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Autore: Francine    23/12/2020    2 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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26.



 


«L’uomo sogna?»
Lo chiederà col naso rivolto all’insù, ad osservare quella stellata magnificente come si fa con le vecchie foto di famiglia, quando proviamo a riconoscere in quei tratti e in quei vestiti fuori moda un volto amico, un’impressione, una luce.
«Certo che sogna.» Lei osserverà il suo profilo tagliare la notte come una lama candida. «Proprio
tu lo chiedi?»
Sorriderà, le belle labbra che si arcueranno verso le guance.
«Non era una domanda vera e propria. Era più una…»
«Una domanda retorica?»
Lui farà un gesto con la mano. «Più o meno», dirà, nascondendo dietro la lingua le parole che non riuscirà a trovare. «Era più una constatazione.»
«E?»
Lei non mollerà. Nossignore. Lo osserverà da dietro le ciglia scurissime, gli occhi di stella fissi sul bersaglio. Sarà lui la sua preda, adesso. E i suoi artigli non lo abbandoneranno fino a quando non gli avranno ghermito il cuore e l’anima, in uno svolazzare di piume.
«E mi chiedevo di chi fosse la colpa», dirà lui, in un sospiro.
«La colpa?»
Annuirà, mentre volgerà lo sguardo ad incontrare il suo.
«La colpa, sì. Gli uomini sono convinti di essere stati creati da noi, no? Quindi, siamo noi ad aver dato loro la capacità di sognare.»
«Ed è una cosa brutta?», domanderà lei, le dita che gli accarezzeranno piano i capelli. Neri, nerissimi. Come le ali dei corvi.
«No. Non per me. Ma al sogno segue il bisogno. E l’uomo non conosce il senso della misura, quando si tratta di desiderare.»
«La colpa è delle stelle», dirà lei, alzando il viso ad osservare la Via Lattea che si spande sopra le loro teste. «Desiderio significa questo. Qualcosa che viene dalle stelle.»
«Ecco perché sono così splendenti», mormorerà lui, le dita magre che incateneranno le sue in un abbraccio delicato come le ali di una farfalla.
Lei sorriderà. «Te l’ho detto. È colpa delle stelle», ripeterà lei. «È sempre colpa loro.»
«Così è facile, però», obbietterà lui, acciuffando una ciocca dispettosa che scenderà oltre la spalla candida di lei.
«Facile?»
«Certo», dirà lui, sollevandosi dalle sue ginocchia e portandosi a meri centimetri dal suo viso di porcellana. «Perché così significa che è colpa 
loro, se anche 
tu hai dei desideri…»
«Io?», domanderà lei. Scoprendosi intrappolata nella tela argentea del ragno. Che le sorriderà, dall’altra parte della sua trappola. E lei scoprirà qualcosa di seducente, in quegli occhi di fuoco e in quei denti regolari che fanno appena capolino oltre le labbra. Come quando si fissa lo sguardo di una tigre, oltre le sbarre robuste delle gabbie dello zoo.
«Tu», ribatterà lui, sfiorandole la punta del naso con un polpastrello. «Avanti. Tutti hanno un desiderio che si agita in fondo al cuore. Come un’increspatura sull’acqua di un pozzo, hai presente?»
Lei annuirà, lo sguardo fisso nei suoi occhi. Verdi. Verdissimi. Come cocci di bottiglia in controluce. 
Mi taglierò, penserà lei; per poi scoprire che non le importerà. E che ha sempre saputo che sarebbe successo, prima e poi. Lo aveva messo in conto, anni prima. Se giochi col fuoco, rischi di bruciarti, ha sempre detto lui. Vero e sincero. In maniera dolorosa; ché fa male, la verità, quando esce dalle labbra di un bugiardo: non la distingui dalle falsità che quelle labbra pronunciano, a getto continuo. Cosa è vero e cosa, invece, una fandonia? Non lo capisci, fino a quando non ci sbatti il naso - come quando sbatti contro un vetro. È duro e freddo. Ma trasparente come la verità; la stessa che, adesso, risuonerà nelle sue parole, come lo schiocco improvviso della legna nel camino.
«Brava ragazza», le dirà lui. Allontanandosi appena, e regalandole una sensazione spiacevole di vuoto. E freddo. «Però hai ragione. È colpa loro. Sissignore. Tutta questa luce ti mette in testa strani pensieri…»
«Vuoi condividerli?», domanderà lei. Per cortesia, certo; ma anche per curiosità. Quella stessa che l’ha portata a ficcare il suo nasino ovunque, ché una volta smosse le sue deliziose celluline grigie no, non c’è modo di chetarle, se non assecondandole. E lui lo ha sempre saputo. Ed è per questo che le sorriderà. E le dirà: «Certo. Con te condividerei tutto, lo sai. Anche questa notte.».
Lei arrossirà appena, un leggero alone sulle guance che la renderà ancor più desiderabile.
Lui si farà più vicino. Le prenderà il mento, in punta di dita, come se fosse fatta di cristallo e potesse incrinarsi al minimo tocco.
«Avevi gli occhi neri, la prima volta che ci siamo incontrati», le dirà. «Adesso sono verdi.»
Lei sosterrà il suo sguardo. «È il colore delle foglie dell'ulivo.»
«Certo. L'immaginavo», dirà lui, prima che il mondo si fermi. Per un istante, uno soltanto. Ma se lo faranno bastare.
«Tutto qui?», domanderà lei, un'aria sbarazzina ad alleggerirle le spalle.
«Oh, no», replicherà lui. «Oh. No.»
«E allora, cosa...»
«Sai, mi sono chiesto...»
«Dimmi...»
«Posso farti una domanda scomoda?», le chiederà, e lei annuirà. 
Ormai sei in ballo e devi ballare, tesoro. «Come hai fatto a ritrovare la strada di casa?»
Lei assottiglierà lo sguardo. Avrà capito quello che lui le ha chiesto. Lo avrà capito eccome. Solo che lei stessa non lo saprà dire. O meglio; qualcosa saprà, anche se sarà poco. Qualche frammento appena, raccolto mettendo assieme dai racconti del nonno, quelli di Tatsumi e gli scritti che hanno ritrovato nella biblioteca del Sacerdote. Poche righe, vergate con mano incerta da Sion su un foglio di carta ingiallito, nascosto in un doppio fondo. Qualcosa che la Provvidenza, o chi per lei, ha salvato dallo sguardo malato della cosa che dormiva dentro di Saga.
«Non ne sono sicura nemmeno io», si sentirà dire - il vento che porterà lontano quelle parole. Vorrà riacchiapparle e fare finta di non averle mai dette, ma sarà troppo tardi. Saranno sgusciate via e saranno arrivate alle sue orecchie. E a quel punto, saranno vere. Reali. Come la sua mano sulle sue ginocchia.
«In che senso?», domanderà lui. Spingendola sempre più al centro della sua tela. Piombandole addosso, come fa il ragno con una mosca che è riuscita a liberare un’ala dalla sua trina mortale.
«Nel senso che ho solo dei frammenti, non una storia vera. Dei fotogrammi, ecco.»
Lui si stringerà nelle spalle. «E che problema c’è?» Lei lo scruterà, come se gli fosse spuntata una seconda testa. «Ti ho chiesto una storia. Non m’importa che sia vera. Mi importa che sia la
tua verità», e lo dirà con un tono di voce così arrendevole che lei cederà. E penserà che sì, ha ragione. Sarà una storia, quella che vuole, ma non gli importerà che le cose siano andate davvero così come lei le racconterà.
«Quelle lassù», dice, puntando il dito sopra Orione, «sono tanti piccoli soli. E se brillano, è perché stanno morendo, mentre danzano nell’oscurità dell’universo. È questa, la magia del racconto, Fanciulla. Far credere che l’impossibile sia possibile. La verità è tutta un’altra faccenda.»
E lui stornerà lo sguardo da lei, fissandolo ad osservare qualcos’altro. La linea azzurra dell’orizzonte, ad esempio. O il passeggiare nell’erba alta di una volpe curiosa, chi lo sa?
Un velo di tristezza le stringerà il cuore in una morsa gelida mentre contemplerà la cintura di Orione. Rabbrividirà. 
È colpa del vento, si dirà. Raccontandosi una pietosa bugia.
«Gli dei hanno desideri?»
Lo chiederà al vento, al vento e alle sue spalle nella camicia bordeaux. Il rosso gli dona, ma lei non glielo dirà mai. La sua vanità è pericolosa, e sarà bene che non divampi senza controllo.
Ma non è quello che stai facendo, adesso?, si sentirà chiedere in un angolo della sua mente, da una voce antica, che risuonerà di un accento duro e musicale al tempo stesso. Come la danza delle spade.
«Lo chiedi a me?», la canzonerà lui. Sorridendo.
«Lo chiedo a te perché tu puoi capirmi», e i suoi occhi verdissimi si faranno attenti.
< «Ah. Ho capito», dirà lui. Mostrandole i palmi delle mani, come a dirle che è innocuo, come un pulcino appena uscito dall’uovo. «Stai iniziando a raccontare…»
Lei annuirà, una ciocca che le ricadrà sullo sprone del vestito bianco latte; lui si sistemerà col capo sulle sue ginocchia, gli occhi fissi alle stelle e le mani incrociate sul petto.
«Prego, tesoro. Sono tutto orecchie…»
E lei riderà, un suono argentino che si perderà nel concerto d’archi dei grilli e nello stormire delle fronde e dell’erba pettinata in punta di dita dal vento. Gli accarezzerà la curva del mento con le mani, scoprendo una ruvidezza inaspettata, e poi prenderà a raccontare.
«Era una notte buia e tempestosa…»




 
 
