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Autore: Sinnheim    26/12/2020    0 recensioni
Le favole sono spesso considerate cose per bambini, storie simpatiche per intrattenere i più piccini. Gli uomini hanno ormai dimenticato il fondo di verità che si cela dietro le loro parole, leggende talmente antiche da raccontare la nascita di tutto.
Questa è una storia senza fine, sempre uguale: narra le vicende dell'uomo in un ciclo interminabile attraverso gli occhi degli eterni cacciatori. Una favola per una buona morte.
Genere: Dark, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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UNA FAVOLA DELLA BUONA MORTE

 

 

C'era una volta l’Oltre, il regno delle anime. A quel tempo non vi era alcuna giustizia in esso: accoglieva imparziale tutti, senza tenere conto delle azioni compiute in vita. Così, i malvagi si mischiarono ai virtuosi, burlandosi di quest'ultimi per aver seguito un’esistenza retta ed essere morti immacolati, mentre loro gioivano nell'essere impuniti per tutti i crimini commessi.

I puri di cuore si sentirono mortificati da tale insolenza, tanto da rivolgere il loro pianto al Cielo Infinito, pregando che qualcuno li ascoltasse: il Dio, quello che avevano sempre venerato. Il loro lamento non fu mai consolato da divinità alcuna, ma qualcun altro condivise quelle lacrime e le fece proprie, addolorato.

 

 

C'era una volta un povero dannato: conduceva una vita triste e vuota nella sua vecchia città metropolitana. Era un uomo come tanti altri, incattivito dalla realtà che lo aveva cresciuto nel suo arido abbraccio.

Le favole che ascoltava da bambino nulla poterono per fermare l'egoismo del giovane, il quale non sapeva distinguere il bene dal male ma, al contrario, tutto era dovuto a lui soltanto.

Voleva avere tutto per sé: prima solo le favole, poi volle sempre di più, e di più e di più, fino ad infliggere atroci sofferenze a chi non cedeva ciò che aveva di più prezioso.

Aveva ormai dimenticato da tempo quelle storie che tanto adorava, non avendone mai capito fino in fondo il significato: era troppo accecato dal desiderio di essere l'unico a poterle ascoltare per cogliere i loro insegnamenti. E se è vero che l'albero che nasce storto non può che crescere altrimenti, il ragazzo egoista diventò un uomo egoista, votando la sua vita a sé stesso.

Gli anni passarono: il suo corpo divenne maturo, ma non i suoi ideali. Ormai su un sentiero costellato di puro ego, l'uomo non tornò mai indietro sui suoi passi, fermamente convinto di non star facendo niente di male.

D'altronde, era poi così terribile togliere qualcosa di poco valore a tante persone? Ne avrebbero fatto a meno tranquillamente. Almeno, questo era ciò che si ripeteva di continuo.

Un giorno uguale agli altri, egli si preparò ad affrontare la sua sporca monotonia. Ciò che non poteva sapere, tuttavia, era che loro lo stavano osservando. Loro, le favole di quando era bambino. Dimenticate nel lontano passato e infangate dal suo comportamento, esse tornarono in questo mondo per giudicarlo.

Non appena uscì di casa, un lurido e piccolo appartamento della periferia urbana, l'uomo si accorse fin da subito di essere seguito dalle ombre: correvano leste dietro di lui, impercettibili e chiare allo stesso tempo, forme animalesche facevano dei suoi passi i loro.

Urlò di terrore quando il Lupo balenò davanti a lui. Era uno spirito bianco come la neve, con le fauci rabbiose e gli occhi scarlatti; delle rune nerissime e brillanti di una cultura sconosciuta solcavano la superficie come se fossero scolpite nella sua carne.

Sul dorso della belva, il Corvo sussurrava parole pietose verso lo sventurato, come se avesse emesso una sentenza. Speculare al compagno, le sue piume erano scure come la pece ed era grande quanto un’aquila; il suo corpo riproponeva le stesse incisioni dell’essere candido, bianche come pittura fresca.

