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Autore: shilyss    30/12/2020    48 recensioni
In quella stessa notte, in quell’identica casa sulle rive del fiordo, si erano amati, molto tempo prima. Senza promesse, trascinati solo da sguardi roventi e frasi secche e pungenti, si erano scoperti, cercati. Voleva appartenergli e che lui le appartenesse, ma non aveva osato dirglielo.
“Questa è la notte dei fantasmi,” sussurrò come se volesse avvertirlo.

La notte del Solstizio è l'unica in cui gli spiriti possono camminare tra noi. Sigyn ha rinunciato a festeggiare e, da molti anni, attende.
La storia partecipa all’iniziativa “For God’s sake, say something” indetta da Fuuma sul forum Ferisce la penna.
Genere: Angst, Dark, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Sigyn
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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La danza degli spiriti

I had a dream that you were mine

I’ve had that dream a thousand times

A thousand times, a thousand times

I’ve had that dream a thousand times

 

I left my room, on the west side

I walked from noon, until the night

I changed my crowd, I ditched my tie

I watched the sparks, fly off the fire.

 

(A 1000 times, Hamilton Leithauser + Rostam)

 

Ci sono notti che sono più tristi e lunghe delle altre, in cui le tenebre, avide, inghiottono il sole e si rifiutano di lasciarlo andare, proprio come farà Fenrir durante il Ragnarok, quando gli dèi combatteranno l’ultima delle loro battaglie – così diceva una profezia antica, la Voluspa, che lei, a volte, recitava mentre filava la lana, davanti a un fuoco incapace di scaldarla[1]. Ne mormorò i versi anche in quella sera stregata, in cui il tempo sembrava essersi congelato insieme ai rami protesi degli alberi contorti e in cui persino i fiocchi di neve danzavano irreali. Tutta Asgard era ricoperta da un mantello bianco e spesso ed era l’ora in cui le ombre prendevano forma e consistenza, i fantasmi camminavano, per l’unica volta all’anno, sulla terra. Per tenerli lontani esistevano un’infinità di trucchi – creare un recinto invalicabile sigillando porte e finestre col sale, placare gli spiriti con dolcetti lasciati sulla tavola imbandita prima di andare a dormire, ma Sigyn non fece niente di tutto ciò.

Forse, sperava che uno di essi, il più beffardo e crudele, bussasse alla sua porta mostrandole, un’altra volta ancora, il suo portamento fiero e sfrontato, da principe perduto.

Loki Laufeyson.

 

Si accoccolò sulla poltrona che teneva accanto al camino, con i piedi sollevati per non toccare terra e un vecchio libro di fiabe tra le mani infreddolite. Il fuoco guizzava come se lottasse contro il gelo che regnava nella stanza e di fuori – il fiordo si era ghiacciato, trasformandosi in un’incantevole prigione di bianco, irraggiungibile, insormontabile. Ma anche se l’acqua non si fosse trasformata in una lastra dove i lupi affamati scivolavano ululando con dispetto, Sigyn non si sarebbe allontanata da quella casa eternamente fredda. Non voleva – o non poteva, non lo ricordava più.

C’era stato un tempo in cui Frigga la invitava a trascorrere a palazzo la ricorrenza del solstizio d’inverno. In cui Thor, con un sorriso allegro e le braccia cariche di cibo e coperte, le raccontava qualche prodezza particolarmente divertente con lo scopo manifesto di strapparle un sorriso. A volte, lei, pur rifiutando di seguirlo ad Asgard, gli preparava una tazza di idromele caldo e gli chiedeva con un sussurro basso di raccontare ancora – di raccontarle di lui.

E il dio del tuono, allora, accettava il calice e, dopo un sorso lungo e stordente, parlava del fratello perduto sforzandosi di usare un tono neutro e incolore. Ma il rimpianto s’infiltrava nelle sue frasi, caricava le sue pause insieme all’ira, e gli occhi di Sigyn si riempivano di lacrime, le sue labbra si incurvavano in un sorriso dolce e distante. Il primo figlio di Odino la cercò per molti anni finché, a un tratto, come tutti, si arrese.

