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Autore: AlessiaOUAT96    22/12/2020    1 recensioni
E se la noia fosse insieme a noi come presenza vera e propria?
E se decidesse di raccontare alcuni dei suoi incontri che ha avuto con noi esseri umani?
Dal testo: "Di me vi basti sapere che ho tenuto compagnia ad almeno ogni singolo essere vivente su questo pianeta, almeno una volta durante la sua vita"
Partecipante al premio letterario Caterina Percoto 2020
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nelle varie lingue del mondo mi chiamano in modi differenti, tuttavia il mio primo appellativo viene dalla lingua Provenzale. Posso essere boredomaburrimientoennui allo stesso tempo. Io sono la Noia, la voce narrante di questo racconto.
Di me vi basti sapere che ho tenuto compagnia ad almeno ogni singolo essere vivente su questo pianeta, almeno una volta durante la sua vita. Vengo inconsciamente chiamata per riempire il vuoto lasciato dopo varie attività. Spesso però non si ha una buona opinione di me.                                                             
 Io sono onnipresente, così come tutte le emozioni, sensazioni e voglie; posso trovarmi in più luoghi e ore allo stesso tempo, assumendo forme diverse a seconda della persona che mi chiama.
Non voglio perdere troppo tempo in chiacchiere su di me, voglio solo mettere per iscritto due dei miei incontri preferiti con gli umani. Non appartengono tutti alla stessa epoca, ma hanno in comune una cosa: parlano di persone vissute in periodi di pandemia.
Il primo racconto è ambientato nel XXI secolo in Italia, durante la pandemia da Coronavirus. I confini nazionali e regionali vengono chiusi per il bene dei cittadini; bisognava uscire il meno possibile. Fu così che moltissimi si ritrovarono tra le proprie mura domestiche, e fu così che io iniziai a comparire nelle loro dimore.
Come per tutti gli esseri umani, la incontrai già in precedenza, ma solo quella volta mi rimase particolarmente impressa, poiché così come le narrazioni precedenti, la conobbi più profondamente.

La ragazza si chiamava Arianna e aveva 19 anni. All’inizio come tutti i ragazzi era felice di essere a casa. Non doveva più svegliarsi presto per andare a scuola, perché poteva seguire le lezioni in camera sua o sul divano, seppur facesse più difficoltà di quando andava fisicamente a scuola. I suoi genitori lavoravano tutta la mattina e lei rimaneva sola, a seguire le lezioni. Inizialmente quella situazione non le pesava più di tanto, dopo essere “stata” a scuola pranzava, poi faceva i compiti presto per avere il tutto il pomeriggio libero. Arianna adorava l’arte, la pittura in particolare. Tramite l’arte, lei era capace di entrare in un mondo tutto suo, fatto di colori, immaginazione e musica. Quando dipingeva infatti, era solita ascoltare musica dalla sua playlist in riproduzione casuale, era l’unico modo per lasciarsi andare ed essere totalmente sé stessa. In questo modo in passato era riuscita a evitarmi, a non notare la mia presenza, ma stavolta era diverso.
Già da quella mattina infatti, Arianna era annoiata. Essendo il 1° giugno, non aveva lezioni, nonostante i suoi genitori fossero comunque a lavorare; lei aveva già fatto tutti i compiti.

Mi avvicinai a lei non appena si sedette sul divano a righe blu e bianche, Ron, il suo Labrador Retriever nero, le si accucciò lì accanto.
Arianna sospirò, poggiando la testa contro lo schienale del divano.

«Oggi è proprio noioso, non c’è nemmeno scuola. È come se la noia fosse qui con me tanto è pesante»

Ecco, mi sente anche lei. Ha detto pure che sono pesante, eppure non mi sembra di aver lasciato segni sul divano, forse sarà perché è talmente abituata a mandarmi via facilmente che oggi mi percepisce di più. Come potrei darle torto?

«Vorrei mettermi a dipingere, ma so che oggi non è giornata. L’unica cosa che vorrei è vedere, letteralmente, i miei amici» sospirò «Vorrei che tutto questo non fosse mai successo»

Già, non è una bella situazione quella che stai vivendo; non sei l’unica è vero, ma ognuno percepisce i propri ostacoli diversamente. Qualcuno da fuori potrebbe dirti che tutto sommato non è così male, tuttavia è facile giudicare quando non si è personalmente e profondamente coinvolti.