Ogni tanto, senza una scadenza precisa, Il Sacerdote aveva l’abitudine di entrare in meditazione per comprendere quali sarebbero potute essere le prossime mosse sulla scacchiera.
Sii sempre tre passi davanti al tuo avversario, ripeteva dall’alto del suo trono massiccio – il trono di Athena – e per questo il sant’uomo si rinchiudeva nelle proprie stanze. Roba di poco tempo. Mezza giornata al massimo. Ma poi, gradatamente, il Sacerdote aveva iniziato ad allungare i tempi. Prima mezza giornata, poi un giorno. Un giorno e mezzo. Due, tre e così via. E se qualcuno aveva la malaugurata idea di ficcanasare, anche solo per accertarsi che il pover’uomo non fosse passato a miglior vita nel frattempo, semplicemente spariva. O non se ne avevano più tracce, e qualcuno spargeva la voce che il tizio in questione aveva disertato. Oppure il Sacerdote - Saga -  mostrava la sua testa, additandolo come traditore. O come spia di Ade. In un clima simile, la gente tendeva a stare lontana dalla Tredicesima Casa.  Spesso morivano anche persone che non c’entravano nulla. Danni collaterali. Quindi, tutto il personale di servizio si guardava bene dall’avvicinarsi troppo al Sommo Sion… pardon, a Saga di Gemini.
Che poteva starsene rinchiuso nei suoi appartamenti a meditare a lungo. Molto a lungo. Anche per cento giorni di fila. Più di tre mesi. Il tempo necessario e sufficiente per istruire qualcuno di capace. Di sveglio. E per maneggiare l’immenso potere di Gemini senza fartelo esplodere tra le mani – e senza annichilire te stesso nel mentre – devi essere più che sveglio. E hai bisogno di un mentore che abbia sperimentato sulla propria pelle cosa significhi essere Gemini. E che sia sopravvissuto.
Così, piano piano, Saga aveva iniziato ad assentarsi dal Santuario sempre più spesso, nascondendosi dietro le pesanti porte della Sala del Sacerdote. E in quel lasso di tempo, Saga di Gemini istruiva con pazienza un’anima: a rispondere al richiamo delle stelle, a ricreare l’energia del Big Bang dentro di sé e a scomporre la materia schioccando le dita.
«Stronzate!», e il pugno destro di Kanon si abbatté sul tavolo.
«Sacrosanta verità», ribatté Milo. «Io l’ho visto. Con questi occhi.»
«No. Non è possibile», e con un tono che non ammetteva repliche, Kanon sfidò Milo a provarci lo stesso. Avanti, ragazzino. Fai del tuo peggio.
Ma Milo non raccolse. Si strinse nelle spalle, in un clang di disapprovazione da parte della sua armatura – le cinghie. L’avevo detto io, che sono troppo lente, pensò Kanon – e replicò: «Sì che lo è.». Pausa. «Lo è e lo sai anche tu. Solo che, per qualche ragione che mi sfugge, non vuoi ammetterlo…»
«Non abbiamo prove che…»
«Saga», disse Milo. Come a suggerire che quel nome stesso fosse la prova. Quella con la P maiuscola. «Tuo fratello era capace di smuovere le umane e divine cose solo schioccando le dita. E lo sai.» Pausa. «Davvero non ti basta?»
Kanon si passò una mano davanti al viso, come a invocare pazienza o per stornare lo sguardo da un’ipotesi troppo assurda per sprecare il proprio tempo.
«Ma perché? Perché avrebbe dovuto essere proprio mio fratello ad addestrare Gemini?», obiettò Kanon. Quello stronzo. Quello. Stronzo.
«Mezzi, movente ed opportunità.»
«Questo non è un romanzo giallo!», protestò Kanon scostando la sedia. Si alzò, si allontanò dal tavolo e posò entrambe le mani sul davanzale della finestra. I fiori rosso scarlatto all’interno del vaso sembravano chiazze di sangue fresco. Quello stronzo. Quello. Stronzo.
«Negare l’evidenza non serve», disse Milo. E Kanon s’infuriò.
«Quale evidenza?», sbottò. «Quale. Cazzo. Di. Evidenza?»
«Siamo ancora nel campo delle ipotesi», si intromise Athina, le mani sul legno scuro del tavolo. «Ma Saga potrebbe -  ripeto: potrebbe - essere stato in grado di farlo. Dopotutto, ha passato tredici anni nell’ombra a manovrare i fili.»
«Io ci vedo delle interessanti analogie...», commentò Milo con un sorriso sardonico. Uno di quelli che attirano i pugni come i fiori fanno con le api e il miele con gli orsi. A Kanon non piacque quella battuta. Digrignò i denti in segno di avvertimento, ma Milo lo ignorò. «Checcè, Kanon? Geloso dei successi di tuo fratello?»
A quel punto, Kanon perse le staffe. Abbandonò la finestra e il vaso di fiori, si avvicinò a Milo e lo sollevò di peso, portandoselo a pochi centimetri dal viso.
«Smettila.»
«Colpito e affondato», mormorò lo Scorpione; era consapevole di stare scherzando con il fuoco, ma gli piaceva, oh se gli piaceva, vedere la maschera di atarassia di Kanon sgretolarsi e andare in pezzi come un vetro centrato da una pallonata. Lo faceva sentire meno solo. Lo faceva sentire meno fragile. Meno stupido.
Si stavano fidando ancora una volta della persona sbagliata?
Forse. Ma per accertarsene, occorreva sgomberare il campo da tutti i sé e tutti i ma e fare luce; una luce abbagliante che scacciasse tutte le ombre, anche le più insignificanti, anche a costo di rivelare i segreti più reconditi e privati delle persone. E bisognava farlo adesso, mentre l'attenzione generale era sviata da loro. Un morto e un fantasma. Una coppia improbabile di spazzini solerti, ma questo passava il convento; e da qualche parte bisognava pur cominciare, no?
«Non sfidare la fortuna», lo ammonì Kanon.
«Non la sto sfidando», gli rispose Milo, una mano attorno al polso dell’altro. «Sto solo mettendo le cose in chiaro.» Pausa. «Sei o non sei geloso di tuo fratello?»
«Falla. Finita.»
«Perché?» Lo sguardo di Milo era sincero. «A me servi tu. Devo capire come ragionava Saga.»
«Io non sono Saga!»
«Quindi, Kanon, rispondi a questa semplice domanda.» Eri tu quello che io e Camus abbiamo incontrato a Capo Sounion quella volta di tanti anni fa? «Saga avrebbe potuto assentarsi per addestrare qualcuno?»
«Lo sai anche tu. Al Santuario il cosmo di Athena impedisce...»
«No, no, no, no», disse Milo, abbassando la mano di Kanon dal proprio collo. «Non è questa la risposta giusta. E lo sai anche tu.»
Kanon lo guardò con un’espressione smarrita, come se l’altro si stesse esprimendo in arabo.
«Il cosmo di Athena non era presente in quei giorni. Ricordi? Per tredici anni, il cosmo di Athena non ha toccato una sola, singola pietra del Santuario.»
«Non c’ero. Non posso saperlo.» Bugiardo, lampeggiarono gli occhi di Milo. Kanon non raccolse. «E comunque...»
«Oh, avanti! Ci sono mille modi per sgattaiolare fuori dal Santuario e andartene dove ti pare, quando ti pare e se ti pare. E sono sicuro che tu e Saga li conoscevate tutti ben prima che io, Aiolia e Camus ne sospettassimo l’esistenza. Sbaglio?»
Kanon sbuffò. «No. Non sbagli.»
«Alla buon’ora!», esclamò Milo raggiante. «Quindi, la mia teoria potrebbe essere possibile, se non probabile. Giusto?»
«Giusto.» Kanon strinse i pugni. Quello stronzo. Quello. Stronzo. «Dio. Mio.»
Athina si alzò.
«Qual è il problema? Quello vero, intendo.»
«Il problema vero è che mio fratello aveva due personalità distinte e separate. Una buona da fare schifo e l’altra malvagia da fare spavento.»
«E per dirlo lui...»
«Okay», disse lei, interrompendo sul nascere l’ennesimo scontro di testosterone. Maschi. Quando fu sicura di avere l’attenzione di entrambi, proseguì: «Ho afferrato il concetto. Quindi?».
«Quindi, ammesso e non concesso che l’ipotesi di Milo sia corretta...»
«E lo è», s’intromise il diretto interessato, fissandosi le unghie.
«Ammesso e non concesso», proseguì Kanon, ignorando le provocazioni dello Scorpione, «non sappiamo quale delle due personalità abbia addestrato Gemini. La buona? La malvagia? Entrambe?».
«La Reggenza di Saga…, l’ha definita Gemini. Mi pare chiaro quale sia il suo punto di vista.»
«La Reggenza di Saga…» Kanon alzò le mani. Quello stronzo. Quello stronzo. Quello. Stronzo. «Ma perché?»
«Per avere una propria pedina all’interno…»
«No, non intendevo quello. Intendevo perché Gemini starebbe facendo quello che sta facendo. È questo a lasciarmi perplesso.»
Milo si strinse nuovamente nelle spalle, e un’altra volta l’armatura protestò con un clang. «Siamo qui per scoprirlo. L’unica cosa che sappiamo è che Athena non si è fidata sulla parola.» Pausa. «Senza offesa, s’intende», aggiunse, rivolgendosi ad Athina.
«Nessuna offesa», rispose lei. «Io avrei fatto lo stesso.»
«E avresti fatto bene», replicò Kanon. Spostò lo sguardo verso la finestra. Nella quiete della tarda mattinata, la macchia verde che tinteggiava il panorama assomigliava ad una pennellata rabbiosa.
«Tuo fratello sapeva essere carismatico. Lo ammetto», disse Milo. «C’è da chiedersi quante altre… compagne abbia reclutato nel corso degli anni. E se i suoi bracci destri sapessero. O se non l’abbiano aiutato in qualche modo…»
«Chi?»
«Cancro, Capricorno e Pesci.» Milo si aiutò con le dita. «Erano abbastanza grandi da essere coinvolti da Saga, ma sufficientemente piccoli per essere manipolati. Fino a che punto, non saprei dirtelo, ma…»
«Così non caveremo un ragno dal buco», disse Kanon. «Sono solo supposizioni. È questo, il problema. Dobbiamo trovare delle prove certe. Delle tracce. E l’unico posto dove possiamo cercarle è al Santuario. Nella Biblioteca del Sacerdote.»
Milo e Athina si scambiarono uno sguardo confuso.
«Perché tu pensi…», disse la ragazza, ma Kanon l’interruppe.
«No, non lo penso. Lo so», disse Kanon picchiettandosi la tempia destra. «Saga ha richiesto i diari delle missioni, giusto?», domandò, fissando i suoi occhi in quelli azzurro scuro di Milo.
«Sì. Sì, l’ha fatto.»
«Quindi è presumibile che abbia continuato a redigere gli Annali, come compito del Sacerdote.»
«Perché?», domandò Athina.
«Perché Saga era fatto così», rispose Kanon, con una sincerità che stupì lui stesso per primo. «Era compito del Sacerdote. E una volta diventato Sacerdote, quel compito è diventato un suo preciso dovere.»
Milo annuì. Aiolia non era forse arrivato alle stesse conclusioni?
Sì. Brutto gattaccio spelacchiato.
«Concordo», disse Milo. «Sarebbe stato strano se, dopo quanto successo, il Sacerdote non avesse stretto il controllo.» L’armatura dello Scorpione diede il proprio contributo alla discussione con un sordo clang.
Athina annuì. «Sono le stesse conclusioni a cui è giunta Athena.»
Due paia di occhi si catapultarono su di lei, quattro biglie azzurro e bianco in procinto di cadere a terra e ruzzolare sul pavimento, sparendo chissà dove. Sotto il letto, il canterano, l’armadio. O nella tana del topolino che da qualche tempo sgraffignava qualcosa da mangiare dalla dispensa.
«Ve l’ho detto. Athena è stata qui ad agosto. Ed era arrivata alle vostre stesse conclusioni.»
«E ce lo dici solo adesso?!»
Un altro coro. Un’altra perfetta sintonia tra quei due ragazzi che profumavano di sabbia e iodio. Altro che gli Wham!
«Stiamo parlando di Athena, non dell’ultima delle sprovvedute.»
Touché, pensò Milo. «Ma perchè tutta questa sciarada?», insistette lo Scorpione.
«Mettetevi nei mie panni», rispose lei, con un’espressione così spontanea che a Milo fece quasi tenerezza. Tienitelo nei pantaloni!, gli urlò la sua coscienza, prendendo in prestito la voce petulante di Aiolia. «Io non conosco voi. Voi non conoscete me. E dopo tutto il delirio che è successo l’anno scorso, se permettete, ci vado coi piedi di piombo. Un passo dopo l’altro.»
«Non posso darle torto», disse Kanon, quasi un sospiro, meritandosi un’occhiataccia da parte di Milo. «Però, toglimi una curiosità. Come ha fatto Athena a trovarti?»
«Gemini.»
«E lei come...»
«Athena mi ha detto che Gemini le aveva raccontato di una sorta di… lista. Un elenco di quanti il Sacerdote… Saga, aveva coinvolto in questa missione.»
«Dove c’è una missione...»
«C’è sempre un resoconto.»
Ancora la sintonia. Ancora la certezza che quei due avrebbero formato una coppia formidabile, come Starsky&Hutch. Forse ancora migliore. Se solo la smettessero di ringhiarsi contro come cani rabbiosi attorno a un osso, pensò lei.
«Così non caveremo un ragno dal buco», disse Kanon. «Sono solo supposizioni. È questo, il problema. Dobbiamo trovare delle prove certe. Delle tracce. E l’unico posto dove possiamo cercarle è al Santuario. Nella Biblioteca del Sacerdote.»
«Ecco spiegato perché Athena avesse una fretta del diavolo di rientrare al Santuario.»
«Ma qualcuno gliel’ha impedito...»
«È il caso di dare un nome a questo qualcuno», disse Kanon, «e smascherarlo prima che faccia altri danni.».
«Gemini», suggerì Milo, prima che un’occhiataccia dell’altro lo facesse sentire stupido.
«E l’aereo?», l’incalzò Kanon. «Quello che è successo non era farina del sacco di Gemini. Non poteva esserlo. Quello che è successo è stato l’intervento di un dio. Un dio che non vuole farsi riconoscere.»
«E le due cose sono collegate...»
«Non necessariamente», rispose Kanon. «Potrebbe anche essere che ci siano in atto due corsi d’azione. Uno da parte di Gemini, e l’alto da parte di questo dio… timido o reticente che sia.»
«Sarebbe un bel casino», commentò Athina, sedendosi ed accavallando le gambe. «Un casino immenso...»
«Più della morte di Athena?», domandò Milo.
«Poseidone ti ha salvato», gli ricordò Kanon. Stramaledetta sirena. Stramaledettissima sirena, pensò. Ché la sua vita – il suo esilio – sarebbe potuta continuare a trascorrere tranquilla e beata, i giorni uguali gli uni agli altri, scanditi dal levare del sole e da quello della marea; senza questa tegola extra-large cadutagli di spigolo tra capo e collo. E invece, no. Invece, Sorrento – invece Poseidone – s’era premurato di tirarcelo dentro per il collo. Perché non c’è requie per i Santi di Athena. E perché è sempre meglio tenere sott’occhio gli elementi problematici.
Stramaledettissima sirena.
«Forse la situazione non è così nera come appare.»
«Dici? Perché a me, Kanon, sembra di brancolare nel buio!»
«Brancoliamo in due.»
«In tre», s’intromise Athina. «Io ci sono dentro fino al collo, tanto quanto voi.»
Li fissò a lungo, prima l’uno, poi l’altro. Testardi. Greci. Maschi. Non si doveva abbassare ad uno scontro di forza, con loro. Avrebbe sortito l’effetto contrario. Avrebbe dovuto giocare le proprie carte usando il ragionamento. La logica. Amavano pensare, giusto? Athina represse un sorrisetto e si preparò all’affondo.
«Sono una vostra compagna», ricordò loro. «Quindi, se andate da qualche parte, io vengo con voi.»
«Potresti essere in combutta con Gemini.»
«Potrei», concesse lei. Milo si accigliò. Oh, tu ti accigli, caro. E io cosa dovrei dire? Speravo fossi più sveglio… «Ma se così fosse, non sarebbe meglio tenermi sott’occhio?»
«Giusto. Ma Gemini ci ha fregato proprio in questo modo.»
«Confido sul fatto che mi marcherete stretto. Sarebbe increscioso cadere due volte nello stesso tranello, giusto?»
«Vero.»
Kanon era stanco. Stanco di tutte quelle novità, stanco di fare da balia a due mocciosi che sprecavano il tempo battibeccando come galline per un granello di mais. Non c’era tempo per quelle stronzate. Se quei due avessero voluto azzuffarsi come gatti in calore, facessero pure; non era qualcosa che interessasse a Kanon. Concludere la missione, quello sì che era affare suo. E prima l’avessero risolta, meglio sarebbe stato per tutti. Quindi, bambini, state zitti. Papà deve pensare. «Non ci resta che prendere armi e bagagli e partire per il Santuario.»
«Preparo le mie cose», disse lei alzandosi. «Ci facciamo dare un passaggio da mio nonno non appena rientra.»
«Tra quanto dovrebbe tornare tuo nonno?», domandò Milo.
Athina lanciò uno sguardo all’orologio che portava al polso. «Non molto. Un’ora. Due al massimo, ma non credo che troverà ressa al mercato», rispose. «A quest’ora, non ci sarà nessuno.»
Milo annuì. Si alzò, nell’ennesimo clang della sua armatura, e aprì la bocca per dire qualcosa, ma lei lo interruppe.
«Scusa se te lo faccio notare, ma la tua armatura fa un suono poco piacevole.»
Lo so da me, pensò Milo, che sentì la propria voce dire: «Sì, lo so da me. Grazie.».
«Volevo dire che la tua armatura avrebbe bisogno di una controllatina alle giunture, oltre che di una stretta alle cinghie.»
«Peccato che Mu dell’Ariete non sia qui. Magari gli chiederò di dare un’occhiata alla mia ragazza», ribatté Milo toccandosi il rubino al centro del petto. Sempre ammesso che Mu non sia in eremitaggio chissà dove e per Dio solo sa quale astruso motivo. «Sempre se ne avremo il tempo, s’intende…»
«Ho un po’ di grasso, se vuoi. Potresti usarlo per le tue giunture, intanto. Sempre se…»
«Accetta», s’intromise Kanon, e Milo fu sul punto di rifiutare. Per mera ripicca. Chi diamine si credeva di essere, quello lì? La sua balia? Ma poi qualcosa – la voce del buonsenso, forse – gli sussurrò all’orecchio che sarebbe stata un’ottima idea. Avrebbe potuto fare un minimo di manutenzione, quel tanto che bastava perché la sua armatura fosse operativa, ed ammazzare l’attesa. Magari chiacchierando del più e del meno, così da farsi un’idea, seppure approssimativa, di che razza di persona avessero davanti. E Kanon, nel frattempo, avrebbe ideato una strategia. Qualcosa che avrebbe permesso loro di pararsi le chiappe, alla bisogna. Come avrebbe fatto Saga. Buon sangue non mente.
Così Milo si ritrovò a sospirare e a dire: «Accetto. Grazie».