 

Sì, la notte del solstizio, Sigyn non festeggiava mai come gli altri. Rimaneva a fissare le lingue di fuoco o fingeva di leggere, prestando attenzione a ogni rumore, scricchiolio, soffio di vento. Si accertava che ci fossero i dolci sul tavolo, che il sale non impedisse ai fantasmi di entrare. A volte spalancava la porta nonostante fuori nevicasse e gridava frasi esasperate all’oscurità e alle tenebre impietose. Poi, dopo aver fissato il buio a labbra strette ed essersi avvolta nel mantello, si rendeva conto dell’inutilità del suo gesto e rientrava senza voltarsi indietro, con addosso un gelo capace di ghiacciarle le vene e il cuore, ma non i pensieri. Coloro che abitavano nelle case che circondavano il fiordo e quelli che vivevano nel palazzo di Odino dicevano che era pazza e aveva perso la ragione. La chiamavano strega e temevano persino di avvicinarsi alla casa sempre più lugubre dove lei viveva nella sua ostinata solitudine, nell’attesa, vana e disperata, di un uomo che non sarebbe mai più tornato, di cui lei non riusciva più nemmeno a pronunciare il nome.

Sigyn era stata una bambina strana e silenziosa, col naso perennemente affondato nei libri, gli occhi persi in dettagli che per tutti gli altri sembravano non essere importanti. C’è chi dice che fu allora che conobbe il dio dell’inganno. Altri, invece, sostengono che il loro primo incontro avvenne quand’erano ragazzi, durante qualche festa o nelle tende dei guaritori che odoravano di erbe medicinali e strane misture. A lei sembrava che tutto ciò fosse avvenuto secoli prima, in un tempo così distante da appartenere a un’altra vita. Una che, per quanto si sforzasse, non riusciva a dimenticare – non poteva lasciar andare.

 

Così, anche quel solstizio scelse di chiudersi nella sua ostinata solitudine. Mentre Asgard e tutte le dimore degli Æsir si illuminavano di migliaia di calde luci, lei rimase nella penombra delle sue poche stanze, a fissare parole e frasi di cui non riusciva ad apprezzare il senso, a ricordare quando partecipava ai banchetti dove si mangiava, beveva e cantava per tutta la notte, certa che, come sempre, nessuna ombra avrebbe turbato la quiete stregata e irreale della sua casa dimenticata vicino a un fiordo di ghiaccio.

Fuori, il vento che imperversava fin dal primo pomeriggio, aveva preso a soffiare con impietosa violenza contro le imposte sprangate e cigolanti, a infuriare contro gli alberi della vicina foresta. Era un vento di tormenta che portava neve e gelo dalle montagne che confinavano con Jotunheim. A un tratto, il fuoco guizzò e si arrotolò nel camino, sussultando, e due colpi secchi fecero sobbalzare Sigyn.

Provenivano dalla porta. Si voltò, senza osare nemmeno poggiare la punta dei piedi sulle assi di legno del pavimento. Il cuore perse un battito; decise che era stato il vento. Si sforzò di posare di nuovo l’attenzione sulla fiaba che stava leggendo, ma il picchiare alla porta riprese, assumendo la forma inconfondibile di un bussare arrogante. Tre colpi secchi e decisi, quasi impazienti.

Si alzò senza osare sperare e, prima di poter muovere un solo passo, l’uscio si spalancò con violenza, facendo entrare fiocchi di neve, vento e l’ombra altera di un uomo di cui lei non aveva mai dimenticato né lo sguardo rovente né il sorriso beffardo.

Gli spettri non bussano alle porte, pensò. Scivolano nel buio e prendono forma e consistenza, portando con loro ciò che rimane di ricordi, sogni, palpiti del cuore. Rimase in piedi di fronte alla poltrona, senza accorgersi che il libro era caduto a terra.

L’ospite si scrollò la neve dal mantello e tiro giù il cappuccio che gli copriva il volto. Una scintilla di curiosità gli illuminava gli occhi di un verde chiarissimo e leggermente cangiante, che virava all’azzurro. Aprì le braccia come per farsi ammirare meglio e mosse un paio di passi verso di lei. Sigyn vide che sul pavimento di legno c’era traccia d’acqua e deglutì, incapace di rispondere, spaventata all’idea di formulare nella mente ciò che le suggeriva l’evidenza, forse.

“Non mi aspettavi?” le domandò l’ospite, scrutando l’arredo fin troppo semplice e dimesso e avvicinandosi a una libreria stretta. Passò le dita sui dorsi consunti dei volumi disposti con ordine e raccolse, con un gesto fluido ed elegante, quello che le era caduto dallo stupore. Glielo porse. “Era la tua festa preferita, questa. Pensavo di trovare candele e luci e idromele a volontà. Ricordo che mettevi il vischio sopra ogni porta e amavi la compagnia.”

Sigyn si morse le labbra. “Era tanto, tanto tempo fa. Poi, tu te ne sei andato.”

