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Autore: Shaara_2    24/12/2020    4 recensioni
Clementina è cresciuta con un lontano parente in un piccolo paese della Sardegna. A ventidue anni, finiti gli studi, sogna di rendersi indipendente e trovare finalmente la sua strada, ma la cattiva sorte che ha rovinato e ucciso sua madre e suo nonno sembra perseguitarla e lei sa di non potersi lasciare andare liberamente ai suoi sogni...
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Presentazione

 

Ciao a tutti, non so perché ma ho avuto il desiderio di scrivere questa storia ispirata liberamente a “Evelina” di Fanny Burney.

Ogni persona o fatto raccontato è frutto della mia fantasia e non è ispirato a niente di reale.

Non so se questa storia possa valere qualcosa, però, se vi va, fatemi sapere che cosa ne pensate...

Grazie a chiunque leggerà questa storia.


Shaara 


 

Capitolo 1

 

 

 

Tutto iniziò, quando zio Antonio ricevette quella telefonata.

“Greta? Come stai? Come mai hai chiamato quest’ora?”

In effetti era inusuale perché la signora Greta, una cara amica di Antonio, non chiamava mai dopo le 22:00. Quel giorno doveva essere successo qualcosa, così mi avvicinai per sentire.

“Oh, no! Mi dispiace tanto, Greta. Mi avevi detto della malattia di Ugo, ma mai avrei creduto che sarebbe stato così presto.”

Quando arrivai accanto a zio mi posò una mano sulla spalla.

“È Greta, te la ricordi?”

“La tua amica d’infanzia? Quella signora grassa che porta sempre un cappello in testa?”

Zio fece un gesto con le dita, poi coprì la cornetta con la mano libera.

“È morto il marito, tieni il telefono e dille qualcosa”

Quando presi il telefono mi sentivo come stordita. Non conoscevo bene il marito della signora Greta, sapevo che era un uomo molto vecchio, molto ricco, che aveva fatto la guerra e viveva fuori Roma con sua moglie. Quando ero piccola Antonio mi aveva portato a trovarli in continente. Avevano una bellissima villa che affacciava sul lago di Bracciano. Era grandissima, con una torretta merlata al centro della casa, un parco enorme e un giardino pieni di fiori. Mi ricordo che una volta incontrai sua nipote, Alina, una ragazzina che aveva più o meno la mia età, capelli scuri, l’apparecchio ai denti e una timidezza che la rendeva seria. Eravamo subito diventate amiche. Lei diceva che ero buffa e la facevo ridere, ma non ho mai capito se dicesse sul serio. Poi, eravamo tornati in Sardegna. Per un po’ c’eravamo sentite, ma con il tempo l’amicizia si era allentata e adesso, dopo quindici anni, eravamo quasi estranee, forse non l’avrei neanche riconosciuta.

“Forza Clem, dì qualcosa a Greta”

“Mi dispiace tanto signora Ruda. Ma adesso che cosa farà? Resterà in quella grande casa tutta sola?”

“Clementina, che domande...” disse zio, riprendendo il telefono. Sentii la sua voce piegarsi per la commozione.

“Comunque Clem ha ragione, non vorrai mica restare in quella grande villa? Perché non torni a Muravera per qualche tempo? È quasi primavera e potresti stare da noi. La mia bambina ha finito gli studi.”

Sollevai un sopracciglio, immaginando quando poco potesse importare alla signora Ruda.

“Sì, sì, ha fatto il liceo G. Bruno. Scienze applicate. Lo scientifico, esattamente”

“Zio…” sussurrai “ho finito l’università non il liceo” ma lui mi fece uno dei suoi proverbiali segni con le dita per farmi capire di non parlare a voce alta.

“Sì, certo che sta cercando un lavoro, adesso è ingegnere.”

“Facoltà di ingegneria Elettrica, elettronica e Informatica” sussurrai a bassa voce.