Senza che nessuno potesse sentirlo, l'uomo fu sbranato dal Lupo fino a perdere i sensi, in un mare di dolore e cremisi.

Quando riaprì gli occhi si alzò di scatto sul suo letto, portandosi istintivamente le mani al volto per sentire le ferite, ansimante e madido di sudore come se avesse appena smesso di correre. Con suo stupore, tuttavia, era del tutto illeso: non una cicatrice solcava la sua pelle.

"Avrò fatto un incubo" disse tra sé e sé l'uomo, grato di non avere più quelle fauci sul suo collo.

Riprese le attività quotidiane: fece colazione, si preparò per raggiungere il suo posto di lavoro e uscì di casa, con una tale pesantezza nel cuore da farlo sentire fuori posto in mezzo agli altri.

La già poco curata città in cui viveva sembrò come spenta al suo passaggio, tanto che ognuno si muoveva pigramente come se il tempo avesse perso di significato. Quasi nessuno correva verso le proprie occupazioni come era solito vedere, mentre quelle poche persone che lo facevano sembravano così stanche e abbattute.

Gli altri no. Sorridevano felici guardando in giro, parlavano tra loro con una gioia aliena.

"Devo essere davvero in ritardo. Forse, questa gente esce quando io sono occupato" pensò l'uomo stralunato.

Si fermò a scrutare attentamente il suo orologio da polso: le lancette erano immobili, imprecò a bassa voce per essersi scordato di caricarlo.

Continuò quindi a camminare, sempre più disturbato da ciò che accadeva intorno a lui; quelle persone così strane si voltavano per guardarlo, alcuni scuotendo la testa, altri intonando parole di misericordia.

«Ma che diavolo avete da guardare?» urlò seccato, ma gli altri non risposero.

Non tutti, però, sembravano attratti dalla sua figura. Molti non si accorsero nemmeno della sua presenza, continuavano le loro attività come se niente fosse.

Alterato da quella situazione così assurda, decise di andare da uno di questi per chiedere cosa stesse succedendo, per sapere chi fossero quegli individui così molesti.

Provò a chiamare un ragazzo, ma quello sembrò non aver sentito. Pensò che, forse, aveva le cuffiette nelle orecchie, così mise la mano sulla sua spalla e lo scosse. Il giovane si girò, scocciato: guardò dritto negli occhi l'uomo, sbuffò sonoramente e ricominciò a camminare, non degnandolo minimamente di attenzione.

Egli si arrabbiò, bestemmiando furioso: cosa stava succedendo quella mattina? Perché erano diventati tutti così assenti? Sull'orlo della disperazione e confuso, decise che era meglio tornare a casa.

“Forse mi sono ammalato e sto delirando, succede di frequente in questo quartiere inquinato dallo smog”.

Ebbe l’impressione che la città si fosse divisa in due parti: Quelli che Fissavano, e i Ciechi. L'ansia e il senso di alienazione crebbero sempre di più, l'uomo iniziò a essere paranoico: che fosse tutto un complotto nei suoi riguardi? Che fosse qualcuno in cerca di vendetta? Terrorizzato al limite dell'ossessione, iniziò a correre verso casa, evitando accuratamente gli occhi indagatori degli strani figuri.

Ciò che non riusciva a capire era che, come la maggior parte degli umani, egli peccava di presunzione nella sua illusione di essere intoccabile dagli eventi della vita terrena. 'Se non ha conseguenze immediate, non mi riguarda' pensava sempre prima di portare dolore a un suo fratello. La sua mente offuscata dall'ego non poteva vedere cosa c'era oltre.

All’improvviso, qualcosa di familiare attirò la sua attenzione: proprio come nel sogno, qualcosa lo stava seguendo nelle ombre, di nuovo. Si voltò freneticamente in tutte le direzioni cercando di intercettare la minaccia, ma le presenze erano in nessun posto e ovunque allo stesso tempo. Non poteva scappare.