“E tu hai scelto di rinchiuderti qui, in questa capanna desolata che ha il solo pregio di averti vista sorridere,” la lusingò con un ghigno, tutto sommato mesto, quasi iroso. Era come se rievocare inverni lontani e felici, vissuti insieme, riaprisse una ferita ancora dolente, scatenando lo sdegno del fiero principe di Asgard.

Fece un passo indietro e lui sospirò, tentando di rettificare. “Rendiamo questo posto un po’ più caldo e accogliente, mia signora. Ti va?” Senza attendere la risposta, mormorò un paio di rune e il capanno da caccia si trasformò in un luogo incantato. Ricchi rami di vischio e di ginepro decoravano le porte, i pochi mobili, le mensole della libreria e una miriade di candele regalarono improvvisamente una luce calda e soffusa all’ambiente. Persino il fuoco nel camino guizzò con più forza, scaldando le mura impregnate di umidità. La tavola stretta e traballante si riempì di primizie, cibi e corni d’idromele colmi fino al bordo.

Ritta come un fuso, Sigyn seguì la nascita di quelle illusioni tanto vivide da sembrare reali, chiedendosi come fosse possibile che un fantasma riuscisse a usare la magia. Avvicinò la punta delle dita al caminetto e avvertì il caldo tepore sprigionato dalle fiamme. “Cosa stai facendo, Loki? È magia o un’illusione?”

Le rivolse un sorriso furbo e disarmante. “È così importante?”

Sigyn scosse la testa. No, forse non lo era. “Dove sei stato, tutto questo tempo?”

“Ho viaggiato, mia signora. Ho attraversato il tempo, le dimensioni, le galassie. Ho visto civiltà di cui nessuno, ad Asgard, conosce l’esistenza. Ho combattuto guerre di cui non m’importava nulla e altre su cui ho puntato ogni cosa,” chiosò cantilenante, senza mascherare una punta d’orgoglio. Osservava il suo prodigio e lei come se facessero parte di un arazzo tessuto dalle fate.

“Quando sei caduto dal Bifrost, avevi il cuore pieno di rancore,” ricordò Sigyn. Fuori il vento ululava feroce e la tormenta infuriava. Se non ci fosse stato il dio dell’inganno, accanto a lei, avrebbe creduto che le finestre o il tetto avrebbero ceduto sotto la furia degli elementi. Invece, la sola presenza della figura slanciata e sicura di Loki sembrava annullare tutto il resto. Si chiese se, allungando le dita, avrebbe potuto accarezzare la sua mascella affilata e volitiva, sfiorare le labbra ironiche segnate da una cicatrice antica che lei aveva curato. Provò una nostalgia profonda e senza soluzione per i baci urgenti e affamati o dolorosamente lenti, che si erano scambiati in quella stessa stanza, lontani da ogni sguardo o maldicenza, stesi su un letto allestito in fretta, con i vestiti sparpagliati sulle assi del pavimento.

Il riferimento all’esilio freddò lo sguardo chiaro dell’Ase. Valutò se risponderle o lasciare che il silenzio cadesse tra loro come un velo, poi, con tutta probabilità, pensò anche lui che quella era una notte maledetta e incantevole, irripetibile. “Ho affrontato la giustizia di Asgard a testa alta. L’ho guidata e l’ho salvata. Mi sono vendicato di chi mi ha rinchiuso e di chi mi ha tradito,” raccontò laconico, raddrizzando ulteriormente le spalle fiere. Si voltò verso la tavola imbandita e raccolse due calici, scegliendo di annegare nell’idromele la parte della storia che non riusciva a raccontarle – la fine mesta di Odino, che, solo in punto di morte, era riuscito a guardarlo con orgoglio e a riconoscere, in lui, qualcosa di se stesso – della sua parte più spregiudicata e astuta, almeno.

 

 

Ci sono notti che sono più tristi e lunghe delle altre, in cui le tenebre, avide, inghiottono il sole e si rifiutano di lasciarlo andare: quella del solstizio è la più malinconica e lugubre di tutti, perché mentre le case si colorano di addobbi e sfumature dorate e le cucine diffondono amori succulenti, fuori la luce sbiadita dura infinitamente poco e la nostalgia per ciò che è stato e non sarà più si aggrappa all’anima senza lasciarla andare.

“Forse un giorno mi racconterai di più, delle tue avventure.”

“Senz’altro,” mentì il dio dell’inganno. Le offrì il corno d’idromele e bevve un sorso più che generoso, cancellando il sentore di un passato che non desiderava condividere, ma solo scacciare.