 
 
«Athena… Sounia?» Agapios Solo annuisce. «E dov’è?»
«E dove vuoi che sia? A Capo Sounio. Accanto al tempiodi Poseidone.»
Accanto. Lo dice come se fosse la cosa più logica del mondo.
«Ma non erano nemici giurati?»
«Nemici giurati.» Pausa. «Che paroloni!», e Agapios decapita il suo sigaro con un toc, di quelli senza appello.
«Paroloni? E la disputa dell’Attica, allora?»
«L’hai detto. Disputa.» Prima boccata. «Hanno avuto un diverbio. Una scaramuccia. In famiglia, capita. Specie quando si vive in tanti sotto lo stesso tetto.»
«E allora Odisseo che acceca il figlio di Poseidone?»
Agapios sbuffa.
«E l’appalto in California?»
«Quello che ho vinto il mese scorso?»
«Quello che mi hai scippato, vorrai dire», e se gli sguardi potessero uccidere, Mitsumasa sarebbe morto e risorto una, due, tre volte. Almeno. «Hai proposto un prezzo stracciato. Ridicolo. Dovrei sentirmi offeso!»
«La California è più vicina al Giappone, che alla Grecia. È ovvio che la mia proposta sarebbe stata più bassa della tua.» Mitsumasa si stringe nelle spalle. «Se ci pensi, ti ho fatto un favore.»
«Un favore? Che scherzo di pessimo gusto!», ribatte Agapios. «Di’ la verità, piuttosto! Di’ che lo fai per i begli occhi della figlia del Generale Ross!»
Mitsumasa gli mostra i palmi delle mani, come a dirgli che sì, l’ha colto in castagna e che non ha più nulla da nascondere.
«Suvvia. Non arrabbiarti così. Sai che ti fa male alla salute.»
Per tutta risposta, Agapios gli sventola di fronte il suo sigaro.
Mitsumasa non si scompone.
«Cubano?», chiede.
Agapios ghigna.
«Toscano», risponde. «Ne ho acquistate due confezioni il mese scorso a Siena. Vuoi favorire?»
Non di prima mattina. «Più tardi ti farò compagnia volentieri. Adesso, parlami di questo tempio di Athena Sonia, per favore.»
«Macché Sonia e Sonia. Sempre quello hai in mente! Sounia. Athena Sounia.»
Pausa. «Ti ho incuriosito, eh?»
Mitsumasa si stringe nelle spalle. Come a dire che sì, è vero. Colto in castagna un’altra volta. Come se tu non lo sapessi, vecchio mio.
«Pericle fece costruire due tempi, a Capo Sounio. Uno, lo dedicò ad Athena. L’altro, a Poseidone. Così da non scontentare nessuno dei due.»
«Ho capito.»
«E allora cos’è che non ti torna?»
«Poseidone. Non è Athena la patrona della città? Perché dedicare un tempio anche a Poseidone?»
«Perché Atene è sul mare. Sarebbe stato sciocco non cercare anche la protezione di Poseidone. Non credi?»
«E Athena non ne era gelosa?» Santo Cielo. Ne parlo come se fossero persone reali e non favolette per bambini.
«Macché!», e il sigaro di Agapios finisce sul posacenere di finissimo cristallo boemo. «Athena è la dea della saggezza, e nessuno meglio di lei sa che, a volte, occorre scendere a compromessi coi propri… rivali
Mitsumasa gli regala uno sguardo indecifrabile. «Touché», dice, alzando le mani, stavolta in segno di resa.
«Mio nonno buonanima diceva che i tuoi nemici ti conoscono meglio dei tuoi amici.»
«Concordo.» Mitsumasa attende che il caffè alla greca sul tavolino da fumo raggiunga una temperatura accettabile. «E dimmi. Si può visitare questo tempio?»
«No.»
«No?» Bugiardo! «E queste foto, allora?»
«Le ho scattate la settimana scorsa.»
«Ok. Riformulo la domanda. Posso?» Agapios annuisce. «Come hai fatto a visitare questo tempio?»
L’altro ghigna. «Ho i miei buoni contatti alla Soprintendenza Archeologica. Sai com’è, tra una rilevazione marina e l’altra, salta sempre fuori qualcosa di antico, e così…»
Mitsumasa sfoglia le fotografie una dopo l’altra, poi chiede: «E cosa dovrei fare, semmai volessi visitare queste rovine? A chi dovrei chiedere?».
«Alle persone giuste, suppongo.»
«E suppongo tu sia uno dei pochi eletti…»
«Supponi bene.»
Va bene. Vengo a vedere il piatto. «Così come suppongo che ti interesserebbe vincere l’appalto in Italia…»
«L’appalto in Italia. Amico caro, tu sei un solenne figlio di buonadonna. Salvando tua madre, s’intende», e Agapios Solo ridacchia compiaciuto, come se avesse appena ascoltato la barzelletta più divertente del mondo. «No, quella storia è una fregatura colossale. Finché in Italia pioveranno bombe, io mi terrò lontano.»
«L’immaginavo.» Pausa. «Ma ci sarà pure qualcosa che…»
«Sarò a New York il mese prossimo. Per una serata di beneficenza, o roba del genere. La figlia del Generale Ross non avrebbe un’amica da presentarmi? Una carina almeno quanto lei, s’intende.»
«E tua moglie?» Mitsumasa si guarda intorno, come se Vassilissa fosse dietro la porta, pronta ad entrare nella veranda e a spaccare loro qualcosa sulla testa. Una padella, ad esempio. O il pesante posacenere di cristallo che troneggia sul tavolino da fumo.
«Quello è un problema mio.»
«No, diventerà anche mio, non appena Vassilissa saprà che…»
«Quante storie! Voglio solo avere un’accompagnatrice carina che mi rallegri una serata noiosissima! Alla mia età non ci tengo a impelagarmi con le ragazze giovani. Ti succhiano solo sangue ed energie. Sono uno stress, credi a me.» Altra boccata. «È chiedere troppo?»
«Suppongo di no.»
«Bene. L’ho sempre detto che eri una persona ragionevole, tu. Allora, questa amica?»
«Credo si possa combinare», dice Mitsumasa. «Ma dovrei…»
«Perfetto», e Agapios Solo alza una mano. «Sei un uomo di parola, Kido-san. Mi fido. Quando vorresti visitare il tempio?»
«Domani?», risponde, con la stessa incertezza del concorrente di un quiz a premi che non sa se ha scelto la scatola giusta. «Se non hai impegni, ovvio.»
Agapios lo guarda come se gli fosse spuntata una seconda testa.
«No, grazie. Mi è bastato un giro di giostra. Certi posti si apprezzano di più senza nessuno attorno. Fidati. Non capita tutti i giorni di poter visitare un tempio chiuso al pubblico. Qui ad Atene, poi, è una rarità.»
Mitsumasa annuisce.
«D’accordo, allora. Devo ricordarmi di acquistare qualche rullino fotografico.»
«Giapponesi. Voi e la vostra mania di fotografare ogni cosa
«Una fotografia non scattata è un ricordo che non c’è.»
«Perle di saggezza orientale?»
«No. Lo slogan della Kodak.»
Agapios scoppia a ridere di cuore e Mitsumasa gli si accoda, in una mattinata così tranquilla e serena da sembrare uscita da un libro illustrato, uno di quelli per ragazzi, dove il sole illumina un mondo semplice e le vicende si concludono puntualmente con il rassicurante E vissero per sempre felici e contenti.
«Chiederò a Ioannis di procurartene qualcuno. Quanti te ne servono?»
«Tre, quattro. Quanti ne riesce a trovare. Me li farò bastare.»
«Perfetto. Vado a fare un paio di telefonate e vediamo che mi rispondono», dice Agapios, prima di aggiungere: «Che sciocco! Domani è domenica. E non credo proprio che ci faranno questo favore. Lunedì ti andrebbe bene?»
«Benissimo. Domani, potrei andare all’Acropoli.».
«Non ci sei ancora stato?»
«No. Troppa folla.»
«Vacci presto, dammi retta. Eviterai la calca e il caldo, e ti godrai il Partenone screziato di rosa e oro.»
«L’immagino, ma proprio non ce la faccio ad alzarmi all’alba.»
Il vecchio armatore ridacchia.
«L’uomo propone e Dio dispone. Magari gli dei vogliono che tu non vada all’Acropoli, ma al tempio di Athena Sounia…», dice, sibillino, alzandosi dalla sedia in midollino.
«Crederò agli dei se e quando ne incontrerò uno», ribatte Mitsumasa Kido, sorridendo, prima di scottarsi la lingua col caffè.
Agapios sorride. Abbandona il suo sigaro nel posacenere e chiosa: «Non mi fa fumare in casa, quell’arpia. Se vuoi approfittarne, i sigari sono qui», e si allontana nel suo completo bianco gesso, in un tintinnare di chiavi che gli gonfiano le tasche dei pantaloni.
Mitsumasa sorseggia il suo caffè – amaro e robusto, con quel retrogusto di bruciato che gli ricorda certi whisky torbati – osservando una nuvola solcare rapida lo struggente cielo di Atene. E intanto pensa alle parole da usare per chiedere a Betty di presentare un’amica ad Agapios. Speriamo non mi faccia fare brutte figure, si dice, allungando la mano e decapitando un toscano con un colpo netto. Toc.




