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Autore: Martin Eden    18/12/2020    3 recensioni
Ciao a tutti! Dopo anni di latitanza, mi è venuta voglia di tornare su questo Fandom, che ho tanto amato...e lo faccio con una vecchia storia LOTR che ho ripreso in mano ultimamente, dopo aver rivisto i film della trilogia de Lo Hobbit...mi è venuta voglia!
Scommetto che molti di voi, come me si sono posti questa domanda: ma Legolas e Aragorn dove si saranno conosciuti?! :D
Questa fanfiction cercherà di dare una risposta...allora voi leggete e commentate! :)
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aragorn, Legolas, Thranduil
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Compagni di Sventura'
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Legolas


 

Avevo camminato così tanto che qualsiasi altra creatura sulla faccia di quella terra desolata e dimenticata dai Valar non avrebbe più sentito i propri piedi. Io invece sentivo ancora ogni tendine, ogni nervo e ogni muscolo contrarsi nello sforzo di andare avanti.

Avevo camminato per parecchi giorni e parecchie notti, stanco della battaglia, finché la mia mente si era ribellata a quella sorta di marcia verso l’autodistruzione e aveva dato ordine al corpo di fermarsi, tutto in un colpo. Mi ricordo di aver incespicato e di essere improvvisamente caduto a terra, cosa che non mi capitava dai tempi che furono, quando ero solo un bambino e per ovvie ragioni non ero ancora pienamente padrone del mio corpo.

A faccia in giù nell’erba, bagnato dalla rugiada, mi parve di risvegliarmi da un incubo.

Avevo camminato per dimenticare.

Il clangore della guerra mi sfolgorava ancora nella mente, ma ora era come se fosse un’eco lontana: lentamente, mi lasciava solo nel silenzio.

In quel silenzio rivedevo le trecce rosse di Tauriel e il suo corpo che fendeva l’aria, leggiadro come una libellula, mentre combatteva e sviscerava orchi non meno abilmente di me. Sognavo a occhi aperti le sue labbra strette e il suo sguardo indagatore, come se non fossero passati giorni da quando l’avevo lasciata al suo dolore.

Un dolore che non mi apparteneva.

Le sue lacrime erano di proprietà di Kili, il nano di cui si era innamorata, nonostante tutti, a corte, ci fossimo trovati profondamente delusi e contrariati di fronte a quella scelta.

Io più di chiunque altro.

L’avevo difesa al meglio, in ogni occasione, dimenticando contemporaneamente di salvare me stesso da quel torbido sentimento che aleggiava fra di noi.

Ero stato addestrato alla guerra, ma non all’amore.

Mio padre mi aveva insegnato tutto. E’ stato un grande esempio per me: di coraggio, compassione, indipendenza, capacità di farsi valere, di esprimere le proprie opinioni e anche di legami profondi, di quelli che non si raccontano ma si costruiscono giorno per giorno, finché diventano parte di te.

Ma non mi aveva preparato abbastanza alle sconfitte, anzi. Spesso ci azzuffavamo, ma lasciava volentieri che fossi io ad avere la meglio su di lui. Mi dava filo da torcere, senza mai esagerare. E’ stato un degno avversario, e più crescevo con lui, più me ne ero reso conto.

Così mi aveva protetto da molte sofferenze, ma volente o nolente mi aveva anche tenuto segregato in un mondo di carte magiche.

La realtà al di fuori della corte era molto diversa. Mi aveva avvertito.

Quando ero ancora molto giovane, un giorno mi portò in una stanza del palazzo che mi risultava nuova. Era chiusa da una piccola chiave che lui custodiva segretamente nelle pieghe del mantello, sempre con sé ovunque andasse.

In un primo momento non avevo capito perché ci eravamo recati lì. Non mi aveva spiegato niente. Quel giorno a colazione mi aveva guardato per un attimo dritto negli occhi e qualcosa era scattato; non so esattamente cosa, ma ci eravamo parlati in una lingua sconosciuta, che solo lui aveva capito.

Poi siamo saliti in quella stanza, in silenzio. Una volta aperte le porte, mi ero accorto che, contro ogni mia aspettativa, era inondata di luce. I raggi del sole, entrati da chissà dove, rimbalzavano su un paio di specchi sapientemente posizionati, e il riverbero del giorno spaziava con naturalezza sulle pareti riccamente decorate con quadri e arazzi.

Li avevo osservati per un momento: erano scene di una battaglia, anche se non avrei saputo dire quale. Il mio sguardo aveva subito incontrato quello di una creatura raffigurata a cavallo di un cervo, con il corpo di un elfo e un elmo che mi sembrò di conoscere. L’avevo visto raramente, ma di certo era stato in capo a mio padre.

Allora capii.

Quell’immagine rappresentava il mio defunto nonno Oropher.