Sigyn ne sfiorò con la punta delle dita gli intarsi, ringraziandolo mentalmente per la domanda che aveva evitato di farle, di cui, certamente, conosceva già la risposta. Assaggiò il liquido denso e corroborante lasciando che il suo calore le scivolasse nella gola, evocando il ricordo del tremito fatto di paura e di desiderio che la sconvolgeva mentre, senz’altro addosso che un ciondolo antico, le mani di Loki la accarezzavano con sfacciata lentezza, desiderose di conoscere ogni curva del suo corpo e di scoprire come farla sussultare fino a dimenticare dove fosse e che, fuori dalla finestra, la neve cadeva. E lei gli graffiava le spalle, gli baciava le labbra increspate in un sorriso lupesco e s’inarcava, impaziente e spaventata e felice di una felicità folle e sconsiderata.

In quella stessa notte, in quell’identica casa sulle rive del fiordo, si erano amati, molto tempo prima. Senza promesse, trascinati solo da sguardi roventi e frasi secche e pungenti, si erano spogliati, scoperti, cercati. Voleva appartenergli e che lui le appartenesse, ma non aveva osato dirglielo.

“Questa è la notte dei fantasmi,” sussurrò come se volesse avvertirlo.

 

La bocca di Loki si piegò in una smorfia indecifrabile, il suo sguardo saettò, per un momento, lontano dal suo. “Lo so. Dammi le mani, voglio farti ballare – è la notte del solstizio e tu lo adoravi – ti ho vista così tante volte buttare il capo all’indietro e danzare e ridere e cantare. Sembravi non stancarti mai.” Nella penombra incantata e rossastra la trascinò in una piroetta che sollevò un nugolo di polvere dorata e la condusse con presa sicura nella camera spoglia, al ritmo di una musica che esisteva solo nella loro memoria o forse c’era davvero ed era l’ennesimo frutto degli scherzi e delle illusioni del dio degli inganni. Sigyn tremò, quando le sue mani incontrarono quelle di Loki. Era vero, era reale e la stringeva in quella sera magica e fatata trasformando la notte più oscura dell’anno in quella più dolce e luminosa.

Osò illudersi che fosse fatto di carne e sangue e sollevò il mento con fierezza. “Non mi hai mai invitata,” ricordò con una punta d’orgoglio.

Ad Asgard, lei gli passava accanto con esibito spregio, inconsapevole del fremito di dispetto e di desiderio che suscitava in Loki, impassibile e freddo solo all’apparenza. L’Ase le lanciava occhiate furibonde, rapide e sfacciate come uno strappo, che indugiavano a tradimento sul sudore che le imperlava il collo e il principio del seno al termine di un ballo, sulla bocca rossa morbida e invitante, sulla stoffa tesa che aderiva perfettamente alla sua pelle, esaltando le sue curve di donna. Inebriato dal profumo dolce e lieve di lei, accompagnava quegli sguardi con una frase cattiva o inopportuna a cui Sigyn ribatteva rapidamente con un sarcasmo altrettanto perfido, facendo attenzione a non sfiorarlo neppure con l’orlo della gonna, sforzandosi di rendere il più breve possibile qualsiasi contatto visivo tra loro. Faceva di tutto per evitarlo, ed era capace di riconoscere l’andatura elastica e fierissima del principe di Asgard tra migliaia di altre, così come distingueva i suoi passi nervosi. Storceva la bocca in una smorfia quando le sue amiche sottolineavano che era agile, forte e bello: lo disprezzava e tutto il resto, semplicemente, non doveva esistere, non era importante.

 

L’ingannatore si chinò verso la sua bocca e negli occhi gli brillò una luce giocosa. “Una volta l’ho fatto, ti ho invitata” la corresse.

Fuori dalla casetta, la tormenta si accaniva, impietosa, sul fiordo. Sigyn strinse le labbra e sentì che le sue ginocchia si erano fatte improvvisamente molli. “E non avresti dovuto.”

Credevano di detestarsi da tutta la vita, invece si piacevano fino a volersi con disperazione – avevano confuso il rancore col desiderio come scambiarono, più avanti, il piacere con l’amore. O, forse, chiamavano con due nomi diversi la medesima cosa.

Loki si fermò nel centro della sala. Uno dei suoi stivali calpestò una perla ormai opaca, conficcata chissà da quanto tra le assi del pavimento. L’avvicinò fino a stringere il suo corpo flessuoso al proprio, respirando il suo profumo di miele e vaniglia. “Non avresti dovuto smettere di festeggiare il solstizio per aspettare dei fantasmi, Sigyn.”

Le dita di lei strinsero la pelle della corazzata intrecciata. “Ho dovuto seguirli,” sospirò con una nota di malinconia, nascondendo il viso sul suo petto.

