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Autore: Fuuma    26/12/2020    25 recensioni
Steve si è fermato, ha srotolato sulle labbra un sorriso, e negli occhi, ha quello sguardo: quello che strappa via un gemito di frustrazione a Bucky e che fa cominciare ogni frase con “Peggy”. E Bucky non ha nulla contro Peggy – la prima sera che l’ha vista avvolta dall’abito rosso che ha sedotto ogni uomo del reggimento, Dio solo sa quanto si sarebbe perso volentieri anche lui tra le morbide colline del suo seno e nel candore delle sue cosce. Ma per ogni volta che Steve ne parla, c’è un proiettile col suo nome inciso che penetra dritto nel petto di Bucky.
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Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James ’Bucky’ Barnes, Steve Rogers
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Warning: what if, canon divergence, '40s, period-typical internalized homophobia

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Intorno a te, ruoto all'infinito

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La prima volta che Bucky se ne interessa, è perché l’argomento è uscito dalle labbra di Steve – la sua voce spolvera via patine di disinteresse, lo cattura, lo trattiene in quel momento, in quella strada, come una cartolina appuntata a una parete di sughero.

La vetrina del pian terreno di uno studio legale si presta alla vista come lo scatto rubato da una rivista al femminile: donne perfette in tailleur blu, labbra carnose e cremisi, chiome fresche di piega, volti scalpellati dalle dita di uno scultore e dita affusolate che si allungano veloci sui tasti di una macchina da scrivere.

Tap tap tap

Il ticchettare dei tasti bussa sul vetro, si affaccia in strada e richiama passanti. Sedute composte alla loro scrivania, sembrano dipinte a olio per la gioia dei loro occhi.

Tap tap tap

Steve si è fermato, ha srotolato sulle labbra un sorriso, e negli occhi, ha quello sguardo: quello che strappa via un gemito di frustrazione a Bucky e che fa cominciare ogni frase con “Peggy”. E Bucky non ha nulla contro Peggy – la prima sera che l’ha vista avvolta dall’abito rosso che ha sedotto ogni uomo del reggimento, Dio solo sa quanto si sarebbe perso volentieri anche lui tra le morbide colline del suo seno e nel candore delle sue cosce. Ma per ogni volta che Steve ne parla, c’è un proiettile col suo nome inciso che penetra dritto nel petto di Bucky.

«Anche Peggy sa battere a macchina.» Puntuale e doloroso, proprio come si aspettava.  Steve lo guarda, ignaro di avergli appena sparato al cuore. Nemmeno si rende conto di quante volte la nomini al giorno – Bucky le ha contate: almeno tre, come fosse un pasto da consumare che Steve si gode ogni volta e a lui, invece, va sempre di traverso.

Affonda una mano in tasca, stringe il pugno, indossa la maschera dell’amico. «Come tutte le dame, pal

Steve si gratta la testa, pensoso. Ha guance colorate d’imbarazzo e occhi rubati al cielo, si posano per un attimo su Bucky, lo accarezzano con tenerezza e poi fuggono lontano, dove non può inseguirli – e forse nemmeno vorrebbe, perché sa che non c’è posto per lui. «Lo so, lo so. Ma, a costo di sentirmi dire che sono strano, è piacevole sentirla battere a macchina. Lo fa di rado, eppure perfino in quello si fa riconoscere e il solo pensiero mi fa sorridere.»

«Non ho dubbi, Romeo.» Bucky si tasta il petto, stringe la maglia e serra i denti.

Conosce fin troppo bene quel dolore: sta morendo dissanguato.

 

 

La prima volta che Bucky prova una macchina da scrivere, è quella di sua madre.

L’ha presa in prestito – ovvero ha aspettato di essere solo in casa per infilarsi di nascosto nello studio di suo padre e tirarla fuori dalla scatola di pelle sotto la scrivania. Non si aspettava fosse così pesante, è un bisonte di plastica e metallo che quasi gli sfugge di mano quando lo appoggia sulla prima superficie orizzontale che trova. Non appena quell’affare sfiora il legno, la casa si rianima e occhi curiosi di un pubblico urlante spuntano intorno a lui come funghi.

I suoi fratelli non risparmiano colpi quando lo prendono in giro e, nei mesi d’assenza di Bucky, hanno affilato la linguaccia.

«Non sei troppo brutto per diventare una segretaria?»

«Visto che non ti serve più, posso avere io la tua divisa da sergente?»

«Se speri che qualcuno ti chieda in moglie e faccia di te una ragazza per bene dovrai impegnarti di più con quel cervello da gallina!»