 
 
«Poseidone ci sta aspettando»
Seiya era stato irremovibile e Jabu aveva visto qualcosa nei suoi occhi che l’aveva convinto a seguirlo in quella missione suicida. Era la stessa luce che brillava nello sguardo dei santi, o in quello dei martiri. Un dio aveva parlato e Seiya era stato scelto come suo portavoce. Come profeta. Un profeta in jeans e maglietta e scarpe da tennis. Al diavolo tutto - i loro recenti trascorsi; il fatto che Poseidone, tecnicamente, ancora dormiva rinchiuso nell’anfora; il fatto che ad aspettarli non ci fosse Athena -: se Poseidone si era scomodato a salvarli doveva esserci un motivo. Quale fosse, Jabu non sapeva dirlo, e così neppure Seiya o Shiryu; era per conoscerlo - per mettere le cose in chiaro - che avevano disertato e si stavano recando ad incontrarlo. Solo dopo aver sentito la versione di Poseidone, avrebbero preso una decisione. Per quanto lo riguardava, Jabu era aperto ad ogni proposta ragionevole e sensata che consentisse loro di riportare Saori - Athena - al Santuario sana e salva. Abito da principessa incluso.
«Scusami se te lo chiedo…»
La voce di Jabu era quasi un sussurro. Aveva perso quella sicurezza che si colorava di incertezza, sul fondo di vocali strozzate e lemmi pronunciati con troppa velocità. Era serio, pacato, posato. Senza l’ansia di doversi dimostrare quello giusto al momento giusto. Senza essere in eterna competizione con Seiya, che correva davanti a loro, tutto preso dalla propria meta. Poseidone li stava aspettando, ne era certissimo; e Shiryu aveva preso per buona quell’idea. Sì, il dio del mare li aveva salvati. Aveva sentito anche lui il suo potere, terribile e abbacinante, mentre il suo corpo risaliva verso la terraferma e la sua coscienza riacquistava contezza di sé. Un cosmo smisurato li aveva raccolti. Un cosmo che sapeva di acqua di mare, dello zolfo che si respira vicino ai vulcani, e della terra smossa. Quello non era un cosmo normale. Quello era il cosmo di un dio.
«Dimmi pure.»
Lo incuriosiva, Jabu. Non erano mai riusciti a conoscersi per davvero, sempre impegnati, loro cinque, fianco a fianco contro il nemico di turno. Che tipo di persona era, suo fratello? Come si comportava, nella vita di tutti i giorni? Era qualcuno di cui ti saresti potuto fidare, sul campo di battaglia?
«Come funziona?»
Shiryu lo fissò come se gli fosse spuntata una seconda testa. Rallentò la propria andatura e chiese: «Come, scusa?».
Jabu saltò un fosso, quindi, una volta atterrato dalla parte opposta si voltò e disse: «Come funziona. Pur ammettendo che ci fosse lo zampino di Poseidone dietro il nostro salvataggio, che succederà adesso?».
E Shiryu fu costretto a rispondere: «Non lo so. Improvviseremo.».
Jabu sgranò gli occhi. «Sul serio? E come? Arriverà qualcuno ad indicarci la strada, oppure andremo sotto casa Solo e suoneremo il campanello? Scusi signora, Julian può scendere a giocare?» Pausa. «Ti prego, dimmi che non andremo a…»
«Non lo so», replicò Shiryu. «Sorrento della Sirena è rimasto accanto a Julian Solo. Se siamo fortunati, lo troveremo e parleremo con lui.»
«Altrimenti?», domandò Jabu. Shiryu gli scoccò un’occhiata truce. «Non lo sto chiedendo per rompere le palle. Lo sto chiedendo perché mi piace avere un piano alternativo. Sai, qualora qualcosa vada storto…»
Shiryu seguì lo sguardo di Jabu, scoprendolo a fissare la schiena di Seiya. Jabu aveva ragione. Con Seiya occorreva pensare a tutti gli aspetti collaterali. Lui correva davanti a loro convinto che avrebbero trovato il Signore dei Cavalli pronto ad accoglierli a braccia aperte, e magari aveva ragione lui; magari Poseidone li stava davvero aspettando, e magari avrebbe chiesto loro perché ci avessero messo così tanto prima di scendere dalle montagne ed andare a parlare con lui.
Ma se così non fosse stato?
Se la coscienza di Poseidone si fosse di nuovo assopita, e quel provvidenziale risveglio non fosse stato che un timido sprazzo di volontà?
Che cosa avrebbero fatto, loro, a quel punto?
Setacceremo tutta la terra palmo a palmo, semmai ve ne fosse bisogno, si rispose il Drago. Saori aveva parlato. Saori aveva ordinato a Seiya di trovarla, e loro avrebbero obbedito.
«Altrimenti suoneremo il campanello di casa Solo», rispose Shiryu, aumentando la propria andatura. Occorreva avere fede, per lavorare fianco a fianco con Seiya. E la Fede, quella con la maiuscola, non è certezza di cose che si sperano, e dimostrazione di cose che non si vedono? «Abbi fede, Jabu.» Abbine tu anche per me.
L’Unicorno scosse la testa. Agire per fede era qualcosa che un tipo pragmatico come Jabu poteva anche capire - la Fede era un’opzione come un’altra, al punto in cui si trovavano - ma la Fede era qualcosa di troppo astratto ed impalpabile per affidarvisi anima e corpo e tentare di salvare un dio. O una dea.
O forse Athena aveva avuto una svolta mistica e, dopo essersi incarnata in un corpo fatto di carne e sangue, aveva deciso di metterli alla prova come Dio aveva fatto con Abramo?
Avrebbero trovato un ariete da sacrificare al posto di Isacco?
A Grace - «Amazing Grace, please» - sarebbe piaciuto quel paragone. Sissignore. Le avrebbe fatto brillare gli occhi e battere le mani, ma Grace era fatta così. Una cristiana rinata era molto sensibile a certi tasti; anche servendo Athena. Alla faccia del Primo Comandamento.
«Ci sono più cose in cielo e in terra eccetera eccetera», liquidava la questione Grace. E forse aveva ragione lei; così come aveva ragione Seiya a correre a perdifiato verso l’orizzonte, certo che avrebbe incontrato Poseidone.
Chi cerca trova, recitava il Libro dei Proverbi; la domanda che rimbalzava nella testa di Jabu era: cosa troveremo alla fine del sentiero? E non sapeva dire se quanto avrebbe trovato gli sarebbe piaciuto, ché gli dei - tutti. Nessuno escluso - raramente elargiscono bei doni ai mortali. Anzi. E se - e quando - gli dei - tutti. Nessuno escluso - iniziano a farsi desiderare dai mortali, hanno in serbo qualcosa di molto, molto problematico.
Una boccata di fiele. Una coltellata nella schiena. E Jabu temeva che chiunque fosse stato a rapire Athena - sempre ammesso che Saori fosse ancora viva e  quelle di Seiya non fossero le farneticazioni di un pazzo - avesse trovato in Poseidone un complice. Un sodale. Tu ti becchi la ragazza, io il mondo.
Così, con questi ragionamenti tutt’altro che allegri, Jabu correva accanto a Drago e Pegaso, cercando il proprio posto in una dinamica di coppia già rodata. Seiya scattava avanti - più veloce e più impavido - e Shiryu gli copriva le spalle, nemmeno fossero stelle di un sistema binario. Jabu li osservava a poca distanza; qualora qualcuno li avesse attaccati lui sarebbe potuto intervenire. Forse. Ma chiunque fosse a seguire i loro passi - Jabu percepiva uno sguardo da rapace fisso tra le sue scapole. All’altezza del cuore -, non aveva intenzione di fargli la cortesia di permettergli di prenderli tutti e tre in un colpo solo.
E infatti anche il Drago se ne accorse.
«Dobbiamo dividerci.»
Shiryu non era mai stato così irremovibile. Neppure durante la scalata alle Dodici Case, quando la corsa contro il tempo, in cui Saga li aveva ingabbiati, aveva generato non pochi scoramenti ad ogni fiammella della Meridiana che si andava spegnendo.
«Adesso.»
«Continuiamo ancora un po’.»
Seiya correva. Non voleva sentirci da quell’orecchio, non voleva abbandonarli nelle grinfie di chiunque li stesse tallonando.
«No!», gridò Shiryu, arrestandosi all’istante. «Non erano questi i patti.»
Jabu si fermò a metà strada tra i due, incerto. Sì, Shiryu aveva ragione - «Shiryu ha sempre ragione», aveva sentito dire a Hyoga la scorsa primavera - e di sicuro il Santuario non aveva sguinzagliato loro dietro i soldati semplici, o le reclute: avrebbero messo a mal partito i primi e i secondi avrebbero avuto un’occasione d’oro per darsi alla macchia. Né Mu e Shaka si sarebbero fidati di Shaina o Ban: sarebbe stato come affidare una macelleria ad un branco di gatti randagi. Quindi, chi li stava tallonando era un bel pezzo da novanta e presto li avrebbe acciuffati tutti e tre; restava solo da scoprire chi tra Mu, Shaka e Aldebaran avesse assunto l’incarico.
Jabu sperava che fosse il Santo del Toro: Aldebaran li avrebbe raggiunti, li avrebbe ascoltati, avrebbe concesso loro un po’ di tempo per spiegarsi - tempo che avrebbe permesso a Seiya di raggiungere Thera e parlare a tu per tu con Poseidone -; Mu, e soprattutto Shaka, non sarebbero stati così clementi e comprensivi.
Ma c’era un altro Santo che avrebbe potuto lanciarsi all'inseguimento. Gemini. E il cosmo che Jabu sentiva avvicinarsi come un treno in corsa era vasto, profondo e potente come un cosmo d’Oro, ma non apparteneva a nessuno di sua conoscenza. Purtroppo.
«Ha ragione», disse - sospirò - Jabu, le mani sui fianchi e l’espressione rassegnata. «Tu vai avanti, prima che sia troppo tardi.»
Seiya tentennò.
«Non è né Mu, né Shaka, né Aldebaran. E nemmeno Shaina», aggiunse Shiryu.
«Per questo non voglio lasciarvi!», replicò Seiya stizzito. «Stiamo parlando di Gemini. E quella tizia non sarà Saga, ma...»
«Ci falcierebbe tutti assieme», replicò Shiryu. «E noi non possiamo permettercelo.»
Seiya sbatté le palpebre, sperimentando un déjà-vu poco piacevole: un tardo pomeriggio dello scorso autunno, col sole che era appena sceso oltre l’orizzonte ed Excalibur che aveva tranciato il piazzale davanti la Decima Casa.
«Come al Santuario...»
«Come al Santuario.» Shiryu annuì e posò una mano sul coprispalle di Pegasus. «Io resto indietro. Voi andate avanti.»
«Perché non facciamo il contrario, per una volta?», propose Seiya. «Perché non posso restare io e voi...»
«Perché Athena ha parlato a te. Perchè Poseidone sta aspettando te.» Lo sguardo di Shiryu si addolcì un poco. «O non ti fidi di noi?»
«Non è questo! E lo sai!»
«E allora cos’è?», chiese Jabu.
Seiya si morse le labbra.
«Avanti. Non abbiamo tempo per chiacchierare ancora», disse Shiryu voltando Seiya come se fosse una bambola. «Andate.»
E Seiya abbassò la testa. Annuì e riprese a correre verso la propria meta.
«Fai attenzione!», gli gridò Jabu prima di lanciarsi appresso a Seiya e lasciarlo da solo alle porte di Atene.
E in quel momento, come nelle migliori tradizioni – o come in certe pellicole americane dalla buona sceneggiatura – i timpani di Shiryu, Jabu e Seiya percepirono qualcosa. Un suono, limpido e un po’ freddo. Il canto melodioso di un flauto che riempiva colla sua voce caratteristica il silenzio del primo mattino e li accoglieva come si fa con un vecchio amico che non si vede da tanto, troppo tempo.
Seiya si era fermato, come centrato da una secchiata d’acqua gelida, e fiutava l’aria come un cane. Shiryu li raggiunse, guardandosi attorno accigliato. Jabu schiuse le labbra per parlare, ma le parole gli rimasero stoicamente ancorate alla lingua. Conosceva la melodia che quel flauto traverso stava producendo. Gli era nota. Grace la canticchiava, ogni tanto, quand’era di buonumore. Qualcuno stava riproducendo un inno sacro affidandosi alla sola voce del flauto. E Jabu non rimpiangeva l’assenza degli archi. Dei timpani. Del pianoforte o del coro. Anzi, sentiva dentro la propria testa le parole che i cantori avrebbero pronunciato, dagli acuti degli alti e dei tenori ai timbri più profondi di bassi e contralti.
Amici, non questi suoni!
Una pace immensa avvolse Jabu. Chiunque stesse suonando quella melodia veniva in pace, di questo l’Unicorno era certissimo. Così abbassò braccia e spalle e le proprie difese e si lasciò circondare da quelle note, come una coperta calda in un giorno di pioggia.




