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Autore: Shadow writer    31/12/2020    5 recensioni
Nate è un ventiquattrenne disilluso e pessimista. Ha un lavoro che odia, vive in una città che non sente sua ed è rimasto intrappolato in un passato che non riesce ad accettare.
Per aiutare un amico, partecipa a una corsa automobilistica, ma questo lo porterà a invischiarsi in qualcosa di più grande di lui.
"«Si dice che tu ti stia facendo un nome in città» commentò Alison, appoggiandosi al bancone di fronte a lui.
Il ragazzo alzò gli occhi dalla bistecca e incrociò quelli civettuoli di lei.
«È stata la mia prima e ultima gara» ribadì, «l'ho già detto a Richie.»
Lei fece schioccare la lingua contro il palato in segno di disappunto.
«Mi hanno riferito che ci sai fare con le auto.»
Nate rise e si sporse verso la ragazza.
«Me la cavo bene con molte cose, Alison» quando pronunciò il suo nome, le appoggiò le dita sotto il mento, costringendola a guardarlo negli occhi, «ma ciò non significa che io sia interessato a tutte queste.»"
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Intro

 


L'auto rombava sotto il suo sedile. 

La cintura era quasi un nastro decorativo e tutti gli scossoni lo sbattevano all'interno dell'abitacolo, mentre sotto i suoi piedi ballavano un tango rapido con i pedali.

Le mani correvano rapide ma forti sul volante, mentre superava le altre auto e manteneva la posizione in testa.

Conosceva il percorso, lo aveva studiato prima della gara e le sue braccia conoscevamo ogni curva prima che i suoi occhi la vedessero.

Una salita lo costrinse a premere l'acceleratore a tavoletta e la discesa successiva lo slanciò avanti con tale velocità che, una volta superato il traguardo, dovette ruotare velocemente il volante per non schiantarsi contro il muro di fronte.

Non fece neanche in tempo a tirare il freno a mano, che qualcuno aprì le portiere dall'esterno e venne trascinato fuori a forza per poi essere issato sopra alla folla, che, esultante, gridava il suo nome.

L'adrenalina per la gara correva ancora nelle sue vene mentre il mare di gente lo faceva saltare e lo riprendeva al volo. Gettò il capo indietro e rise, guardando le stelle.

Quando l'estasi della folla si placò, venne depositato accanto ad un omone dal cranio rasato su cui luccicava l'inchiostro dei tatuaggi.

L'uomo gli diede una vigorosa pacca sulla schiena e gli passò una mazzetta di soldi in modo discreto.

«Dovresti farlo più spesso, ragazzo» commentò con la sua voce tonante, «non sei per niente male.»

Lui sogghignò e si passò una mano tra i capelli: «Te l'ho detto, Richie, solo una volta. Ti dovevo un favore.»

Quello scrollò le spalle e grugnì, in disinteressato dissenso.

Come alla fine di ogni gara, il vincitore fu circondato dal gruppo schiamazzante delle ragazze che speravano di ottenere la sua attenzione, o anche solo un bacio.

Nate dedicò ad ognuna lo stesso sorriso sornione, si lasciò accarezzare e godette di ogni loro premura.

Quando il traguardo cominciò a svuotarsi, sotto le luci sparate dei lampioni improvvisati, decise di togliere il disturbo. Nel caos generale, gli bastò uscire dai fasci di luce per potersi allontanare indisturbato e tornare verso la città.

Lontano dalla gara, le strade erano vuote e la popolazione dormiva all'interno degli appartamenti silenziosi.

La periferia era scarsamente illuminata e si potevano scorgere solo poche sagome ferme sui bordi dei marciapiedi.