Piccoli sciagurati, uno non fa in tempo ad andare in guerra che quei mostriciattoli si dimenticano chi è il fratello maggiore!

«La mettiamo così?» Bucky risponde con una tirata d’orecchi allo sfortunato più vicino e una gomitata alla cieca che pungola senza troppa forza il fianco sottile di un altro di loro.

«Vuoi che ti insegni?» Il visetto lentigginoso di Rebecca spunta da qualche parte. È un folletto in rosa, infilata in una ridicola gonna di tulle che la fa somigliare a una piccola bomboniera volante: a ogni sospiro della stanza, le balze si sollevano e la piccola fluttua.

Si appende con una mano alla camicia di Bucky; non c’è traccia di beffa tra le lentiggini del suo visetto.

Le scocca un occhiolino complice. «Aiutami a cacciare a pedate gli altri e ti sarai guadagnata un allievo, signorina.»

Rebecca ride, ma non se lo fa ripetere due volte.

Scacciano i fratelli dallo studio, chiudono la porta e sistemano la macchina da scrivere sullo scrittoio del padre – immobile al centro del tavolo sembra un ordigno che Bucky non ha idea di come disinnescare.

Quando prende posto sulla seggiola, Rebecca gli mostra la posizione corretta delle dita, gli raddrizza la schiena, gli ordina di appoggiare la pianta dei piedi completamente a terra e formare con le gambe un perfetto angolo di novanta gradi.

Nulla di quello che gli viene insegnato gli sembra necessario.

Ha imparato a smontare e rimontare in pochi secondi qualsiasi arma l’esercito gli piazzasse in mano, battere dei tasti su una macchina da scrivere dovrebbe essere una sciocchezza. Eppure, a ogni nuova informazione, fa tempo a dimenticare le precedenti, e sua sorella si trasforma in un caporale in miniatura che lo fa sentire più inadeguato che mai.

Corsa nella sua cameretta (lei e Bucky sono gli unici ad avere una stanza tutta per loro, gli altri fratelli invece attendono paziente che il sergente torni in servizio, così da vincere la sua stanza in una partita a carte), ha recuperato dalla panchetta dei giochi la bacchetta magica che loro madre le ha regalato per compleanno, un bastoncino di legno con una stella di carta colorata, e lo usa per bacchettare la mano di Bucky a ogni errore.

Dopo mezz’ora di quella tortura, Bucky non ne può più.

Stremato, poggia una guancia sui tasti.

Tap tap tap

È una scarica di proiettili che incidono lettere a caso sul foglio infilato nel rullo.

Scrivere a macchina è difficile, tedioso e doloroso. Gli fa male il collo, le spalle esigono un massaggio e non ha risolto un bel niente – non capirà mai come una donna riesca a rimanere seduta al proprio posto di lavoro per tutte le ore richieste.

 

 

La prima volta che Bucky batte un’intera lettera a macchina senza l’aiuto di Rebecca, è qualcosa di personale: è un’inchiostrata di sentimenti riversi su carta.

Il nome di Steve non compare mai, eppure è ovunque. Chiunque conoscesse Bucky Barnes, capirebbe a occhi chiusi che quella non è una lettera d’amore per una delle dame che ha corteggiato a tempo perso.

E definirla lettera non è abbastanza.

È un saggio sull’amore.

Un trattato di cinque pagine e mezzo su cosa voglia dire amare Steve Rogers e odiare Captain America. Non che lo odi davvero, questo mai, ma il Capitano appartiene all’esercito, all’America, al mondo; Steve, invece, un tempo apparteneva alle braccia e alle risate e agli occhi di Bucky. Nessun’altro, oltre lui, aveva mai voluto infilarsi nella sua fragile esistenza.

 

Eri il sole di un mondo disabitato e io il suo guardiano. Mio soltanto, avrei potuto bagnarmi della tua luce e racchiuderti tra le mani senza mai scottarmi, senza mai anelare l’ombra per dormire o cibo per mangiare o acqua per bere. Solo te.

Eri il sole. E io la Terra che intorno a te ruotava. Sempre. Per sempre.

 

Bucky appallottola le pagine.

Non ha il coraggio di stracciarle – anche se dovrebbe, così come dovrebbe ripudiare ogni riga e ogni parola scritta che s’incide nella pelle come una condanna, come un virus, come un marchio che lo taccia a bastardo egoista.

Dovrebbe pensare alla felicità di Steve, invece rimpiange quanto ha perso.