Rimase quindi immobile e si lasciò cadere in ginocchio con le lacrime agli occhi, chiedendo disperatamente perché gli stessero succedendo tutte quelle cose senza senso. Il suo cuore ebbe un sussulto quando ricevette la risposta da una voce ruvida e gutturale, così profonda da far accapponare la pelle.

«Tu lo sai il perché».

Di nuovo, il Lupo e il Corvo apparirono dal nulla come miraggi nel deserto, senza possibilità d'appello; come un crudele déjà-vu, la belva saltò alla gola dell'uomo, devastando la sua carne e il suo spirito con zanne affilatissime.

E, come la prima volta, egli si svegliò di soprassalto, urlando con la morte negli occhi. Stavolta, però, con le ferite che pulsavano ancora. Disperato, corse in bagno per pulirle con acqua fresca: più lavava via il sangue, più il bruciore si faceva intenso, a tratti quasi insopportabile. In preda al panico, decise di lasciarle così com'erano per evitare di morire di dolore, insozzando la sua casa di cremisi.

L'uomo si rassegnò all'inevitabile, conscio del fatto che non si trattava più di un sogno, ma del crudele scherzo di qualche divinità: solo un essere superiore poteva prendersela con uno come lui o, almeno, era quello che la sua testa gli diceva per non cadere nella follia.

Uscì di casa grondando sangue come un animale sgozzato; si incamminò lungo il marciapiede, il quale dava sulla piccola strada secondaria che divideva due palazzine del complesso in cui abitava.

Apparentemente, intorno a lui niente era cambiato: i Ciechi e Quelli che Fissavano erano ancora lì. Sostavano tutti sulla grande strada principale che portava in centro, quest'ultimi ancora più insistenti per via delle ferite aperte. Nonostante ciò, egli pensò che l'unica cosa che potesse fare era esplorare i dintorni, pregando di capire qualcosa di più sulle sue condizioni.

I Ciechi, sostanzialmente, non avevano cambiato i loro atteggiamenti: nonostante la scia scarlatta che l'uomo lasciava dietro di sé, infatti, continuavano comunque a ignorarlo, alcuni venivano disgustati dalla sua presenza. Provò a richiamare la loro attenzione in tutti i modi, perfino bloccandogli la strada, ma quelli lo scansavano con violenza.

Sconsolato, si rimise in piedi dopo l'ennesimo strattone e osservò colui che lo aveva respinto. La faccia gli era familiare e, infine, rimembrò: era uno di quelli che aveva truffato, uno dei tanti.

Nel momento in cui la consapevolezza attraversò la sua mente, fu folgorato da un dolore intenso alla testa: una cascata di pensieri, emozioni e ricordi che non gli appartenevano corsero veloci davanti ai suoi occhi, lasciandolo stremato e ansimante.

Non fu difficile capire che quella povera anima in pena gli stava facendo provare il dolore che egli aveva inflitto. Se per l'uomo non era altro che un piccolo furto senza importanza, per il derubato fu una mancanza terribile, tanto che spese molto del suo tempo nel cercare di rimpiazzare il vuoto lasciato.

Senza nemmeno rendersene conto, iniziò a piangere. Quanti ne esistevano come quella persona? Quanti versavano nelle stesse condizioni?

Percepì le ombre che lo stavano tediando, era come un brivido gelido sulla schiena che lo avvertiva del pericolo imminente: il Lupo e il Corvo erano nei paraggi, ne era ormai terrorizzato.

Si fece coraggio e scappò, ignaro perfino della direzione da prendere, l'importante era correre in cerca della salvezza.

Ciò che fece, invece, era esattamente quello che non doveva fare: il Lupo si sentì stuzzicato dall'idea della caccia spietata, tanto che ignorò il suo compagno e iniziò l'inseguimento, famelico e felice.