 
 
 
I templi greci sono un po’ come i castelli della Loira: quando ne hai visto uno, li hai visti tutti, ma guai a lasciarti scappare una considerazione del genere coi diretti interessati. Ché quelli, i greci, non te lo perdoneranno mai. Se la legheranno al dito e si terranno pronti a rinfacciartela alla prima occasione, riuscendo ad infilare la questione in tutt’altro genere di argomenti.
Così, Mitsumasa Kido decide di tenersi per sé ciò che realmente pensa del tempio di Atena Sounia e di raccontare ad Agapios qualche frase di circostanza. Scatta una fotografia dietro l’altra alle colonne doriche che hanno resistito al tempo, al vento e al sole impietoso dell’Attica. Colonne che non sono poi tanto diverse da quelle del Partenone o del Santuario di Apollo a Delfi o della Valle dei Templi di Agrigento, dall’altra parte dello Ionio. Le stesse scanalature, la stessa entasi, probabilmente lo stesso marmo candido lavorato a colpi di scalpello e bestemmie sotto il sole del Mediterraneo. Certo, qui c’è meno ressa, meno turisti che sciamano fra le rovine arrampicandosi, scattando fotografie, chiacchierando di tutto, tranne che di quello che stanno osservando; meno cicaleccio, che fa assomigliare l’Acropoli ad una succursale della Torre di Babele.
Si sente il mare, pensa Mitsumasa tra uno scatto e l’altro. E il vento, che soffia gentile e che profuma di salsedine e di iodio. E qualche gatto in amore, che si nasconde tra i cespugli e i capitelli caduti.
No, aspetta, si dice Mitsumasa tendendo l’orecchio. Quello non è un miagolio di una gatta in calore che chiama il suo compagno, no. È qualcosa di diverso. È troppo disperato, troppo monocorde, e i gatti sono maestri nel modellare il tono del proprio verso.
No, questo è il vagito di un bambino, si dice Mitsumasa, la macchina fotografica stretta tra le dita. Così si mette in ascolto, per localizzare da dove arrivi quel pianto. È vicino. Molto vicino. Ma cosa diamine ci fa un bambino qui?, si chiede, seguendo il richiamo come ipnotizzato, passo passo, dirigendosi verso una macchia di vegetazione che circonda una colonna caduta.
C’è urgenza, in quel vagito. Disperazione. E i passi di Mitsumasa si fanno più svelti. Non è normale che un neonato si trovi lì. Il sito è chiuso. Lui stesso è riuscito ad entrare dopo che Agapios ha passato mezzo pomeriggio al telefono, con questo o quell’assessore, per richiedere il permesso alla Soprintendenza. Come ci è finito questo bambino, qui? È da solo? E i suoi genitori dove sono? L’avranno abbandonato? O forse rapito?
Mitsumasa teme il peggio e con molta circospezione si avvicina, mentre il vagito si fa più impellente. Il grido disperato di una donna, pensa, in un angolo della sua mente, prima di affacciarsi oltre il rudere della colonna caduta.
C’è un ragazzo. Un adolescente, ferito e sanguinante, che stringe al petto una neonata. Il primo impulso di Mitsumasa è un’ipotesi vigliacca: girare sui tacchi e mettere quanta più strada possibile tra lui e quella scena piena di sangue.
Conosce quella sensazione, quella morsa che gli serra viscere e testicoli in una presa imperiosa: è l’istinto di sopravvivenza, lo stesso che sta sussurrando al suo cuore «Scappa o muori»; e questo vorrebbe fare lui. Scappare. E di corsa pure.