 

 

Anche quella volta si festeggiava il solstizio, ad Asgard. Sigyn aveva i capelli acconciati con fili di perle e gli occhi carichi di una luce festosa. Rideva e chiacchierava con le sorelle, quando Loki si avvicinò con grazia felina chiedendole la cortesia di concedergli un ballo. Sulle labbra della ragazza il sorriso si spense e la proposta inaspettata le impedì di trovare una battuta salace con cui rifiutare.

Accettò e fu un errore – se ne accorse dal ghigno breve trionfante del principe cadetto di Asgard, lo capì quando le dita dell’Ase le sfiorarono la schiena e lei fremette, ne ebbe la certezza quando non trovò nessuna cattiveria da dirgli e lasciò che la sua mano indugiasse sul suo petto ampio e largo, di guerriero, consapevole che il loro ballo durava da troppo tempo. Glielo disse sulla bocca, mentre lui l’afferrava per i fianchi rotondi spingendola contro il muro, nell’oscurità di un corridoio del palazzo che nessuno percorreva mai – lo detestava perché era caos, era fuoco che le infiammava i lombi, era infedele e bugiardo e sprecava la sua intelligenza appresso a trame meschine e piani ignobili. Le sue labbra infide e sottili le sfiorarono il collo proteso e Sigyn pensò a tutto quello che stava perdendo nel momento in cui Loki le lambiva la pelle con vorace lentezza.

“È un errore,” lo supplicò scuotendo la testa, chiudendo gli occhi per non vedere.

“Di quelli incantevoli.”

“Non qui, non così,” insistette, provando a scostarlo e sollevando le ciglia per incontrare il suo sguardo.

“Allora ho un posto. Ti piacerà.”

La condusse in un vecchio capanno da caccia riadatto a casa, che si affacciava sul fiordo. Nessuno lo reclamava né se ne occupava, così Loki lo aveva eletto a suo rifugio personale[2]. Non l’unico, ma uno dei molti – di sicuro, quello più indicato per portarci lei, che, stringendosi la pelliccia al collo, ne riconobbe con un filo di voce la rustica bellezza, la magnifica posizione. Nevicava anche quella notte. Entrarono nella dimora in silenzio e l’ingannatore illuminò ogni cosa. Sigyn prestò attenzione a ogni dettaglio, spostando lo sguardo curioso e mobile su ogni oggetto, decorazione o particolare.

Il dio dell’inganno non le chiese se il posto le piacesse. Glielo lesse nel sorriso incerto, nello sguardo rapito. Rimase in silenzio anche quando iniziò a spogliarla, con solo una luce carica di sfida negli occhi – prima il mantello, poi la cintura color argento, la spallina leggera, i lacci del corsetto. Assaggiò ogni lembo di pelle che scopriva e di cui rivelava la bellezza, mentre Sigyn socchiudeva le palpebre e buttava il capo all’indietro, offrendosi alle sue carezze intense, ai baci troppo lunghi e avidi e prepotenti. Loki esplorò i fianchi dolci, i seni tremanti e il collo proteso con feroce dedizione, arrivando a strapparle ansiti leggeri, sospiri troppo profondi. Entrambi sapevano che, se si fossero parlati, la magia si sarebbe interrotta: lei lo avrebbe accusato di essere volitivo e arrogante, ambizioso e crudele, furbo e sconsiderato, lui si sarebbe divertito a svelare la cruda realtà che si nascondeva sotto i principii di lei.

Prima che l’ultimo velo della sottoveste cadesse a terra, Sigyn pretese di riservare al dio dell’inganno lo stesso trattamento. La stoffa sottile le copriva appena i fianchi, i seni infreddoliti erano esposti allo sguardo rapace dell’Ase, ma lei, ugualmente, gli sfilò la bandoliera, slacciò gli spallacci dell’armatura, sciolse i lacci che rendevano impenetrabile la corazza di pelle intrecciata, accarezzò i muscoli guizzanti sotto la tunica e poi il petto largo e ben sviluppato, il torace asciutto e scolpito, smarrendosi nel farlo. Loki esibiva un sorriso astuto e la lasciò esplorare, fissando il viso arrossato di lei, che aveva sfidato e preteso e avuto, seguendo il disegno di fuoco che le dita delicate di Sigyn gli lasciavano sulla pelle.