L'uomo poteva sentire il respiro dell'essere dietro di sé: non esisteva modo alcuno di seminarlo e far perdere le sue tracce. Il Lupo si beò di tale dolore, non c'era niente di più bello per un cacciatore di sentire la sua preda rantolare.

Dopo un lasso di tempo interminabile, la belva decise di essersi divertito abbastanza: saltò alla schiena dell'uomo, atterrandolo, per poi azzannarlo di nuovo, ancora e ancora. Dopo ogni assalto le ferite diventavano più profonde, il dolore diveniva sempre più intenso.

Quella volta, egli riaprì gli occhi lentamente, stanco ed esausto: ormai non c'era più niente di pulito nel suo appartamento. Si alzò barcollando senza più nemmeno struggersi per l'accaduto; tornò anzi in centro città, l'unico posto in cui poteva avere risposte.

Era come se, dopo ogni aggressione, lui acquisisse sempre più consapevolezza della volta precedente, tanto che iniziò a notare stranezze già fuori la sua abitazione: cortei lunghissimi formati da Quelli che Fissavano sfilavano per le strade, indisturbati da tutti. Non facevano che cantare lodi al Corvo dalle rune bianche, ringraziavano di essere stati benedetti dall’animale.

"Forse stavolta parleranno con me" pensò il malridotto dannato. Provò ad avvicinare uno di loro con parole gentili, come non aveva mai fatto con nessuno.

«Scusami, tu riesci a vedermi?»

«Certo, ho pietà per te» disse sorridendo il vecchietto a cui si era rivolto. L'uomo sentì di nuovo la speranza rinascere.

«Quindi, gli altri non mi parlano perché non ne hanno?»

L'anziano mise una mano sulla spalla del più giovane, con espressione amara sul volto.

«Non puoi biasimarli per questo, figliolo».

«Perché? Cosa ho fatto?»

«Tu lo sai il perché» disse duramente il vetusto signore.

Per un secondo, l'uomo ebbe l'impressione di aver sentito il Lupo parlare con quella voce terribile. Nonostante tutto, non poteva farsi sfuggire quell'unica occasione di avere delle spiegazioni, anche se ciò voleva dire scendere a patti con i suoi peccati.

«Ho fatto cose terribili, me ne sto rendendo conto. Posso capire che i tuoi compagni non vogliano parlarmi. Ma gli altri? Loro nemmeno mi vedono, e il Lupo mi dà continuamente la caccia. Puoi aiutarmi a capire cosa succede?»

«Conoscere la verità significa affrontarla. Credi di essere pronto a farlo?»

In cuor suo, l'uomo non conosceva la risposta a quella domanda. In preda al panico avrebbe voluto gridare di sì, tutto per fermare l'agonia che stava vivendo, ma un dubbio si insinuò nel suo cuore: e se la verità fosse stata più terribile? Se averci a che fare avesse causato più dolore?

Rifletté a lungo sulla questione, confuso sul da farsi: poteva non rischiare e rimanere in quel limbo, oppure poteva farsi coraggio e provare a salvarsi con tutte le sue forze. Terrorizzato, prese la sua decisione.

«Dimmi cosa devo fare» chiese al vecchietto, il quale sorrise felice nel vedere un reietto provare a diventare migliore di quello che era.

«Devi andare dalla Cantastorie. Vivi qui, no? Conoscerai sicuramente il teatrino del parco dove i bambini vanno a sentire le favole».

Le favole, quelle stesse storie che voleva avere tutte per sé. In qualche modo, l'uomo sentì il cerchio chiudersi intorno a lui, come se tutta quella follia fosse diventata improvvisamente un'ovvietà. L'anziano riprese la sua marcia insieme ai compagni, cantando con più vigore e gioia nel cuore.

«Sia lodato il Corvo della Misericordia! Che il suo canto possa aver pietà di te!»