«Questo divano a righe blu e bianche ha più di dieci anni, eppure ha visto più cose di me in questo momento. Anzi, una volta non eri nemmeno così, caro vecchio divano

Arianna si concentrò sulla fodera del divano, toccando avidamente ogni singola fibra del tessuto. Con una delle unghie iniziò a grattare un punto leggermente più sfibrato del resto del ruvido tessuto.

«Questo graffio te lo fece Mina, la gatta. Ti usò come tira-graffi quando avevo 8 anni. Ti ricordi di lei? Qualche anno dopo uscì e non tornò mai più e non penso fosse la presenza di Ron a infastidirla»

Arianna si alzò e si diresse incerta verso la sua postazione preferita per dipingere: accanto la porta-finestra del salotto. Si sedette sullo sgabello e prima di iniziare, bevve un sorso d’acqua dalla bottiglia posata sul tavolino lì a fianco; in tutto questo il suo cane la seguiva fedele.                                                                                                     

Accarezzò la tela su cui aveva abbozzato il disegno di un viale costeggiato da alberi fitti e alti. Alla fine di quel viale c’era un punto luminoso. Quel punto luce era stata la prima cosa che Arianna aveva deciso di colorare. Toccò di nuovo quel piccolo sole, scoprendo che la pittura era ancora umida. Tuttavia, non appena prese uno dei pennelli non ebbe la forza di intingerlo e così iniziò a rigirarselo tra le dita.

«Oggi c’è anche una giornata di sole: i manici dei pennelli sono tiepidi e l’acqua è leggermente calda»

Quel giorno però, Arianna non era in vena di dipingere e lasciarsi andare. Era annoiata, c’ero io dopotutto.

«Vorrei andare in giardino, vedere e toccare i tulipani colorati. Ma non posso, non ci riesco più!» batté entrambi i piedi a terra e dalla rabbia lasciò cadere il pennello per terra. Arianna è cieca circa dall’età di 10 anni, ha una malattia ereditaria per cui si può fare ben poco.

«Riesco a vedere solo sagome scure e la notte non vedo proprio. Ron mi aiuta, ma vorrei ritornare a vedere i colori come una volta»

Riusciva a percepire le cose, i volti solo toccandoli, ma dentro sapeva benissimo che non era lo stesso. E in quel momento di noia, le riaffiorarono i ricordi di quando aveva la vista; memorie principalmente della scuola elementare, degli amici e della sua famiglia. Quel giorno un ricordo in particolare le occupava i pensieri: il giorno in cui scoprì di dover diventare cieca.                                                                                 
Nella sua mente i ricordi affioravano nitidi e io riuscivo a vederli con lei.

Arianna aveva 10 anni compiuti da poco, da qualche tempo aveva problemi alla vista: a scuola non vedeva bene alla lavagna e le maestre avevano consigliato una visita oculistica. Pensando fosse solo miopia, sua madre la accompagnò tranquilla dall’oculista.                                                                                                                         
 Arianna ricorda quanto il cielo fosse azzurro e senza una nuvola, ricorda anche l’odore di erba bagnata e i suoni ovattati emessi dalle foglie autunnali calpestate mentre si avviava verso la macchina. Era una giornata normale, nulla sembrava preoccupare la piccola Arianna. Dopotutto, c’erano altri bambini nella sua classe che portavano gli occhiali, non sarebbe stata una tragedia.                                                    
Il viaggio fino lo studio medico durò poco, anche perché la radio passava canzoni piacevoli e il tempo sembrò passare in fretta.                                                              
 Appena arrivata dentro lo studio, Arianna si mise a leggere una rivista, sebbene facesse un po’ di fatica, continuava a chiedersi che tipo di occhiali avrebbe messo; come sarebbe stata la montatura. Lei sperava fosse di un bel verde smeraldo, il suo colore preferito. La visita in sé non durò molto, Arianna ne aveva già fatte altre, tuttavia l’oculista quella volta sembrava più serio delle altre volte.

