuovo, ogni singola volta.

Allora sai di aver scelto l’unica via, gli sembra di udire nel dormiveglia, così piano che potrebbe pensare di averlo immaginato, se non avvertisse un refolo tiepido che gli sfiora la pelle. Gli preme il palmo sulla cicatrice. È quella del mudhorn; gli ha lasciato una scalfittura appena sopra il cuore, dove di solito c’è il beskar. Dove sarà anche domani, e domani ancora, finché Grogu non tornerà a sonnecchiare sereno in quell’esatto punto.

Mentre chiude lentamente gli occhi, cullato dall’eco di quelle parole simili a un giuramento, si rende conto di poter finalmente dormire, almeno per quella notte.

 



“And you could have it all
My empire of dirt”


 


 



Note dell’Autrice:

Dice il saggio: se ascolti Hurt mentri scrivi qualcosa, qualunque cosa, fossero anche rose, unicorni e arcobaleni, uscirà fuori angst a palate. E così è stato :’)

Qui ho un po’ giocato col testo della canzone, visto che la storia lo segue "al contrario", cominciando appunto dalla fine, da quell’altra Via che Din avrebbe voluto imboccare, prima di venire a patti col fatto che non ve ne fosse davvero un’altra – l’empire of dirt, nella mia testa, è il Credo. Quindi sì, me la sono cantata e suonata come mi pareva, stateci :D
Il riferimento al "riuscire a dormire" è ovviamente al discorso di Mayfeld. Il suo personaggio è stata una vera sorpresa, e ha fatto dei ragionamenti inaspettatamente profondi che a parer mio hanno contribuito non poco nella decisione risolutiva di Din.
E no, non sono ancora pronta a far travalicare quella soglia a Din e Cara, soprattutto non in un momento di vulnerabilità simile in cui anche un tocco di troppo può risultare insostenibile. Abbiate pazienza, me la sto studiando u.u

Grazie a chi ha letto, e a chiunque continua a seguire questa raccolta ♥

-Light-

P.S. Trovate questa storia anche su AO3 in inglese, ma qui l’ho rimaneggiata così tanto che ha molto poco a che vedere con la versione originale, quindi meh, lasciate perdere :'D

   
 
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