Egli si mise quindi in moto, verso il centro della città. Era lì che, da bambino, andava a sentire le favole di una giovane donna, ormai non ne ricordava più nemmeno il volto.

Ogni passo in quella direzione era come una catena in più alle sue caviglie. Man mano che la sua unica speranza si faceva più vicina, il peso dei suoi peccati si faceva sempre più pesante: poteva sentirli tutti sulle sue spalle.

Le ombre lo seguivano quiete, come se lo stessero scortando verso la sua meta. Il Lupo ringhiava sommesso, ma non attaccò mai durante il tragitto, mentre il Corvo sussurrava delicatamente parole di incoraggiamento, la sua voce era cristallina e soave.

Quando arrivò a metà del percorso, sulla via principale costeggiata da secchi arbusti, l'uomo dovette avanzare carponi, tanta era la pesantezza che premeva sul suo corpo. I due esseri smisero perfino di nascondersi ai suoi occhi: poteva infatti vederli camminare sul ciglio della strada, oppure sostare in lontananza sulle panchine a scrutare tutti loro.

Sì, loro. Spezzati come lui, tutto intorno alla sua figura comparvero altri uomini e donne, altre anime azzannate dal Lupo e deformate dalla gravità delle loro colpe. In quel momento, capì che non era mai stato solo nel suo tormento, ma il suo ego tossico gli aveva impedito di vederli.

Essi sgranarono gli occhi alla vista degli altri, tutti peccatori nella medesima situazione: come un corteo funebre, si stavano dirigendo affannati verso il centro della città.

Dopo tempo incalcolabile, arrivarono presso il teatrino allestito in un parco verde coperto dagli alberi; i bambini correvano felici a prendere posto sulle piccole sedie colorate, impazienti di veder arrivare la Cantastorie e godersi le loro favole preferite.

I corrotti si mischiarono ai puri, rimanendo comunque in disparte per non contaminarli con la loro sozzura. L'uomo non poté far a meno di ricordare quando era lui uno di quei pargoletti, quando era lui che giocava spensierato sull'erba profumata e aspettava smanioso l'ora dei racconti.

Giorni lontani, ormai perduti. L'aria si riempì di un canto lugubre, un pianto sconsolato di anime che si erano rovinate con le loro mani. I bambini non sentivano minimamente i lamenti di coloro che avevano accanto, tanto che urlarono felici quando arrivò la giovane donna con in mano i libri da loro tanto adorati.

Sorridente, la Cantastorie si sedette comoda osservata dalle facce sognanti dei piccini, ignara della presenza dei dannati piegati forzatamente sulle loro ginocchia, quasi in preghiera davanti alla sua figura.

Aprì il primo volume dalla copertina dipinta: un bellissimo disegno del Lupo e del Corvo ornava la filigrana, talmente suggestivo da attirare inevitabilmente l'attenzione dei presenti. Con espressione placida, iniziò a leggere.

«C'era una volta l’Oltre, il regno delle anime. Allora non vi era differenza tra l'essere vivi o morti: tutti vivevano in egual modo, finché il sonno inappellabile non li metteva a riposo per sempre, in un dormiveglia infinito. La loro esistenza non aveva scopo, essi erano e basta, generando immensa tristezza. Al Cielo essi levarono i propri lamenti, e Lui ne fu impietosito.

C'erano una volta due fratelli, generati dalla misericordia del Cielo Infinto: uguali ed opposti, essi portarono con loro il cambiamento, la differenziazione di tutte le cose. Vita e Morte iniziarono a plasmare il mondo secondo il loro volere, insegnando ai suoi abitanti cosa volesse dire vivere una vita propria, ma limitata. Così, gli uomini impararono a usare il tempo che avevano per cercare la propria felicità, trovando la loro ragione di esistere nel mondo e guadagnandosi il proprio posto nell'aldilà.