Dovrebbe amare una donna, amare nel modo giusto, invece coltiva dentro sé un morbo perverso e nuovi germogli sbocciano.

Le getta nel cassetto del comodino; le chiude a chiave, lontane dalla luce, dai suoi occhi, da Steve e dal giudizio di Dio. Anche se è tardi e non importa quanto sia passato da Kreischberg[1], non ha mai smesso di sentire al collo la freddezza del cappio che lo trascinerà all’inferno a cui Zola l’ha destinato, dal momento in cui lo ha scelto come cavia.

Quella è anche la volta in cui restituisce la macchina da scrivere a sua madre e dimentica perché se ne sia mai interessato.

 

 

La prima volta che lo confessa a Steve, Bucky è ubriaco. È uno straccio che strizzato colerebbe rum da quattro soldi

(Un altro giro Sergente?)

e che invece lo vomita, piegato in due sul ciglio della strada, dove la neve è una poltiglia grigia.

(Uno per lei, uno per noi e uno per il Natale alle porte!)

Lasciati gli Howlings al pub, è rimasto solo con Steve e la fisarmonica di un vecchio pazzo in lontananza, che suona al freddo e alla notte.

It seems to me, I've heard that song before

It's from an old familiar score

I know it well, that melody

It's funny how a theme recalls a favorite dream

A dream that brought you so close to me[2]

Steve è al suo fianco, gli tiene una mano alla fronte e una alla vita. Lo sfiora appena – dita a pizzicargli la camicia, ad accordargli un’anima che, se solo glielo chiedesse, potrebbe suonare per lui ogni sinfonia mai creata.

«Per colpa del tuo siero, mi sono ridotto a dover bere per entrambi» borbotta Bucky. Non sa quel che dice, strascica parole che rotolano sulla lingua senza che passino prima dal cervello.

«Io ricordo una serata diversa, Buck: tu a ordinare per due e a rubare il bicchiere dalla mia mano.»

«Shssss. Non parlare, parlo io. Non posso sopportare altre chiacchiere sulla Carter, non stasera. Hai già superato la quota.»

«Non… non sapevo tenessi il conto.»

«Uno di noi due doveva farlo, pal

Bucky non pensa.

Dice.

E non è un bene.

«Cosa credi, che non avrei imparato? So battere anche io a macchina ora. E ti ho scritto. Sissignore! Prendi questo, Peggy Carter! Io ti ho scritto.» ride, una risata amara e bagnata di rum, mentre si tira dritto in piedi e spalanca le braccia, senza sapere bene che farsene, come ali di un uccello che non ha mai imparato a volare.

Ma per te, Steve, mi sono buttato comunque e anche se mai ho volato, ho imparato a cadere.

«Buon Dio, ti ho scritto così tante volte da aver consumato i tasti; ho piantato foreste di poemi per te, ho seminato campi di lettere e innalzato selve d’amore. Per te, Stevie, sempre e solo per te.» di colpo riabbassa le braccia – cade, precipita – e la voce si spegne.

E tu nemmeno lo immagini.

 

 

La prima volta che Steve lo affronta, Bucky sta morendo. O vorrebbe già essere tre metri sottoterra, concime per i vermi.

Avrà restituito la macchina da scrivere, ma i tasti si sono trasferiti nella sua testa e a turno colpiscono il cervello, gli incidono capitoli interi di rimorsi.

Tap tap tap

È sopravvissuto alla sbornia, al mal di testa, alla luce del mattino che gli ha bruciato gli occhi e allo spigolo del lavandino che ha preso nel fianco, ma fuori dalla porta del bagnetto, Steve lo uccide col sorriso.

Gli tende un bicchiere d’acqua e una compressa. «Tieni. Mi è stato detto che ieri sera hai dovuto bere per due

C’è un buco nero che ha ingoiato le ultime ore della notte appena passata. Bucky ricorda di essere caduto – volava verso il sole, credeva di esserne immune e il sole ha bruciato le sue ali.

E, soprattutto, ricorda  quello che ha detto a Steve.

Non lo guarda negli occhi quando accetta l’aspirina e cerca d’affogare il rimorso in una lunga sorsata d’acqua. Ma quando ingoia, quello è ancora lì, mano nella mano con la vergogna.

«Per quello che ho detto ieri sera… ero ubriaco e ho detto un sacco di cose senza senso. Dimentica tutto quanto, ok?» agita il bicchiere vuoto e come la sera prima, il suo braccio si muove senza uno scopo, senza una meta, sente il vetro contro i polpastrelli che pian piano scivola via.