“Sì, è proprio un genio come sua madre… se solo non fosse stato per quel tipaccio…”

Quel tipaccio di cui parlava zio era mio padre, si chiamava Mauro Sanjust, un tipo cinico e spietato che dopo aver sedotto mia madre l’aveva lasciata incinta e disperata a soli diciannove anni. Zio Antonio diceva che mia madre non era una ragazza fragile e aveva dato la colpa dei suoi disturbi alla giovane età e al precoce abbandono da parte della madre, mia nonna, la mia unica parente ancora in vita. Era anche l’unica che non conoscevo, dato che zio si era sempre rifiutato di incontrarla dopo che era tornata in continente. E questo era strano per uno come Antonio. Lui era un uomo buono e sempre pronto a dare una mano a tutti. In verità non era veramente mio zio. Lui era il patrigno di mio nonno che visse con lui fino a che non fu maggiorenne e si sposò con Dolores Fumagalli, mia nonna, un’attrice milanese un po’ troppo ricca di spirito, per dirla con le parole di zio. Pare che mia nonna, quando era giovane, fosse molto bella. Purtroppo, però, era tanto bella quanto superficiale e dopo neanche due anni di matrimonio, lasciò il mio giovanissimo nonno con mia mamma di pochi mesi, per seguire un giovane pittore francese. Mio nonno non superò mai quell’abbandono e dopo due anni morì. Fu zio Antonio, a quel punto, a crescere mia madre, ma quando lei compì diciotto anni mia nonna tornò a reclamarla. Contro la volontà di Antonio, la portò via da Muravera, dove era cresciuta, trascinandola a Milano dove venne persuasa a sposare un lontano cugino del pittore. Lo chiamavano don Sanjust perché era di origine nobile, ma zio diceva che era per schernirlo poiché, l’unica volta che l’aveva visto, gli era sembrato un uomo altezzoso e pieno di sé. Così pieno di sé da lasciare mia madre incinta e senza neanche un soldo per mantenersi. Pare che allora, mia nonna, anziché sostenerla, l’abbia accusata di non riuscire a tenersi un uomo e sia ripartita per Parigi. Zio Antonio, disperato, pregò mia madre di tornare a Muravera, le pagò il viaggio e si prese cura di lei per tutta la gravidanza, ma con il passare dei mesi cadde in depressione. Fino a quando, qualche giorno dopo la mia nascita, senza una ragione precisa, si addormentò per non svegliarsi mai più. Qualche anno dopo morì anche Maria, la sorella di Antonio.

Da allora zio è stato tutta la mia famiglia. Si è preso cura di me e, pur essendo un agricoltore, mi ha cresciuta senza farmi mancare nulla, assecondando in ogni mio talento. Pochi a dire il vero, per questo ho dovuto impegnarmi tanto per meritarmi la sua stima e adesso, a ventidue anni, sono riuscita a laurearmi e, finalmente, potrò essere autonoma senza più essere un peso e dargli più preoccupazione.

“Ma certo che cercherà un lavoro” disse Antonio ridestandomi con la sua voce. “Lo sta cercando qui vicino, ma a Muravera non cercano molti ingegneri femmine… comunque, non c’è fretta può restare qui con me fino a che non si sistema...”

Alzai gli occhi al cielo, odiavo quando zio cominciava a parlare del mio futuro. Mi aveva fatto studiare con grandi sacrifici, ma sapevo bene che il suo sogno era che mi sposassi e restassi a Muravera insieme a lui. Però, dopo aver passato tutta la vita a studiare, se non avessi neanche cercato un lavoro, probabilmente non avrei mai incontrato qualcuno con cui mettere su famiglia e zio Antonio aveva ormai ottantacinque anni e non sarebbe vissuto per sempre.

“Cosa? Venire da te? Non so cosa dirti, Greta… è una buona idea, nel senso che non resteresti sola, però io non credo che Clem possa allontanarsi tutto questo tempo da Muravera…”

Antonio cominciò a guardarmi con aria tesa.

“Che succede?” gli dissi, avvicinando l'orecchio alla cornetta.

Antonio mise di nuovo una mano sulla mia spalla.

“Greta vorrebbe che andassi a stare un po’ da lei per farle compagnia.”

“Sul lago di Bracciano?”

“Sì, ma tu vorresti andare? Tutta sola, in quella grande casa…”

“Certo! Potrei esserle d’aiuto.”

Antonio tolse le dita dalla mia spalla, curvando la testa da un lato e abbassando la voce.

“Senti, Greta, ci dobbiamo pensare…”

“Come?” sorrisi a denti stretti “Avevo detto che...” Ma Antonio chiuse il telefono, prendendo un fazzoletto dalla tasca per asciugarsi occhi e sudore.

“Non sei pronta, bambina mia. Non sei ancora pronta per lasciare questa casa.”

 

 

   
 
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