L’Oltre venne scolpito ad immagine e somiglianza del mondo terreno: esso era come un velo che copriva la materia, una sola dimensione che conteneva due realtà separate, seppur simili. Fu nel momento in cui esalarono l'ultimo respiro che gli uomini capirono che non tutto era come doveva essere, che il paradiso promesso dai fratelli non era ciò che avevano chiesto.

Non vi era alcuna giustizia in esso: accoglieva imparziale tutti, senza tenere conto delle azioni compiute in vita. Così, i malvagi si mischiarono ai virtuosi, burlandosi di quest'ultimi per aver seguito un’esistenza retta ed essere morti immacolati, mentre loro gioivano nell'essere impuniti per tutti i crimini commessi.

I puri di cuore si sentirono mortificati da tale insolenza, tanto da rivolgere il loro pianto al Cielo Infinito, pregando che qualcuno li ascoltasse: il Dio, quello che avevano sempre venerato. Il loro lamento non fu mai consolato da divinità alcuna, ma qualcun altro condivise quelle lacrime e le fece proprie, addolorato.

Morte vide quella ingiustizia e non poté ignorarla, come invece stava facendo il suo genitore. Benedetto dalla sorella Vita, Egli decise quindi di mutare forma, diventando Morrigan.

Morrigan, La Signora del Sonno Eterno; per amministrare la giustizia tanto agognata, ella divide il suo spirito in due parti autonome e distinte, pur rimanendo cosciente di essere una cosa soltanto.

Il Corvo dona una morte rapida e indolore a coloro che hanno un’indole buona, raccogliendo le loro anime con le sue zampe delicate; il Lupo insegue e prende la vita dei malvagi, infliggendo grandi pene e sofferenze come punizione per i peccati più oscuri.

Essi sono cacciatori immortali, traghettano le anime dal mondo terreno all’Oltre, incessantemente. Qui, i morti continuano la loro non vita accanto ai vivi, invisibili da quest'ultimi, senza avere mai la possibilità di vedersi né toccarsi.

Coloro benedetti dalla misericordia del Corvo non sentono dolore, provano solo felicità e beatitudine; le loro menti sono cullate per sempre dai ricordi più dolci, avendo anche la possibilità di vedere le loro opere buone fruttare nel mondo terreno, come degli spettatori in un teatro.

Coloro presi dal Lupo, invece, vengono perseguitati fin quando non hanno espiato i loro peccati. Nel momento in cui avranno fatto proprio tutto il dolore che hanno inferto, allora saranno liberi dalla caccia incessante.

Sacrificando la sua identità, Morte portò giustizia in questo mondo e in quell'altro».

Finalmente, l'uomo capì: la prima volta che fu aggredito, morì tra le fauci del Lupo per via delle sue cattive azioni, giudicato da entrambi gli esseri senza possibilità di redenzione. Fu poi trasportato nell’Oltre per essere punito, ove si trovava dal tragico evento in poi.

Si guardò intorno, con l'animo devastato: i Ciechi non erano altro che i viventi, impossibilitati nel vedere un morto nell'aldilà, mentre Quelli che Fissavano erano le anime benedette dal Corvo.

Fece un profondo respiro, stanco, ma consapevole. Riconobbe di essere una persona ignobile e di meritare quella punizione. Il ragazzo di cui aveva visto i ricordi era solo uno dei tanti, tantissimi a cui aveva tolto qualcosa. Doveva trovarli tutti, e riprendere il dolore che aveva causato.

Si girò pronto ad andare, quando Morrigan si palesò davanti a lui. Sapeva cosa lo aspettava: chiuse gli occhi, aspettando le zanne del Lupo.

 

C'era una volta una favola della buona morte, priva di un finale: questo è un ciclo immortale in cui la storia si ripete senza tempo, dove il racconto di un singolo uomo è il racconto di tutti gli uomini, poiché la caccia non avrà mai fine.

 

  
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