E poi, senza dirle nemmeno una parola, mentre lei sfiorava una cicatrice antica, la strinse cercandole le labbra ancora incerte ed esitanti, assaggiandole finché anche l’ultima resistenza non cadde come gli strati del suo vestito già a terra. La baciò e continuò a farlo anche quando le strappò via il lembo insignificante di stoffa che ancora indossava e si stese su di lei, sopra le coperte e le pellicce disposte davanti al camino acceso. Consumarono la passione su quel pavimento e fu allora che una perla fuggì dall’acconciatura di Sigyn, incastrandosi poco più avanti, tra le assi di legno, per non essere ritrovata mai più.

L’amore con Loki fu sbagliato, intenso, necessario.

Lui adorò e si prese cura di ogni curva del suo corpo con l’insolenza che l’aveva sempre attratta e allontanata al tempo stesso, e lei si inarcò verso l’Ase offrendosi con la disperata consapevolezza che quella notte incantata si sarebbe scolpita in maniera indelebile nel suo cuore, senza abbandonarla più, accettando ed esaudendo il pulsante desiderio che per lungo tempo l’aveva tormentata e che Sigyn, inutilmente, si era imposta di soffocare sotto il disprezzo.

Prima di crollare su di lei e affondare il naso nel suo collo, col fiato corto e i muscoli delle braccia tesi, l’ingannatore aveva gridato il suo nome. Sigyn, stremata quanto lui, con le gambe ancora strette contro i suoi fianchi asciutti, aveva lasciato scorrere le dita sulla sua schiena virile in una carezza leggera e sbagliata. Avrebbero dovuto rialzarsi e rivestirsi senza guardarsi, consapevoli che, a volte, il desiderio tradisce le intenzioni. Invece lo strinse a sé e gli baciò la mascella affilata. Una lacrima consapevole le scivolò lungo la guancia.

“Perché stanotte, Loki?” gli domandò più tardi, dopo essere rimasti avvinghiati l’uno all’altra, pelle contro pelle, per troppo tempo. Si stava riannodando il corsetto e gli dava le spalle – così era più facile parlare. Lo sentì avvicinarsi. Pur senza vederlo, intuì il suo ghigno. “Perché non lo ami e lo sai.”

L’ingannatore scostò una ciocca per posare le labbra sulla sua spalla ancora nuda ed esposta, sul collo che rispose a quelle attenzioni tendendosi. Quel contatto era fuoco, era desiderio, era disperazione. Rimase immobile, tentando di ricacciare indietro il fremito basso e pulsante che le ricordava l’intensità del loro cercarsi. Non lo aveva mai odiato così tanto.

“Ho commesso un errore,” ammise, fissando la porta davanti a sé.

La bocca beffarda di Loki non smise di baciarla e le sue mani slacciarono di nuovo i nastri appena annodati dell’abito, abili e lente, infilandosi sotto la stoffa per saggiare la morbidezza dei suoi seni. “Più di uno, dea della fedeltà.”

Il cuore di Sigyn mancò un battito sentendo quella frase. Senza dirsi nemmeno una parola, decisero che la casa sulle rive del fiordo era un luogo fuori dal tempo. Così trascorsero il solstizio e molte delle notti seguenti. I fantasmi sarebbero venuti dopo.

 

 

Sigyn non metteva più da molti anni perle tra i capelli. Ballava tra le braccia del dio dell’inganno, sforzandosi di non pensare alle troppe volte che avevano fatto l’amore davanti a quello stesso camino, ai graffi di gatta che gli lasciava sulle spalle, alle decisioni prese per orgoglio di cui si erano pentiti entrambi. Danzava, e le sembrava che Loki fosse reale, ma qualcosa le diceva che il suo inganno non era limitato alle mille candele, alla tavola imbandita o agli splendidi addobbi. C’era qualcos’altro, un dettaglio che non riusciva a ricordare o a pronunciare. La notte del solstizio era incantevole e maledetta; fuori infuriava la tormenta – e lei aveva lasciato entrare uno spettro, che ora la teneva tra le braccia fissandola con l’attenzione del cacciatore verso la preda. Sigyn avrebbe voluto avere la forza di un tempo, quando rispondeva agli sguardi insolenti e alle battute salaci di Loki sollevando il mento con sdegno e accertandosi che le sue gonne non lo sfiorassero nemmeno per sbaglio. Invece, ora l’ingannatore la guidava e la sosteneva, trascinandola nella sua spirale di caos e di menzogne.

“Perché sei tornato proprio questa notte?” insistette, costringendolo a fermarsi. Voleva che glielo dicesse, ammettendo qualcosa che, forse, lei sapeva già. Tutti e due respiravano in fretta.

Di nuovo, il ghigno dell’Ase assunse una piega dolorosa. “Credevo di averti già risposto. È il solstizio e tu amavi questa festa – l’abbiamo passata insieme molte volte.”