Stanno entrambi scivolando via.

Finché Steve non lo impedisce.

La sua mano si stringe intorno a quella di Bucky, con l’altra gli sfila il bicchiere dalle dita e lo appoggia su uno scaffale del corridoio, in salvo. Da lui. Da Bucky – che sta distruggendo qualsiasi cosa tocchi.

Non può credere di aver mandato a puttane la sua amicizia con Steve. Per cosa, poi?

Steve non si allontana e la sua mano stringe più forte. E per un attimo a Bucky sembra sia esattamente la stessa forza con cui ieri lo tratteneva alla vita, solo che era troppo ubriaco per accorgersene e l’alcol ha fatto da isolante, disconnettendo la percezione del calore del suo palmo, dei muscoli gonfi del suo braccio, del respiro così vicino.

«Ieri ti sei praticamente addormentato in mezzo alla strada e ora non mi dai nemmeno la chance di risponderti?» gli chiede.

Bucky scuote il capo. «Perché non ce n’è bisogno.»

«Va bene. Allora facciamo così: ricordi cosa ti ho detto quando ti ho parlato di Peggy che sa battere a macchina?»

Uno, conta in automatico il cervello di Bucky, anche se preferirebbe strapparsi le orecchie pur di non sentire più quel nome.

Ma Dio lo odia e quella è la sua punizione.

Sentire quel nome, ricordare ogni parola di Steve, ricordare di aver odiato la Carter un po’ di più e di aver deciso che avrebbe imparato a battere a macchina.

Che idea stupida.

«Hai detto che il solo pensiero di lei che batte a macchina ti fa sorridere.»

Avrebbe voluto fosse il suo pensiero a farlo sorridere. Avrebbe voluto essere lui.

«E immagino tu non l’abbia mai sentita, o avresti capito che non c’era alcuna accezione romantica in quello che ho detto.»

«C-cosa?» Bucky batte le ciglia. I colori del mattino si incollano alla retina più vividi di quanto non fossero un attimo prima.

«Peggy batte a macchina come fosse su un campo di battaglia. Quando colpisce i tasti, è come ricevere una mitragliata da parte dell’intero esercito britannico. Howard va in giro dicendo che ogni volta che tira fuori i fogli dal rullo, li trova bucati. Sono certo che sia un’esagerazione, ma se l’avessi sentita anche tu, inizieresti a crederlo possibile.»

Lentamente, quasi avesse paura di doversene pentire, Bucky solleva lo sguardo, incontra quello di Steve e il suo sorriso rassicurante.

«Lo troveresti ilare, Buck. Soltanto ilare.»

«Non… non ne sei innamorato?»

«No. La nomino perché la trovo una donna straordinaria, oltre che un’amica preziosa. Ma lo stesso vale per Howard e per i Commandos

Bucky si sente insieme sollevato e schiacciato a terra dalla propria stupidità.

Non sa più nemmeno cosa pensare, cosa provare. Lo sguardo tenero di Steve mentre parla della Carter è ancora lì. Le sue labbra si schiudono sul nome dell’Agente e i suoi occhi

«Quante volte l’ho nominata ieri?»

I suoi occhi

«Eh?»

«Hai detto che tieni il conto. Quante volte?»

«…cinque…»

guardano lui.

«Bucky.»

Bucky si riprende, si schiarisce la gola e ripete a voce più alta: «Ho detto cinque.»

«Bucky.»

«Cosa?»

«Bucky.»

Non osa più parlare, non osa più muoversi.

Steve si china, preme la fronte sulla sua e in un sussurro chiama il suo nome.

«Bucky.»

Quattro.

«Bucky.»

Cinque.

«Bucky.»

Sei.

«Bucky.»

Sette.

«Posso continuare se vuoi, Buck.» Otto. «La quota di oggi non l’ho ancora raggiunta.»

Bucky si tasta il petto con la mano libera, dove un buco grande quanto il suo cuore, si sta rimarginando. Ai suoi piedi tintinnano tutti i proiettili invisibili che il suo corpo ha rigettato e che Steve non gli ha mai sparato.

«Può... può bastare. Non voglio che lo consumi.» si sente mormorare.

Qualcosa gli bagna la pelle, gli riga le guance.

«Stai piangendo?»

«N-no!» si affretta a dire, anche se dalle labbra lecca via sapore di sale. «Mi… mi è entrato qualcosa nell’occhio, probabilmente è la tua stupidità.»