Nate camminava con le mani affondate nelle tasche della felpa, stringendo la mazzetta di soldi che Richie gli aveva passato. Sorrise, al pensiero di quanti avessero guadagnato dalla sua vittoria quella sera. Gli era giunta la voce di parecchie scommesse e di puntate alte. Sorrise anche al pensiero di quanti, a cui stava antipatico, avessero perso qualcosa quella notte. Quando pensò al signor Garlock, un gioielliere ebreo che una volta aveva rifiutato il suo oro, gli venne quasi da ridere: Richie gli aveva detto che aveva scommesso cento dollari per la sua sconfitta.

Quando raggiunse il suo condominio, gli bastò tirare una spallata alla porta per poter entrare. Era difettosa da mesi, ma nessuno si era preoccupato di sistemarla.

Salì le scale e raggiunse il suo appartamento all'ultimo piano.

Rispetto alla sua precedente dimora, questa era più grande, più moderna e aveva l'aria condizionata, ma non era riuscito a liberarsi dell'odore di birra e sigarette che aleggiava per le stanze. A questo contribuivano in massima parte i suoi coinquilini, Mike e Jay,.

Quando entrò nell'appartamento, Nate notò la coda di cavallo bionda di Mike che sbucava tra i cuscini del divano, mentre un soffuso ronfare risuonare nel salotto.

Il ragazzo prese un cuscino e lo schiacciò sul volto dell'amico, che si svegliò di soprassalto e cominciò a gridare.

«Che cazzo pensavi di fare?» gli sbraitò contro Mike paonazzo.

«Ti ho detto di non addormentarti sul divano. Sbavi mentre dormi» ribatté Nate lanciandogli il cuscino con cui lo aveva svegliato.

Mike lo prese al volo e si alzò in piedi.

«Sembri di buon umore» commentò. «Hai vinto?»

Nate estrasse il denaro dalla felpa e lo fece frusciare.

«Tu che dici?» ammiccò.

«Figlio di puttana» Mike proruppe in una risata e circondò il collo di Nate con un braccio per stringerlo a sé.

«Avrei voluto esserci. Dai racconta.»

Nate si sedette sul divano: «Solo se ti asciughi la bava.»

Mike afferrò un cuscino e si lanciò su di lui per restituirgli il favore.

 

 

 

L'unico momento in cui Nate sentiva di fare qualcosa di produttivo quando era al lavoro, era durante la pausa pranzo.

La mensa era una sala enorme, attraversata dai lunghi tavoli di assi unte affiancati da una coppia di panche traballanti. Il cibo, poco appetitoso e poco saporito, veniva servito, o meglio lanciato, su un nudo bancone d'acciaio dalle braccia massicce della cuoca. La sala era sempre affollata e chi arrivava tardi doveva girovagare sprecando parte della propria pausa alla ricerca di un posto dove sedersi.

In una di quelle ricognizioni, Nate era capitato nell'angolo più remoto della mensa, dove di solito non arrivava quasi nessuno, dato c'è gli amici gli riservavano un posto più vicino.

Ad un tavolo più isolato, ma meno unto, degli altri, sedeva un gruppo di uomini che spiccavano per le loro camice stirate e i pantaloni aderenti, ben diversi dalle tute sporche degli altri lavoratori.

Nate aveva preso l'abitudine di sedersi a quel tavolo, un poco discostato dagli uomini, ma abbastanza vicino per riuscire ad origliare la loro conversazione. Loro erano quelli che avevano studiato, che potevano vantare una laurea e qualche zero in più in banca.

Quando Nate aveva ricevuto la proposta di lavoro per il suo progetto, si era aspettato di lavorare con uomini come quelli, indossando le loro stesse camice inamidate e certamente non sporcandosi le mani con l'olio delle macchine come faceva da una vita.

Aveva ragione sua mamma, quando diceva che tutto cambia per rimanere sempre lo stesso. Aveva abbandonato la sua città e la sua vita per trovarsi allo stesso punto di partenza: un operaio malamente considerato senza alcuna possibilità di crescita.