Proprio in quell’istante, mentre ero ancora distratto, mio padre spalancò di colpo due ante di un armadio in fondo alla stanza. Il rumore risuonò così forte da farmi spaventare, e istintivamente mi misi in posizione di attacco, sfrecciando con lo sguardo verso l’origine del frastuono.

Trovai gli occhi di mio padre a fissarmi. Quasi rideva.

Poi si voltò e si chinò a prendere qualcosa che stava nell’armadio, senza dirmi una parola.

Faticosamente, mi rilassai, mentre lui si ergeva di nuovo in tutta la sua alta statura e pian piano veniva verso di me. Tra le sue mani c’era qualcosa avvolto in una pelle di daino.

Dal modo solenne che aveva nel camminare, capivo che doveva trattarsi di una cosa veramente importante. Già tremavo un po’. Mi feci forza: forse ero maturato abbastanza per essere considerato un cavaliere, o un esploratore, o qualsiasi cosa avesse desiderato mio padre il re.

Mi sentivo nervoso e eccitato allo stesso tempo. Ero piccolo di fronte a lui, piccolo e all’apparenza gracile, ma dentro la mia fibra era scolpita nella pietra e non vedevo l’ora di dimostrarglielo.

Quando fu di fronte a me si fermò per un momento e mi guardò abbastanza freddamente. Mi accorgevo che tentava di non darlo a vedere, ma quella sorta di cerimonia sembrava fargli un certo effetto. La solennità che metteva in ogni atto me ne suggeriva l’importanza, e sapevo in cuor mio che da quei gesti non si poteva tornare indietro. Probabilmente anche lui la pensava così.

Lentamente, sciolse la pelle di daino. Rimasi abbagliato: fra le sue mani giacevano i pugnali della nostra regale famiglia, bellissime, intarsiate di fino e lucidate per l’occasione. Solo a guardarle avresti potuto tagliarti gli occhi. Erano un manufatto elfico di cui tanto avevo sentito raccontare, ma mio padre non si era mai preoccupato di mostrarmele.

Fino ad ora.

Ero rimasto a bocca aperta:

- Prendili.- aveva detto re Thranduil – Fanne la tua forza.-

Tremante di emozione, allungai una mano verso l’elsa. Provai a sollevarla, ma mi accorsi che erano più pesanti del previsto; mio padre se ne accorse, ma si sforzò di non farmelo notare.

Feci leva sui miei polsi sottili e alzai un pugnale di fronte a me: il sole brillava sulla sua superficie acuminata e liscia, di una perfezione così pericolosa da far male. Passai un dito sul filo, cercando di stare attento.

Averli nelle mie mani mi ubriacava di un nuovo potere, completamente sconosciuto, mai provato prima. Non c’era paragone con le altre armi che fino a quel momento avevo usato: queste erano di una forgia nettamente superiore e ricche di storia. Erano le stesse degli arazzi, le stesse che avevo sempre sognato di tenere in mano, un giorno.

Quel giorno era arrivato.

- Ora sono tuoi, figlio.- continuò mio padre, mentre afferravo anche l’altro pugnale e provavo a tenerli in mano – Ora sei un guerriero.-

Non ci potevo credere. Io con i pugnali di mio padre, di cui potevo disporre come volevo, con i quali avrei potuto allenarmi e diventare più abile. Erano miei, miei!

Non stavo più nella pelle.

- Mi insegnerai a usarli?- mi ricordo di avere chiesto.

Mio padre aveva sospirato in modo strano:

- Se lo vorrai...- aveva accondisceso.

Sapevo cosa stava pensando. Erano secoli che stavano là dentro, anche se costantemente resi utili a una possibile battaglia. Il suo primo luogotenente mi aveva confidato che stavano dentro l’armadio dalla guerra in Angmar, l’ultima che il mio popolo avesse combattuto. Là dove era morta mia madre.

Nessuno aveva più avuto il piacere di vederli roteare nell’aria, meno che mai nelle mani del re, da allora.

- Sta’ attento, Legolas.- mi aveva avvertito il soldato – La bellezza di quei pugnali è traditrice.-

Era passato un anno e quelle parole mi ritornavano alla mente, riecheggiavano nella stanza.

- Sta’ attento, Legolas – mi aveva avvisato poi mio padre – Questo metallo è macchiato del sangue appartenuto al Bene e al Male: sta a te decidere quale versare, ora.-

Ero rimasto piuttosto interdetto:

- Io combatterò sempre per il Bene, padre.- avevo replicato con convinzione.

Re Thranduil non si era fatto intimorire dalla mia grinta:

- Spero che tu possa sempre essere in grado di riconoscere l’impronta dell’uno e l’ombra dell’altro, senza mai sbagliarti.- sospirò.

Mi sentivo preso in giro da quel tono che quasi mi derideva:

- Sono qui per questo, no?- insistetti.

Mio padre alzò la testa. Guardava oltre me, oltre i muri, verso un luogo dove, sapevo, non lo potevo raggiungere. Capitava spesso. Me ne dispiacque: ero così stanco di sentirmi escluso dai suoi pensieri!