Steve ride piano, soffice, e con una carezza di pollici gli asciuga le lacrime.

«Posso baciarti?» gli chiede.

Nel petto di Bucky, il cuore batte con la forza di un temporale. Quel suo dannato cuore egoista, ricostruito a nuovo.

Dio lo odia.

Ma l’amore di Steve è più grande.

«Sì.»

 

 

Il loro primo bacio, sa di sale e dentifricio.

Sono nel piccolo corridoio del minuscolo appartamento di Steve, gli abiti stropicciati di Bucky puzzano di vomito e rum annacquato, alle sue spalle il termosifone gli sta bruciando la schiena e sul fianco si sta aprendo un livido bluastro, là dove ha colpito il lavandino.

Ma Bucky ha le braccia intorno al collo di Steve e lo bacia come se il suo mondo intero iniziasse e finisse nella sua bocca, e Steve lo stringe, quasi lo solleva di peso e sospira il suo nome all’infinito, come fosse una canzone d'amore.

 

 

La prima volta che Bucky scrive a macchina per Steve, è perché si è innamorato di un’idiota e non può farci niente.

Non può permettersi di sprecare altri fogli di carta, sua madre ha già minacciato di diseredarlo. Inoltre si è assicurato di far sparire ogni prova del suo amore per Steve, consegnandogli la lettera che ha scritto per lui e l’altro, ovviamente, è troppo testone per ascoltar ragioni.

«Perché vuoi farti male per forza?»

«Posso sollevare una motocicletta con una mano sola, non sarà una macchina da scrivere a uccidermi, Buck.»

«No, ma giuro che vorrei farlo io.»

Steve ruota gli occhi al soffitto di una stanza chiusa a chiave.

Ha appoggiato il dorso della mano sul rullo della macchina da scrivere e aspetta che Bucky inizi a scrivere.

«E va bene, peggio per te!» Non ha nemmeno senso discutere con lui.

Le lettere si incidono nel suo palmo una dopo l’altra, sempre nello stesso punto – battiti di cuore e inchiostro che Steve raccoglie con la sua mano. Nella sua mano.

Tap tap tap tap

Tum tum tum tum

Guarda la fuga dello sguardo di Bucky che rincorre i tasti da premere, l’eleganza delle sue dita che si muovono su un percorso predefinito. È lento, non sa usare tutte le dita, ma la musica che compone è pura poesia ed è solo per lui.

Quando finisce di scrivere – un’unica frase – Bucky si allontana dalla macchina e gli sorride con un velo d’imbarazzo.

«Ho scritto “sei proprio un cretino, pal”.» Il sorriso muta in una curva monella.

Steve scruta il proprio palmo e sorride. «Allora ti conviene tornartene a scuola e imparare lo spelling, perché l’hai scritto male.»

Si baciano intrecciando le dita, macchiando entrambi i palmi d’inchiostro e lettere nere – sporche, ed eppure così giuste – accavallate l’una sull’altra:

 

[ 3.093w ]



 

[1] In CA:TFA è il luogo in cui si trovava la facility dell’Hydra che teneva prigioniero Bucky e il 107° reggimento

[2] I've Heard That Song Before di Helen Forrest & Harry James

 


 

L'ho finita. In ritardo, dato che ormai il Natale è passato da due ore, ma sono una Diva ed è mio dovere farmi attendere (#no).

Ho iniziato questa fic mesi e mesi fa, per un contest che, potrete benissimo indovinare, si intitolava "La prima volta". Such a surprise. Tra i prompt che mi erano capitati, c'era quello di "macchina da scrivere" che ho amato come pochi e non solo perché è stata l'ennesima scusa per scrivere di WII!Bucky. Quando però ho iniziato a scrivere, l'idea e quello che avevo buttato giù non mi sembrava più così interessante come pensavo e ho finito per ritirarmi. Soltanto qualche giorno fa ho deciso di riprendere in mano questa fic, darle una chance e completarla.

Ultimamente, per quanto lo voglia, non riesco a scrivere nulla che mi piaccia su questi due. E mi mancano come l'aria.

In questa fic probabilmente ci saranno fili che ho tirato e dimenticato di ricucire più avanti, ma più o meno è tutto voluto e, anche non fosse, va bene così. Questa volta mi accontento così.

A chi è arrivato fin qui, a chi ancora non si è arreso davanti alla mia infinita lentezza e ancora ha piacere a leggere le mie fic, grazie di cuore. You da best.

 

Merry Christmas

   
 
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