Per quanto Nate detestasse ammetterlo, quegli uomini se ne intendevano del loro lavoro. Quello era il principale argomento di conversazione durante il pranzo e il ragazzo ascoltava e memorizzava ogni parola come se fosse un insegnamento prezioso.

Quasi un anno dopo essersi trasferito, aveva capito che non sarebbe arrivato da nessuna parte senza un pezzo di carta e si era iscritto ad un corso serale.

Quel giorno gli ingegneri stavano parlando dei nuovi provvedimenti del sindaco e Nate si estraniò dalla loro conversazione, disinteressato.

Controllò i messaggi.

Mike gli aveva mandato un video e Jay gli ricordava che toccava a lui fare la spesa.

 

 

Quando uscì dal lavoro, salì in sella alla sua moto e pensò che non aveva voglia né di fare la spesa, né di sentire la ramanzina di Jay.

Guidò fino al Venus e parcheggiò sotto all'insegna al neon che troneggiava sull'ingresso.

All'interno le luci erano soffuse, i profumi intensi e le sagome di ragazze seminude proiettavano ombre oblunghe sul parquet scuro.

I clienti si nascondevano dietro ai pilastri quadrati tra le pieghe dei divanetti, o dietro ad un bicchiere colorato.

Nate si avvicinò al bancone e si lasciò cadere su uno degli sgabelli sgualciti.

L'uomo piccolo e smilzo al di là del bancone gli rivolse un cenno di saluto, poi aggiunse: «Richie è nel suo ufficio, vuoi che te lo chiami?»

Nate scosse il capo: «No, sono solo venuto per mangiare.»

L'uomo prese il suo ordine e sparì al di là di una porticina di legno.

A servirlo fu una ragazza, Alison. Nate l'aveva già incontrata altre volte ed era certo che lei avesse un debole per lui. Non era difficile neanche avere un debole per lei, constatò il ragazzo guardando le sue lunghe gambe, nude e toniche, mentre era voltata per prendergli un bicchiere.

«Si dice che tu ti stia facendo un nome in città» commentò Alison, appoggiandosi al bancone di fronte a lui.

Il ragazzo alzò gli occhi dalla bistecca e incrociò quelli civettuoli di lei.

«È stata la mia prima e ultima gara» ribadì lui, «l'ho già detto a Richie.»

Lei fece schioccare la lingua contro il palato in segno di disappunto.

«Mi hanno riferito che ci sai fare con le auto.»

Nate rise e si sporse verso la ragazza.

«Me la cavo bene con molte cose, Alison» quando pronunciò il suo nome, le appoggiò le dita sotto il mento, costringendola a guardarlo negli occhi, «ma queste non significa che io sia interessato a tutte queste.»

La ragazza si ritirò in fretta, delusa e dispiaciuta dalla piega che la conversazione stava prendendo.

«Sei tu che ci perdi, Nate» commentò, prima di avvicinarsi ad un altro cliente.

Lui si dedicò per qualche istante alla sua bistecca, fino a che la ragazza tornò libera.

«E cos'altro dicono tutte queste persone che parlano di me?» le domandò.

Lei non rispose subito, ma lo fissò con uno sguardo penetrante mentre asciugava un bicchiere. Riempì questo di birra e glielo pose davanti.

«Dicono che se fossi sia il meccanico che il pilota di Richie, dovrebbero andare in un altro Stato per trovare un degno avversario.»

«Immagino lo sguardo incazzato di Skull» rise Nate.

Alison si unì a lui: «Quello è un pilota da quattro soldi a cui piace farsi fare la corte.»

Continuarono a chiacchierare per tutta la cena di Nate, fino a che un messaggio minaccioso di Jay lo informò che se non fosse tornato immediatamente con la cena avrebbe mangiato la sua gatta.

Pagò velocemente e tornò verso casa.

 

 

«Non osare mai più dire cose del genere» sbottò Nate quando entrò in casa, puntando l'indice contro Jay.

L'altro, pur essendo la metà di lui, non si fece intimorire. Si sistemò gli occhiali sul naso, con aria risoluta.