Erano davanti al camino scoppiettante, uno di fronte all’altro, a pochi passi dalla poltrona. Non disse altro e iniziò a spogliarla con lentezza, per ammirarla e baciarla e carezzarla ancora una volta, con rancore e desiderio, per lasciarla con nient’altro che una sottoveste leggerissima addosso. Fu allora che la fece sedere costringendola ad aprire le gambe, per affondarvi la testa e carezzarla e consolarla fino a farle smettere di ascoltare la tormenta e i propri dubbi.

Sigyn artigliò un bracciolo della poltrona e con l’altra mano afferrò le ciocche nere del dio degli inganni. “Questo non dovrebbe succedere, nella notte dei fantasmi,” boccheggiò con voce rotta, sconvolta dal fremito delle sue carezze arroganti.

Loki non rispose né allora né quando, incapace di resistere ancora al fremito che lo scioglieva e infiammava, la condusse, di nuovo, sul pavimento, per amarla con l’urgenza disperata di un tempo, per intrecciare le dita con quelle di lei e mescolare ansiti e sospiri, per fondersi, un’altra volta ancora come se il tempo, attorno a loro, perdesse di significato.

 

Il fuoco s’arrotolava nel camino, la tormenta, lentamente, si allontanava. Loki raccontava a Sigyn una storia di spettri e di promesse. Erano svestiti, esausti, avvinghiati in un abbraccio intenso. Lei teneva la testa poggiata sul suo petto e guardava le fiamme. Per scaldarsi, aveva intrecciato le gambe alle sue. L’ingannatore la stringeva sfiorandole lentamente la schiena e le ciocche dorate e spettinate, consapevole che, nel giro di qualche istante, avrebbe chiuso gli occhi e l’incanto si sarebbe spezzato. Finì il racconto – parlava di una ragazza dall’intelligenza vivace e la battuta pronta, che, il giorno delle sue splendide e fastose nozze, fuggiva col suo sfrontato amante disobbedendo al volere del padre. Sigyn disse che conosceva la storia. Baciò il petto di Loki – un bacio lento e lieve, tenero come una carezza e inappropriato, come la frase che gli disse subito dopo.

“Questa è l’unica notte in cui puoi venire a trovarmi perché appartiene ai fantasmi, non ai vivi.”

Loki non rispose – non ce n’era bisogno – e pensò alle battaglie in cui si era smarrito, ai progetti inseguiti, alle vittorie e alle sconfitte, all’insaziabile brama di possedere ogni cosa che lo divorava da sempre, da quando Odino gli aveva promesso un trono che non aveva mai pensato di dargli. Le cercò le labbra per assaggiarle un’ultima volta e non dimenticare il loro sapore. Ci sono notti che sono più tristi e lunghe delle altre, in cui le tenebre, avide, inghiottono il sole e si rifiutano di lasciarlo andare, ma che, ugualmente, vorremmo non finissero mai.

Dopo, fu il buio.

 

Quando aprì gli occhi, si alzò di scatto. Gli girava la testa, aveva il fiato corto e la casacca di pelle intrecciata era completamente slacciata. Si passò una mano tra i capelli umidi e scuri, osservando la stanza alle fredde luci dell’alba La casa era vuota, gelida, disabitata. La poltrona era avvolta da un ricamo di ragnatele e così pure il tavolo, i libri, le poche suppellettili. Sentì qualcosa colargli giù da naso: era sangue. Osservò con una smorfia le dita macchiate di rosso, esausto per lo sconsiderato uso del seiðr che aveva fatto violando ogni regola o legge. Sulle labbra aveva ancora il sapore dolce di lei.

“Hai avuto quello che cercavi, fratello?” La voce morbida di Hela lo svegliò completamente[3]. Era in piedi, a braccia conserte, il lungo abito nero che accompagnava il corpo snello, il volto tumefatto solo a metà. Loki sentiva la testa pulsare in maniera orribile. Si tirò a sedere e, con la punta dello stivale, sfiorò la perla perduta di Sigyn, ancora conficcata tra le assi del pavimento, unica testimonianza di una passione disturbante che nemmeno l’amore era riuscita a spezzare.

“Lei vive qui, in attesa di questa notte. Non sa di essere morta.” Nelle sue frasi c’era un velo di accusa. “Crede che sia io, lo spettro.”