Ma poi qualcosa – il soffio dispettoso del vento, forse? – cambia l’atmosfera e Mitsumasa perde l’attimo. E il ragazzo socchiude appena gli occhi e si accorge della sua presenza. E sussurra: «L’uomo della Provvidenza.».
Mitsumasa non è certo di quello che ha sentito. Il ragazzo parla un dialetto tutto suo, è stremato e deve avere la vista annebbiata. Gira attorno alla colonna, si china di fronte a lui e gli chiede: «Cosa è successo?», scandendo le parole con molta, molta lentezza.
«Sono stato tradito», risponde lui, tra un respiro affannato ed un sospiro.
Tradito? Quelli che il ragazzo ha sul corpo sono tagli, lunghi e profondi come quelli che si lascia dietro una spada, e se Mitsumasa non sapesse che è un’ipotesi improbabile, penserebbe di essere finito sul set di un qualche peplum fuori tempo massimo.
Solo che nessuno grida: «STOP! STOP! Che ci fa quel tizio in scena? Cacciatelo!», o qualcosa del genere. C’è solo un ragazzo ferito a morte, una neonata che strilla con tutto il fiato che ha in corpo e una cassa d’oro zecchino, sporca di sangue e terriccio, ma troppo lucida per poter essere finta e troppo grande per poter essere vera.
In che guaio mi sono cacciato?, si chiede Mitsumasa, mentre il ragazzo, con uno sforzo, si mette a sedere, la bambina stretta al petto come se fosse la cosa più preziosa della Terra.
«Ma… ma tu chi sei? E questa bambina?», chiede Mitsumasa.
Il ragazzo sorride. «Questa bambina è Athena. La dea Athena.»
Athena?!, pensa Mitsumasa.
«Si è reincarnata… dopo duecentocinquant’anni per… proteggere l’umanità», continua il ragazzo con la voce sempre più flebile per la stanchezza. «I suoi nemici si sono infiltrati… nel Santuario… e hanno provato ad ucciderla. Ma io… l’ho difesa», aggiunge, come a volersi scusare di una qualche sua mancanza, di non essere riuscito a fare di più.
Ma cos’altro avresti dovuto fare?, pensa Mitsumasa, prima di rassicurarlo dicendogli: «Adesso va tutto bene», cosicché non getti la spugna e resista un altro po’. L’automobile che Agapios gli ha messo a disposizione lo aspetta fuori del sito archeologico. C’è un telefono a bordo, e, se non cincischieranno oltre, Mitsumasa è certo che forse – forse – riusciranno a raggiungere in tempo il primo ospedale. Lì si occuperanno del ragazzo e della bambina. E poi sporgerà denuncia alla polizia, e…
Al ragazzo tremano le labbra – labbra bluastre e gonfie – e gli mette la bambina tra le braccia. Mitsumasa la prende, e lei smette di piangere. Lo guarda, coi suoi grandi occhioni scuri, come a studiarlo per bene. Non è possibile. È troppo piccola perché riesca a vedermi per bene.
È bagnata. Avrà fame. Eppure, il suo sguardo si concentra sul viso di Mitsumasa e gli rivolge un sorriso smarginato. E lui sente che è perduto.
«Le affido… Athena…»
Tu cosa? Cos’hai detto?, pensa Mitsumasa, riuscendo a staccare lo sguardo dal volto della bambina; ma quando riporta gli occhi sul ragazzo scopre che è svenuto, ed è scivolato all’indietro, la testa abbandonata sull’erba fresca e tenera.
«Ehi. Ehi. Fatti coraggio», lo chiama; ma, per quanto lo scuota per un ginocchio, il ragazzo non dà segni di ripresa, e resta con gli occhi rivolti in alto, come a guardare lo spettacolo più bello del mondo, naufragando nel celeste struggente del cielo appena fuori Atene.
«Andato», mormora Mitsumasa, ritrovandosi a cullare la bambina in modo quasi automatico. E adesso che faccio?, pensa, guardandosi in giro. È solo, tra colonne che si ergono silenziose a strapiombo sul mare, il vento che soffia sull’erba in una mattina pura e spietata.
«Idee?», chiede alla bambina, come se questa potesse rispondergli. Lei lo guarda, coi suoi occhi grandi e scuri, e sorride. «D’accordo, d’accordo. Una cosa per volta», le dice Mitsumasa, cullandola.
Tornerà all’automobile, chiamerà Agapios Solo, e lui lo aiuterà ad uscirne fuori. Stanno per piovergli sulla testa una marea di grattacapi. C’è da avvisare la polizia, sistemare il cadavere di quel povero ragazzino, avvisare la famiglia della bambina…
Agapios non me lo perdonerà mai, pensa, mentre in un angolino della sua mente si chiede che fine farà quella piccina. Tornerà dai suoi genitori, ovvio; ma se non li avesse? Se fosse rimasta orfana, per un qualche scherzo del destino? Magari, ecco sì, magari quel ragazzino era il fratello maggiore di questa piccina. L’auto su cui viaggiavano assieme ai loro genitori è uscita di strada e lui è riuscito appena ad estrarre se stesso e la sorellina dalle lamiere contorte della vettura. Delirava. È l’unica spiegazione possibile.
Ma il suo cervello ricorda a Mitsumasa che non hanno visto incidenti, strada facendo, né segni di frenata o guard-rail divelti. Niente di niente. Sì, Athena è un nome ancora usato in Grecia, specie ad Atene. Non si chiama così anche una delle cameriere di Agapios?
Sì. Certo che sì.
Occhi nerissimi e pelle d’ambra.
Ma la scatola, allora? Come la spieghi, quella?, si sente chiedere Mitsumasa dalla propria coscienza.
Ma prima che possa anche solo fornire un’ipotesi, o almeno provarci, sente, alle sue spalle, un ordine tassativo.
«Lascia andare la bambina.»




 
 
Seiya e Shiryu avevano alzato la testa, come a voler vedere chi fosse quel suonatore prodigioso. Abbiamo mandato il mondo a farsi fottere per un po’. Cinque minuti appena, diceva la loro postura: braccia lungo il corpo, spalle rilassate, ginocchia flesse. Non si aspettavano l’assalto di un nemico. Non c’era alcuna possibilità che un avversario piombasse loro addosso come un’aquila sulla schiena di una lepre. Sarebbe stato come credere che il mondo avesse smesso di girare attorno al sole e se ne fosse andato a pattinare sugli anelli di Saturno. Così, tanto per fare qualcosa di nuovo.
Un ultimo trillo, un’ultima, lunghissima nota e il silenzio abbracciò l’alba sulle campagne a nord di Atene. Jabu sbatté le palpebre, come se qualcuno lo avesse appena chiamato da un sogno ad occhi aperti, e si guardò attorno. Non era successo loro niente - non ancora. Erano tutti e tre sani, salvi e stralunati, e si guardavano l’uno con l’altro in cerca di una spiegazione. Poi Jabu notò una figura in lontananza e disse: «Lassù», indicandola ai compagni. La sua gola assomigliava ad una spianata di carta vetrata, e ciò che produsse fu un suono di unghie sulla lavagna. Ciononostante, Seiya e Shiryu si voltarono nella direzione indicata.
«Chi diamine è?» chiese l’Unicorno, lo sguardo allargato e i sensi tesi; la gente non si mette sui rami a suonare musica di primo mattino, giusto?
«È il nostro Cicerone», replicò Shiryu, la mascella rigida, ché sì, erano in pace – armata, ma pur sempre pace –; tuttavia Shiryu preferiva non fidarsi ciecamente di un nemico, pur se ex, ché nella personale visione del Drago un nemico restava sempre qualcuno da cui guardarsi le spalle. «Sorrento della Sirena.»
Seduto su un robusto ramo di pino marittimo, le gambe a dondolare nell’aria come se fosse a cavallo di una staccionata, un uomo li osservava. Aveva un aspetto spettrale, come un’apparizione uscita da un romanzo gotico; i capelli al vento e una cravatta al collo, Sorrento della Sirena, abbassò il flauto e sorrise loro, un cenno con la mano per salutarli. Quindi scese dal ramo – si lasciò cadere, pensò Shiryu – e atterrò poco distante, lo strumento tra le dita. Seiya e gli altri lo raggiunsero in un attimo.
«Sorrento!», esclamò Seiya. «Che piacere!». Ed era sincero, Shiryu lo sapeva. Diamine, Seiya sarebbe stato felice di ritrovare persino Saga.
«Sono felice di vedere che state bene», disse Sorrento, spaziando con lo sguardo fermo da Pegaso al Drago. Si soffermò su Jabu, lo squadrò e poi disse: «Mi spiace solo che le circostanze non siano delle migliori.».
Era un tipo strano, questo Sorrento, pensò Jabu. Più che un essere umano fatto e finito, assomigliava ad un manichino appena scappato dalla vetrina principale di una boutique del centro, o dalle pagine di una rivista per gentiluomini di un certo livello - di quelli che dissertano di tauromachia e arte sorseggiando brandy d’annata in un club londinese frequentato dalla buona società. Cappotto color canna di fucile, completo blu scuro e scarpe abbinate, cravatta grigio chiaro al collo, stringeva tra le dita un flauto traverso d’oro, l’espressione serafica di chi sta facendo una passeggiata. Sorrise, e qualcosa - lo sguardo da rapace in quel viso gentile - suggerì a Jabu di non abbassare la guardia. Quello non era un manichino o un dandy o un bambolotto troppo cresciuto. Quello era un Generale degli Abissi di Poseidone. Uno che non era il caso di sottovalutare se si voleva tenere la propria testa attaccata al collo.
«Grazie per averci salvato», disse Shiryu, porgendogli la mano. Toccava a lui il ruolo di custode delle buone maniere. Sorrento la strinse, e la sua presa era salda.
«Non dovete ringraziare me, ma il mio Signore», si schermì. «Per conto mio, è stato un piacere. Anche se in passato siamo stati avversari, sono contento di avervi potuto dare una mano.»
Il suo sguardo si fermò su Jabu e l’Unicorno sussultò. Sì, questi sono gli occhi di un predatore. Lo sguardo cupido di un gabbiano.
«Mi dispiace conoscerti in simili circostanze», gli disse Sorrento, guardandolo dritto nelle palle degli occhi. E Jabu seppe che era sincero, come solo un predatore sa essere. Ti uccido perché ho fame. Niente di personale. E Jabu si scoprì ad annuire.
«Succede. Grazie lo stesso per l’aiuto che ci state dando, tu e il tuo Signore», rispose. Perché Sorrento era lì per aiutarli, giusto?
«Dovere. Quello che sta succedendo riguarda tutti noi.»
«In che senso?» Seiya sembrava attentissimo, adesso: esauriti i convenevoli di rito - diamine, Sorrento li aveva salvati, giusto? - ascoltava il nuovo arrivato con le orecchie ben aperte e gli occhi smarginati, un passo in avanti, con Pegasus pronta ad assecondare i suoi movimenti come una coppia ben collaudata si prepara a scendere sulla pista da ballo.
«Nel senso...»
Sorrento tacque. Parve soppesare le proprie parole per qualche minuto, come chi non padroneggia una lingua alla perfezione sceglie con cura cosa dire, onde evitare spiacevoli equivoci.
«Nel senso che chiunque abbia rapito Athena non si fermerà qui. La sua agenda è molto più fitta di quanto ci piaccia credere.»
«E chi sarebbe...» questo simpaticone?, avrebbe voluto chiedere Seiya. Jabu percepiva già il suono di quelle parole rompere la calma del primo mattino, ma Sorrento lo interruppe.
«Non lo so.» Pausa. «Il mio Signore non me l’ha detto.»
E Jabu vide che era sincero.
Con buona probabilità, Poseidone sapeva - o aveva intuito - quale fosse l’identità del loro avversario; ma il Signore dei Cavalli teneva per sé questa informazione per rivelarla al momento opportuno. Come quando si aspetta a mostrare l’asso che ci regala il poker. Agli dei piace un coup de théâtre qua è là, Jabu. Si divertono così. La voce di Grace era così vivida da fare male. Fosse colpa di Sorrento?
«Ma venite. Il mio Signore vi sta aspettando.»
Shiryu annuì. «Dove dobbiamo recarci?»
«Nel punto in cui il mio Signore vi ha ripescato», rispose. «Vi sta aspettando da qualche giorno, ad essere sincero.»
Seiya sorrise e lanciò uno sguardo pieno di trionfo all’indirizzo di Jabu.
Te l’avevo detto!
Jabu si scoprì a sollevare le mani, mostrandogli i palmi, come a dargli ragione. Touché, marmocchio.
«Allora sarà il caso di andare.»
Sì, a Shiryu riusciva bene il ruolo di voce della coscienza. Pure troppo.
«Un'automobile ci sta aspettando poco distante. Vi sono venuto incontro per salutarvi.» E per parlare in privato, aggiunse il suo sguardo. Gli altri tre annuirono. «Ma forse sarebbe meglio che toglieste le vostre armature.»
«Perché?», chiese Seiya. Gli occhi di Jabu si ridussero a due fessure.
«Perché il mio Signore vuole incontrarvi in un posto pubblico. Un bar a Imerovigli», spiegò Sorrento. «Meglio non destare troppo l’attenzione. Sapete come si dice, no?»
«No. Come si dice?», chiese Jabu.
Sorrento rivolse il suo viso sull’Unicorno. «È difficile notare quello che vedi tutti i giorni.» Pausa. «Così bardati attirereste un po’ troppe attenzioni. E noi siamo carbonari. Non ci servono attenzioni.»
Seiya scambiò uno sguardo coi suoi amici, quindi disse: «Va bene. Ma dove…» riponiamo le nostre corazze?, chiesero gli occhi di Pegaso.
Il Generale di Poseidone alzò una mano, come a chiedere scusa per l’interruzione. «Troverete dei vestiti nel bagagliaio dell’auto. Spero di aver indovinato i vostri gusti e le vostre taglie. Una barca ci sta aspettando al Pireo. Dovremmo raggiungere Thera verso la fine della mattinata. Ma venite, non abbiamo troppo tempo da perdere, e al mio Signore non piace aspettare», e così dicendo voltò loro le spalle e si diresse verso il limitare della macchia mediterranea, seguito come un’ombra da Seiya.
«Dovevo chiedertelo. Parlo di prima», disse Jabu fissando la schiena di Sorrento e il completo dall’ottima linea sartoriale. «Lo sai.»
«Lo so», rispose Shiryu. «Basta avere Fede.»
«Non abbiamo altra scelta, temo», disse Jabu accodandosi.