«Signora, vorrei parlarle un attimo in privato» finì di stampare il referto e lo mise in una busta dopo averlo firmato.

«Certamente» dopo essersi scambiati uno sguardo rapido, la madre di Arianna e l’oculista uscirono dalla stanza. La bambina non riuscì a sentire nemmeno una parola.                                                                                                                                 
Quando la madre entrò teneva il cellulare in mano, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che non andava, una velatura di tristezza, nonostante ciò sorrise, prese per mano Arianna e si avviò verso casa. Il viaggio di ritorno fu ancora più breve di quello di andata. Non appena la macchina si fermò, la madre di Arianna chiese a sua figlia di non andare subito dentro casa, ma di sedersi nel posto accanto al guidatore.

«Arianna, devo dirti una cosa. Non ti piacerà, ma la affronteremo assieme. Io sarà sempre con te qualsiasi cosa accada» prese le mani della figlia e la guardò con tanta tristezza, sconforto, impotenza e amore.

«Mamma… è per gli occhiali? Guarda che non mi dispiace mica metterli! Anzi, li vorrei verde smeraldo, se esistono» la bambina non capì subito perché sua madre si stesse comportando in quel modo. Un paio di occhiali colorati non hanno mai fatto del male a nessuno!

«Amore mio, speravo questa cosa non ti toccasse mai, ma a quanto pare non sarà così» a stento trattenne le lacrime davanti a una sempre più confusa e preoccupata Arianna «Amore mio ti ricordi dello zio Stefano?»

«Certo! È lo zio che cammina con un bastone e che nonostante abbia gli occhi aperti non legge nemmeno i caratteri cubitali. Ha anche un cane che è meglio che non tocchi»

«Arianna, tu avrai lo stesso problema dello zio»

Calò il silenzio per qualche secondo.

«No! È una bugia! Perché me lo stai dicendo? Non è vero, non diventerò cieca. Avrò un bellissimo paio di occhiali, vedrai!» scese dalla macchina arrabbiata, lasciando sua madre in preda allo sconforto e al dispiacere. Non capiva perché sua mamma le stesse dicendo delle bugie. Perché voleva spaventarla?

Ecco cosa successe quel giorno. Da lì in poi, Arianna iniziò a perdere sempre più velocemente la vista. Sua madre le spiegò più volte che quello che le stava capitando era ereditario e che non avrebbe potuto evitarlo; sua madre le stette sempre accanto quando iniziò a leggere il braille e quando Arianna ottenne il suo cane guida Ron.
Ed eccola lì, seduta davanti quella tela che aspetta solo di essere riempita, non stava piangendo. Era semplicemente triste per un passato, presente e futuro che non avrebbe potuto cambiare. Ci aveva fatto il callo ormai: sapeva che le cure possibili erano solo dei tentativi, sapeva che la vista non sarebbe mai tornata come prima.

«I momenti peggiori sono stati da una scuola all’altra. I nuovi compagni dovevano abituarsi ad avere una ragazza cieca in classe. Non tutti hanno fatto amicizia con me, ma non ho mai pensato di essere simpatica a tutti» Prese finalmente in mano il pennello caduto e lo intinse in quello che sapeva essere il verde scuro.

«Mi bastava e mi basta tutt’ora non suscitare pietà. Non voglio essere compatita, voglio solo essere accettata e godermi la mia vita»
Sentì un rumore di chiavi e Ron uggiolò.

«Arianna, sono a casa!»

Era arrivata la mamma.










ANGOLO AUTRICE!
Buongiorno a tutti!
Non pubblico da tanto...è così strano.
Ho avuto dei problemi con l'HTML di Efp quindi se trovate problemi è quello. Come potete vedeere nella intro, il racconto (anche se a dire il vero ho partecipato con 2 racconti, di cui il prossimo capitolo rappresenta l'altro racconto) è stato inviato a un concorso dove non sono risultata vincitrice (eh vabbè sarà per un'altra volta).
Se avete domande, curiosità, o se ci sono orrori grammaticali/di svista, fatemi sapere!

A presto,

Alessia
 
   
 
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