Alla mia smorfia imbronciata, il re parve tornare per un attimo in sé:

- Sta’ attento, Legolas.- ripetè – Il Bene e il Male si assomigliano più di quanto tu creda. Sono come due facce della stessa goccia d’acqua. E ti affogano allo stesso modo.-

Allora non avevo capito perché mi aveva parlato così. Ma ora, ora che ero fermo disteso nell’erba, con la mente ottenebrata dai più tristi ripensamenti, nonostante al tempo stesso ce ne fossero altrettanti positivi, mi sentivo affogare, come lui mi diceva.

Le immagini di quello che avevo passato si rincorrevano senza sosta nella mia mente. Il Male che sopraggiungeva a Bosco Atro, l’incontro con i Nani, la battaglia contro Smaug, la liberazione di Pontelagolungo, le spade che stridevano, la polvere che mi entrava nei polmoni e quasi mi soffocava, la paura di non farcela; poi la gioia di poter brandire ancora una volta i miei amati pugnali...e infine, Tauriel.

Il suo ricordo era quello che faceva più male. Lei rappresentava il mio sentimento più grande, la delusione più cocente. Da quando era arrivata a palazzo, ormai quasi un’era fa, eravamo stati quasi sempre insieme, gomito a gomito, con tutto ciò che ne può derivare: screzi, litigi, ma anche risate, giochi, avventure. Era la sorella che mia madre non aveva potuto partorire.

Ma ora mi accorgevo che per me Tauriel significava molto di più di tutto questo.

L’ho capito quando, puntando una freccia contro mio padre, aveva ribaltato completamente il mio mondo. Il suo atteggiamento così insolente e ribelle aveva acceso una nuova fiamma in me, contro ogni previsione. Se prima si era trattato di una scintilla, in quel momento sono diventato fuoco.

Senza neanche pensarci mi sono ritrovato al suo fianco contro il mio stesso genitore, che mi guardava con estremo rammarico. Ho sputato parole credo irripetibili, e solo per Tauriel.

Se ci ripensavo, mi venivano i brividi.

Eppure, lei se n’era andata. Non nel corpo, non nella realtà, ma nell’animo. Io l’ho sentito. Qualcosa fra di noi si era ormai incrinato, e forse ero stato stupido io a non riprenderlo in tempo.

O forse, semplicemente, ero stato più legato io a lei di quanto non lo fosse stata lei a me.

Ma c’era ben altro.

Era stato un periodo molto confuso e pieno di ogni cosa. La vicinanza a Tauriel non solo aveva significato erigere una barriera invalicabile tra me e mio padre, ma aveva risvegliato in me anche pensieri che credevo assopiti. Pensavo di poterli controllare, invece alla migliore occasione quelli erano usciti dalla mia bocca come un fiume in piena e adesso vorticavano con più forza nella mia testa.

Fra questi, c’era anche l’immagine di mio padre che soffriva per una pena che mai ero riuscito a identificare appieno.

Le sue ultime parole

Tua madre ti amava. Più di ogni altra cosa. Più della vita.

non avevano fatto altro che gettare olio bollente su di me. Ora avevo una sete implacabile di sapere, di sondare il mio passato: un passato di cui non mi sentivo pienamente padrone, ma era la ragione per cui ero venuto al mondo.

Era la mia vita ed era la mia cura contro il baratro che sentivo a un soffio da me, con il rischio di finirci dentro ogni notte.

Avvertivo sempre più impellente il bisogno di avvicinarmi ai luoghi selvaggi e martoriati di Fornost, il luogo dove tutto era iniziato, o dove tutto era finito. Cercare qualche indizio, capire chi fossimo stati veramente come famiglia e quale fosse l’altra metà del mio cielo.

L’occasione era nata spontanea dopo l'ultima battaglia.

Forse vedendomi così perso, in pessimo stato, mio padre mi aveva chiesto di andare a nord, immediatamente. Non mi aveva parlato di Angmar, ma nemmeno me l'aveva proibito. Angmar era il mio nord e anche il nord del Mondo.

Non dovevo poi dimenticare il Dunadan, un tale noto come Grampasso. Mio padre sembrava particolarmente interessato a lui. Anche questo fantomatico personaggio stava a nord, a quanto pareva. Prendevo più piccioni con un’unica freccia. Era il mio momento.

Non avrei mai avuto un’altra opportunità per dimostrare a mio padre, e a me, quanto fosse alto il mio valore.

Non so cosa mi aspettassi di trovare. Erano passati migliaia di anni, chissà che cosa poteva essere rimasto di mia madre e dei miei fratelli: ormai neanche l’ombra. Ma era lo stesso. Bastava il benchè minimo segno, la benchè minima sensazione. Mi sarei accontentato.

Ma il silenzio, questo no.

Non potevo più accettarlo.

  
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