 
 
Mitsumasa sbatte le palpebre. Chi ha parlato? Non erano soli?
Alza lo sguardo con cautela. Davanti a lui, un piede sopra un capitello caduto, c’è un uomo. Indossa un mantello grigio e stazzonato, lungo quasi fino ai piedi, e lo osserva con l’espressione più ostile che Mitsumasa abbia mai visto. Un cane a cui hanno sottratto l’osso, pensa. O una lupa che protegge i suoi cuccioli.
«Lascia. Andare. La. Bambina.»
Il tizio fa un passo avanti, scavalcando il capitello. Indossa una specie di parastinchi di cuoio sulle gambe; Mitsumasa è riuscito a scorgerli appena. Deve appartenere allo stesso mondo del ragazzo. Un mondo in cui lui è cascato con entrambi i piedi.
«Non sono stato io. Ho trovato questo ragazzo in fin di vita. Non sono riuscito ad aiutarlo», dice, sentendosi uno stupido l’istante successivo.
L’uomo avanza verso di lui e lancia uno sguardo al ragazzo. Si china. Esamina le sue ferite a colpo d’occhio, e poi dice: «No, certo che no. Questi», aggiunge, indicando i tagli sul corpo del ragazzo, «sono i souvenir che si lascia dietro la Spada Sacra.».
La che?, pensa Mitsumasa.
«Povero Aiolos», mormora lo sconosciuto, passando una mano sul viso del ragazzo e abbassandogli le palpebre. Recita una preghiera a mezza bocca, come se stesse ripescando le parole nei meandri della memoria, poi lo fissa nuovamente.
«È… è sua figlia?», chiede Mitsumasa. Sì, deve essere la spiegazione più logica. Questa è sua figlia e lui vuole solo riprendersela, si dice, stringendosi al petto la bambina.
«No», risponde l’uomo, in un greco macchiato di francese. «Quella bambina è molto più importante.»
«Cosa c’è di più importante di un figlio?!», sbotta Mitsumasa.
Quelle parole sono come sale su una ferita aperta. È ancora fresco l’incenso bruciato per suo figlio Mei, è ancora straziante il vuoto che quella vita spezzata troppo presto gli ha causato. No, quest’uomo non è il padre della neonata.
«Quella bambina non è una bambina come tutte le altre. Quella», risponde l’uomo, indicando il fagottino tra le braccia di Mitsumasa, «è Athena. La nostra dea. Capisce?»
E Mitsumasa si dice che sì, capisce. Capisce benissimo. È finito ad avere a che fare con una setta di pazzi fanatici.
«Avanti. La dia a me», ripete l’altro, e sebbene Mitsumasa vorrebbe consegnargli la piccina e chiudere la questione – non le faranno del male. È la loro dea, no? –, senta la propria voce rispondere con un «No» così secco e duro da risuonare come un rintocco di morte.
«No?», chiede l’uomo, come a sincerarsi di aver capito bene, prima di passare ai fatti.
«No. Il ragazzo l’ha affidata a me», ribatte Mitsumasa, come se questo avesse un senso logico e non si riducesse ad un litigio tra bambini.
«L’ha affidata a lei perché non c’era nessun altro.»
Touché. «La Provvidenza opera in vari modi», risponde Mitsumasa. Lui, che non crede in niente e in nessuno se non in sé stesso. La Provvidenza, il Destino, il Fato, il Karma sono per Mitsumasa degli alibi che gli esseri umani utilizzano per mascherare le proprie mancanze, le proprie viltà e i propri fallimenti.
Allora perché l’hai tirata in ballo? Perché mascherarsi dietro il volere di un bene superiore?
Perché io non voglio dargliela, si risponde Mitsumasa, la macchina fotografica al collo e la neonata tra le braccia.
«La Provvidenza», mormora l’uomo. «E potrei sapere il nome della persona che la Provvidenza avrebbe scelto?»
«Mitsumasa Kido», risponde; poi infila una mano nella tasca della giacca e ne cava fuori un cartoncino bianco che porge all’uomo. «È il mio biglietto da visita», aggiunge, con lo stesso tono con cui è abituato ad affrontare le persone. Non c’è esitazione nella sua voce, adesso. È in un territorio che conosce e anche se quell’uomo – che sembra appena scappato dalle pagine di un romanzetto distopico – non avrà mai sentito parlare di lui o della sua Fondazione, poco importa.
Mitsumasa è abituato a vendere se stesso e a conquistare la fiducia dei suoi interlocutori. Ci vorrà qualche scambio di battute in più, ma è certo di portare a casa il risultato.
L’uomo si rigira tra le dita il biglietto da visita. Ha la pelle screpolata di chi lavora a mani nude, senza curarsi del vento, del sole e delle intemperie, e alcuni tagli sui polpastrelli; eppure tratta quel rettangolo di carta di ottima grammatura come se fosse abituato a maneggiarne di migliori.
«Lei è giapponese», dice, come soppesando tra sé e sé quest’informazione.
Qualcosa, nello sguardo dell’uomo, cambia.
«Sì», risponde Mitsumasa, mostrando la macchina fotografica appesa al suo collo. «Ma la nostra società…», si espande in mezzo mondo, vorrebbe aggiungere, ma non riesce a terminare la frase. L’uomo lo interrompe con un gesto secco.
«In Giappone…», ripete, come se questo avesse un’importanza cruciale. Vitale, quasi.
«Sì. La mia società ha sede a Tokyo», risponde.
«E dove alloggia, qui ad Atene? A che albergo è sceso?»
«Sono ospite presso amici.»
«Chi?»
Mitsumasa sbatte le palpebre. Non vuole coinvolgere ulteriormente Agapios in questa faccenda. Non sarebbe giusto. E non è sicuro che questa gente non possa rivalersi su Agapios, in qualunque momento. Eppure, sente la sua voce rispondere: «Agapios Solo.», più incrinata che se fosse tornato ad essere uno scolaretto intimorito al cospetto del suo precettore - e quello di Mitsumasa, il signor Kamafuchi, era la quintessenza della severità e dell’educazione impartita a suon di bacchettate sulle nocche. «Della Solo…»
«Non importa», dice l’uomo. «So chi è. Fino a quando ha intenzione di trattenersi qui?»
«Intende al tempio, o…»
«O.»
«Sono appena arrivato», risponde. «Contavo di trattenermi per un’altra settimana, almeno…»
«No. È troppo pericoloso», ribatte l’uomo. «Deve andarsene. Subito. Il prima possibile.»
«Ma… ma perché?»
«Perché la bambina è in pericolo!» La voce dell’uomo si alza di un’ottava, come se fosse superfluo ribadire l’ovvio per l’ennesima volta.
«Ma… ma si può sapere lei chi è?»
«Sono un Santo di Athena.»
«E… e lui… era?»
«Un Santo, come me. Ma il potere di questo povero ragazzo era superiore al mio.» L’uomo rivolge uno sguardo al cadavere e sputa a terra. «Era appena stato nominato suo tutore.»
Tutore? Ma se era un bambino lui stesso?! «E lo hanno ucciso?»
«Sta succedendo qualcosa di strano, nel nostro mondo. Hanno cercato di uccidere la bambina, e lui l’ha difesa. A costo della vita.»
Pausa.
L’uomo si china a raccogliere la cassa e se la pone in spalla come se fosse lo zainetto di un turista.
«Non ho fatto in tempo, dannazione. Ero dall’altra parte del Paese e ho sentito troppo tardi il suo grido d’aiuto. Ma adesso, è meglio andarsene. Il sangue del ragazzo ha lasciato una pista sin troppo semplice da seguire, e qui pullulerà presto di segugi, corvi e avvoltoi.»
Altra pausa.
«Lei non c’entra con questa storia», gli dice, come a volersi sincerare che Mitsumasa capisca in quale impresa si sta per imbarcare e che andrà avanti, fino in fondo. Nonostante tutto e tutti. «Dia a me la bambina. È ancora in tempo per tirarsi indietro.»
«I Kido hanno una sola parola», risponde Mitsumasa.
«Potrebbero tentare di uccidere questa bambina. E lei e la sua famiglia potreste andarci di mezzo, se ne rende conto?»
Mitsumasa annuisce. «Non è un problema. Sono rimasto da solo», dice, la fronte imperlata di sudore, e non per il sole che si va facendo sempre più alto nel cielo ateniese. «Mi spieghi chi mai potrebbe volere la morte di questa creaturina. Chi è mai questa bambina? Chi è veramente
«La dea Athena», risponde l’uomo. Come se fosse perfettamente logico che una divinità del mito non solo esistesse, ma si togliesse lo schiribizzo di farsi una passeggiata tra i mortali, di tanto in tanto. Per ammazzare il tempo, prima che lui ammazzi te.
D’altronde, l’eternità dev’essere un bell’impiccio, dopo un po’, si dice Mitsumasa, mentre osserva l’uomo rivolgere alla neonata che dorme tra le sue braccia uno sguardo pieno della stessa devozione dei santi che compaiono nelle pale d’altare.
«E lei è l’uomo che Tyche ha scelto per proteggerla.»