Hela abbassò le palpebre bistrate di nero. “È il destino di certe anime,” rispose con durezza “Tu sai perché l’ha fatto, come mai è qui.” Poi riconobbe in lui la stessa insaziabile ferocia di Odino, la medesima tempesta che infiammava il petto e lo spirito del defunto re e scosse la testa. “Ti ho concesso già abbastanza – hai varcato i confini tra i vivi e i morti. A Thor non lo avrei mai permesso – se lo farai di nuovo, potresti non tornare.”

“Va’ via, sorella.”

Hela lo guardò dall’alto in basso, soffermandosi sui segni neri che gli cerchiavano gli occhi verdi, sulle mani scosse da un tremito di cui l’ingannatore nemmeno si rendeva conto. “Tenterai ancora. Almeno su una cosa, Thor ha ragione, ma non puoi ingannare la morte, Loki. Sigyn se n’è andata.”

“La soddisfazione non è nella mia natura. Questo non era…” gli mancarono le parole, a lui, che era il dio del caos e degli inganni. La testa gli pulsava, il pavimento iniziò a girare sotto i suoi piedi. “Questo non è stato abbastanza,” concluse.

La dea della morte non replicò. Se ne andò col suo passo fluido e dondolante, lasciandolo nella casa spoglia e solitaria, ubriaco di una conoscenza inaccettabile e dolorosa, di cui, però, non riusciva a pentirsi. Se fosse tornato indietro nel tempo, avrebbe rifatto ogni cosa – ballare, condurla nel capanno, spogliarla e fare con lei ognuna delle cose che aveva immaginato, sognato, pensato. E poi cercarla ancora, darle appuntamenti a orari impossibili, incurante della vita di lei che andava in frantumi, della propria che era sull’orlo di un baratro. Calpestando la perla, si rese conto che uscire da quella casa era impossibile. Ne avrebbe varcato la soglia, certo, ma una parte di lui sarebbe rimasta prigioniera di quelle mura costantemente esposte alle intemperie. Era incatenato come lei – a lei, solo che Sigyn era dall’altra parte – incastrato in una danza degli spiriti struggente e terribile e necessaria. Barcollando, si appoggiò allo stipite della porta. Di tutte le empietà commesse, violare la morte gli parve la meno folle.

Un ghigno ostinato e breve gli attraversò il viso. Aveva ancora il sapore di lei sulle labbra.

 

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore,

Ma ♥ buon anno ♥!

Questa è la prima e ultima shot del 2020 – ma spero che il 2021 mi tolga tante ulcere e mi faccia recuperare il desiderio di condividere ancora e di nuovo Loki e Sigyn. Loro sono importanti per me – terribilmente – e questa storia non doveva nemmeno esistere. Deve la sua genesi a Rosmary e ai suoi Calderotti. Stavo per ritirarmi perché a corto di tempo e di idee, ma nel mentre, zac! È arrivata la storia, tipo fulmine thortino.

Grazie a Emi ♥, il cui supporto è sempre prezioso e che mi ha fatto scoprire dei libri meravigliosi, a padme83 e a Miryel – senza di voi il 2020 sarebbe stato molto più difficile da sopportare.

 

Iniziandola vi è sembrato di leggere… qualcosa di familiare? Sì, anche a me, infatti l’incipit ricorda la mia Di fuoco e di desiderio, ^^ ma anche ad altre shot/long come Tutte le tue bugie o Sapevano di vino le tue labbra.

Come avrete capito leggendo, Sigyn è morta, Loki la va solo a trovare tramite un incantesimo piuttosto pericoloso e debilitante. Come lei sia morta e se lui la salverà, ho scelto di non raccontarlo, qui, ma non garantisco che le cose siano finite così. Oltre alla canzone citata all’inizio, questa storia è stata scritta con la OST de Il labirinto del fauno e con la colonna sonora de La sposa cadavere. Ah, l'allegria! Ultima precisazione: ho giocato un po' col Solstizio (che i nordici festeggiavano al posto del Natale), attribuendogli caratteristiche di Halloween - con i morti che visitano i vivi. Tutto sommato, il Solstizio celebra la morte e la rinascita del Sole, dato che, trascorso lui, le giornate si allungano. Per il sale sulle porte, non so proprio da dove l'ho presa ^^.

 

Ringrazio chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: a parte gli scherzi (lokini) siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco.

 

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

Vostra,

Shilyss

 



[1] “Ci sono giorni…” è l’incipit della mia shot Di fuoco e di desiderio.

[2] Mentre prima ho detto che Sigyn la considera la sua casa ^^.

[3] Dato che posto nel fandom Thor/Marvel, facciamo finta che Hela sia la sorella di Loki e non la figlia. Come vi sarete resi conto, è un alternative! Thor: Ragnarok (si parla della morte di Odino, c’è Hela).

   
 
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