«Non fare queste sceneggiate, Nate. Sei capace solo a fare il cazzo che ti pare e pretendi che ti perdonino quando fai il carino. O quando ti fingi offeso.»

«Non hai offeso me, coglione, ma la mia gatta. Giuro che se le togli anche solo un baffo, te la farò pagare» replicò Nate e sbatté sul tavolo le borse con la spesa.

Raggiunse velocemente la sua camera e quando spalancò la porta, la prima cosa che vide furono gli occhioni della gatta acciambellata sul letto.

«Ciao piccola» la salutò sedendosi al suo fianco. La gatta si alzò, sbadigliando e stiracchiandosi, e si strofinò contro la mano tesa di Nate.

Il ragazzo l'aveva trovata un anno e mezzo prima, piccola ed infreddolita, nascosta nel vano delle scale. Da quando l'aveva presa con sé, era diventata una grossa gatta dal lungo pelo castano-rossiccio. 

«Nate!» lo salutò Mike affacciandosi sulla porta della camera, senza bussare. «Mi era sembrato di sentire i tuoi toni soavi.»

«Ti ha mandato Jay?»

Mike sorrise senza imbarazzo, assentendo involontariamente. Nate sapeva che Jay era un tipo puntiglioso, ma prima di tutto era un amico leale e non sarebbe mai andato a dormire senza aver fatto la pace con tutti.

Chiacchierò un poco con Mike, che gli ricordò il compleanno di Jay il sabato, poi raggiunse la cucina e aiutò l’altro coinquilino a riordinare la spesa. 

«Com'è andata la corsa ieri sera?» gli domandò ad un tratto.

Nate sistemò le uova nel frigo e si voltò lentamente verso l'amico.

«Be', sono ancora vivo, no?» gli disse.

L'altro gli lanciò uno sguardo truce: «Coglione. Mike mi ha detto che hai vinto.»

Nate scrollò le spalle: «Cosa ci vuoi fare? Sono bravo.»

Jay scosse il capo, bofonchiando un altro insulto.

«Vai a letto, finisco io qua» gli disse Nate, aprendo il frigo.

L'amico gli lanciò uno sguardo scettico.

«Eh dai, amico, quando ti capita ancora?»

Jay alzò gli occhi al cielo, ma decise di dargli retta.

Quando se ne fu andato, Nate chiuse il frigo e sospirò.









 



 


ANGOLO AUTRICE

 

Ciao a tutti!

Pubblico questa storia dopo anni di distanza dalla prima stesura. La storia era nata come il seguito di una one shot che avevo scritto in precedenza (una song-fic su Do I wanna know degli Arctic Mokeys, come si intuisce anche dal titolo di questa) e, a mano a mano che scrivevo, mi sono accorta che aveva le possibilità di diventare qualcosa di più complesso. 

Dopo averla sviluppata per i primi capitoli, l’ho abbandonata per qualche anno e solo recentemente mi sono sentita abbastanza ispirata per proseguire.

Proprio per la grande distanza che la separa dalle altre mie storie, risulta forse un po’ diversa e prevedo che sarà più consistente a livello di capitoli rispetto alle ultime long.

Questa pubblicazione è più che altro un esperimento. Mi dispiaceva lasciare la storia a marcire sul PC, quindi ho pensato fosse meglio esporla a pareri e critiche esterne che magari avrebbero potuto migliorarla. Sono molto insicura riguardo al risultato finale, quindi qualsiasi commento/correzione sarà ben accetto! 

 

Grazie a tutti coloro che sono arrivati fino a qui!

A presto,

M.

 

P.S.: sul mio profilo potete trovare le mie long concluse 

- “No Promises”: di genere drammatico/introspettivo.

- “La duchessa” (con la seconda parte in fase di conclusione):
a differenza di quello che il nome potrebbe far pensare, non è un’originale storica.

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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