 
 
Milo si riteneva una persona flessibile. Non aveva senso, secondo lo Scorpione, incaponirsi su un tracciato e non cambiare strada all’occorrenza. Che succede se si imbocca una strada senza uscita? Si resta fermi a prendere a testate il muro finché non cade?
Oh, Aiolia lo avrebbe fatto. Sicuro come il sole sorge ad Est. Ma avrebbe avuto senso perdere tempo ed energie per qualcosa che si sarebbe potuto evitare tornando sui propri passi e scegliendo un tragitto alternativo?
Non per Milo. Assolutamente no.
Ma a Milo non piaceva che i suoi passi cambiassero strada senza che nessuno avesse chiesto il suo parere. O lo avesse graziosamente avvisato prima di imbroccare un altro percorso, come stava facendo la barca di Stavros.  Milo non conosceva molto Thera. Troppi turisti, troppa folla da aprile ad ottobre inoltrato. E troppe dracme da spendere per campare, a suo insindacabile giudizio. Tuttavia, Milo era sicurissimo che la rotta su cui navigava la barca di Stavros non fosse quella migliore per raggiungere l’imbarco dei traghetti.
Se il suo senso dell’orientamento non si era preso una bella e lunga vacanza senza avvisare – variabile che poteva essersi effettivamente verificata: le cose giravano per il verso storto, da un po’ di tempo a questa parte, nella vita dello Scorpione –, Atene era nella direzione opposta a quella che avevano intrapreso loro quattro, stipati come sardine su una barca che minacciava di affondare al prossimo miglio.
Ticchettava il proprio indice sulla placca che proteggeva il ginocchio destro, attendendo il momento giusto per sbottare e chiedere a Stavros conto e ragione delle sue azioni.
Kanon gli scoccò uno sguardo indecifrabile.
Mi girano le palle, risposero gli occhi dello Scorpione. Incrociò lo sguardo di un gabbiano che stava scroccando un passaggio verso la terraferma - forse lo stesso che avevano incontrato quella mattina? Un suo parente? Chissà… -, poi fissò la schiena di Stavros e chiese ad alta voce: «Si può sapere dove stiamo andando? Atene è dall’altra parte.».
Stavros non rispose, non subito. Si voltò, squadrò lo Scorpione dall’alto in basso e gli disse: «Non avrai intenzione di andartene in giro così, vero?».
Milo sbatté le palpebre. Come, scusa? «Sono in missione per conto di Atena», rispose.
«Lo so io e lo sai tu», disse Stavros. «Ma la gente comune non lo sa. E forse è meglio nascondersi tra la folla, quando vuoi passare inosservato, no?»
Non faceva una grinza, tuttavia… «Viaggio leggero, io.»
Stavros si strinse nelle spalle. «Sono sicuro che la persona che vi sta aspettando si occuperà di questa faccenda.»
La persona che ci sta aspettando?
E poi Kanon diede voce ai pensieri di Milo. «Come sarebbe a dire? Chi ci sta aspettando?», disse – quasi gridò, per sovrastare il fracasso del motore.
«Non ne ho la più pallida idea», ribatté Stavros. «So solo che è uno come voi.»
«Prego?»
«Uno come voi», ripeté Stavros, scandendo quasi le parole. Fissò Milo, poi spiegò: «Uno come te e l’amico tuo. Ma differente.».
«In che senso differente, nonno?», chiese Athina.
«Più… sobrio. Più educato, ecco.» E Stavros tornò ad occuparsi della navigazione, lasciandoli a guardarsi l’uno con l’altro.
«Spiegaci che sta succedendo», le disse – le ordinò – Kanon.
«Ne so quanto voi», replicò lei, gli occhi sgranati e l’espressione di un bambino perso tra la folla. «Magari uno dei nostri ci sta aspettando da qualche parte…»
«Piano. Uno dei nostri, semmai», puntualizzò Milo. Era inviperito e non si preoccupava di farlo notare.
«Sono coinvolta anche io in questa storia, nel caso l’avessi dimenticato…», ribatté Athina.
Adesso li sbatto testa a testa, pensò Kanon, prima di esclamare: «Silenzio.».
Gli altri due lo fissarono increduli. Sì, vi sto trattando come marmocchi. Crescete e vi tratterò da adulti, sibilarono gli occhi di Kanon. «Qualcuno ci sta aspettando», ricapitolò l’ex Generale del Mare. «Se è un amico, bene. Ma se si tratta di un nemico…»
«Estote parati», dissero Milo e Athina in sincrono, e Kanon suppose come dovesse sentirsi un maestro circondato dai propri allievi.
Bravi bambini. Dopo vi compro il gelato.
La barca di Stavros virò a destra ed entrò in un’insenatura naturale. Davanti a loro c’era una piccola spiaggia deserta, con un porticciolo male in arnese e quattro persone che li attendevano, le mani in tasca e la postura da pesce fuor d’acqua tipica dei Santi di Athena senza armatura.
«Ma quelli…», disse Milo alzandosi in piedi. Il gabbiano gli gridò qualcosa di stizzito nella propria lingua. La barca beccheggiò pericolosamente. «Seiya?! Seiya!! Shiryu!»
«Siediti, imbecille!», tuonò Stavros. «Questa barca mi serve per campare, sai?!»
«Ragazzi!», esclamò Milo, le mani a coppa attorno alla bocca e l’espressione di un bambino davanti ad una montagna di dolciumi. Il gabbiano ne ebbe abbastanza e spiccò il volo. Kanon e Athina si voltarono ad osservare.
Dalla spiaggia si alzò un coro di voci di saluto, poi tre figure si staccarono e corsero loro incontro, percorrendo il pontile traballante con molta cautela. La quarta rimase in attesa sulla spiaggia, come a voler dare loro il tempo per salutarsi. Per ritrovarsi.
Stavros manovrò la barca e si avvicinò al pontile. Gettò una corda ad uno dei tre, un ragazzo dai capelli lunghi e scuri, che la fissò alla bell’e meglio attorno ad un palo di legno mezzo marcito che spuntava dall’acqua alla fine del pontile.
«Signori, capolinea!», disse Stavros voltandosi verso i propri passeggeri, la voce a tentare di sovrastare il fracasso del motore. Abbracciò Athina e le disse: «Stai attenta, piccola mia».
Lei arrossì, un riverbero che si perse nell’oro dell’armatura di Virgo, e lo strinse per un istante o due; poi, a malincuore, gli sussurrò qualcosa all’orecchio, gli scoccò un bacio in fronte e scese, la sacca che portava in spalla stretta con foga.
Quando Milo e Kanon fecero per seguirla, Stavros bloccò loro la strada.
«Un momento ancora, voi due», disse il vecchio pescatore con la voce arrochita dal tabacco. Fece loro un cenno con l’indice tutto storto e i due si avvicinarono. «Quella è mia nipote», disse l’uomo. Fuori i gabbiani lanciavano il loro grido, a pelo dell’acqua, come un gioioso coro di benvenuto. O sarebbero stati degli psicopompi un po’ sui generis? «L’unica persona al mondo che mi è rimasta. Se succede qualcosa a voi, verrò a farvi visita ogni domenica», e non c’era bisogno di specificare il luogo del loro ipotetico rendez-vous. Milo non faticò ad immaginarselo dentro un vestito nero dal taglio antiquato ma dignitoso, ed un paio di fiori rossi tra le mani rugose. Uno per lui. Uno per Kanon. «Ma se succede qualcosa a lei...»
Stavros non terminò la propria frase. Non c’era bisogno di specificare gli estremi della propria minaccia, bastava la determinazione che piombava gli occhi dell’uomo. Sarebbe stato capace di battere la terra intera palmo a palmo fino a che non li avesse trovati. E poi li avrebbe infilati vivi nel cunicolo più buio del culo dell’inferno. E Milo non faticò ad immaginarsi anche questa scena.
Kanon annuì. Batté una mano sulla spalla di Stavros, disse: «Arrivederci. E grazie per tutto il pesce», quindi scese.
Da solo a solo con Stavros, Milo non potè che dirgli: «Hai la mia parola», sputare per tre volte sul pavimento della barca e scendere, sentendosi addosso gli occhi di Stavros, dritto al centro della schiena.
Stavros si fece ritirare la cima da Athina, fece un gesto di saluto e manovrò la barca verso il mare aperto per tornare a casa, ed uscire da questa storia.
Quelle erano questioni che non lo riguardavano. E meno ne avesse saputo, più saporitamente avrebbe dormito di notte.
«Dico bene, Vassili?»
Stavros lanciò uno sguardo al gabbiano che si era seduto sul tettino che copriva il posto di guida. La bestia lo fissò coi suoi occhi scuri come la notte senza stelle, sbatté le palpebre e si accoccolò come se fosse nel suo nido. Come faceva suo figlio Vassili quando uscivano per mare, tanti e tanti anni prima.
Tranquillo, Vassili. La tua ragazza è in buone mani, pensò Stavros, manovrando la barra del timone e dirigendosi verso casa.
Nelle strade ci si perde; in cielo e in mare, no.
 
 





Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:
Lo so.
Lo so, mi davate per morta. E invece, come diceva Shaina qualche capitolo fa, la gramigna non muore mai.

È stato un periodo difficile e complicato per tutti. Chi più, chi meno, abbiamo una nuova tacca - e forse più di una - che ci marchia la pelle. Succede. La vita sa fare veramente schifo, ma come si diceva in un film di tanti - troppi - anni fa, non può piovere per sempre. E, sempre per citare la saggezza spicciola, per essere felici occorre saper imparare a ballare sotto la pioggia. Io sono una pessima ballerina, va detto: pesto i piedi come se non ci fosse un domani - tranquilli, li hanno pestati anche a me! - ma l’importante è ballare. Tanto, non c’è una giuria. E  pure se ci fosse, me lo permettete un veracissimo ‘sti cazzi?
Tranquilli, mi laverò la bocca col spaone, più tardi. Dopo il caffè.
Intanto, vi lascio con due piccole noticine, piccine picciò.

La prima: ho deciso di prendere “La Strada di Casa” e di inserirla in questa storia. Come avrebbe dovuto essere sin dall'inizio. Il tema di base è lo stesso, lo sto sviscerando qui. Non avrebbe senso creare un patetico doppione, e per cosa, poi? I prossimi flashback avrebbero trattato lo stesso momento; tanto vale prendere e accorpare tutta la carne disponibile per la grigliata. Chi è così scemo da fare uno stufato con  tagli da grigliata?

Stiano tranquilli i Quattro Gatti che hanno letto, seguito e commentato “La Strada di Casa”: ho salvato le vostre recensioni! Grazie di cuore.


La seconda: durante il primo lockdown, quello di Marzo, ho ricevuto una mail in cui una ragazza mi contattava per farmi sapere cosa ne pensasse di questa storia e come questi capitoli l’avessero aiutata a riempire le ore passate in casa durante la scorsa primavera.
Ricevere questa mail mi ha scaldato il cuore. Sono stata felicissima di poter fare compagnia a tutti coloro che hanno aperto EFP e si sono messi a leggere le mie storie. Siete stati tantissimi - lo vedo dalle visualizzazioni! - e mi ha fatto davvero piacere. Poiché questa ragazza ha scelto un approccio privato, trovo sia giusto rispettare il suo desiderio di anonimato; volevo solo dire a tutti voi che se mi sono decisa a rimettere mano a questa storia - e a ricominciare a camminare, un passo dopo l’altro - è merito suo. Grazie. Di cuore.
E grazie di cuore al mio angelo custode che, in spirito alcolico, mi ha dato una grossa mano per il betaggio. Grazie. Sui ceci e sui cocci - rigorosamente verdi, rigorosamente di bottiglia.
E già che mi ci trovo, Buone Feste!
E mi raccomando: siate coscienziosi!

 

   
 
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