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Autore: Smaug The Great    02/01/2021    6 recensioni
|INTERATTIVA| The Umbrella Academy AU|ISCRIZIONI APERTE FINO AL 8/12
L'Umbrella Academy è stata, per cinque gloriosi anni, la squadra anti-crimine del mondo magico: un gruppo di bambini prodigio, baciati dal destino e dotati di abilità magiche fuori dall'ordinario, messi al servizio della giustizia da un padre celeberrimo. Padre adottivo, in realtà. Perché i nove ragazzini dell'Umbrella Academy sono nati nello stesso momento ma in posti differenti e sono, soprattutto, frutto di una profezia centenaria che ne decantava la lotta contro il male magico. E per cinque anni, dai dodici fino al diploma a Hogwarts, è stato così.
Poi i bambini sono cresciuti e l'Accademia si è disgregata, crollata dall'interno per le più svariate ragioni. A distanza di otto anni, si riunisce per il funerale dell'uomo più celebre ed enigmatico del Mondo Magico. Octavius Cleremont è morto, solo e in una stanza di ospedale, delirando su nemici invisibili che volevano la sua testa.
E ora, mentre i suoi figli si ritrovano dopo anni e si incastrano nel puzzle della sua morte, i nemici brindano sulla sua tomba e tornano a complottare nell'ombra.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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Capitolo VI
Un po’ di dolore in meno
 
 
“«Noi non chiediamo mica la felicità,
solo un po’ di dolore in meno»”
Charles Bukowski
 
 
 
 
23:41, 13 Agosto 2010, Londra (UK), Umbrella Academy
«Più forte»
Le parole di Rigel, filtrate appena da un mormorio roco, echeggiarono per la grande sala sotterranea.
A Caesar le cripte non erano mai piaciute. Enormi, buie, umide e maleodoranti, le trovava a dir poco odiose e le evitava sempre con accuratezza. Quanto più poteva. Era evidente, invece, che il forte odore di muffa e chiuso, l’ambiente claustrofobico, i cigolii sinistri e gli spifferi d’aria gelida mettessero a suo agio Numero Uno. Né Numero Tre, né Octavius, dunque, si erano stupiti più di tanto quando aveva insistito per farlo proprio lì. Nelle viscere tenebrose di Rosewood.
Certo ora –a terra, ansimante, con la divisa attaccata alla pelle e fradicia di sudore freddo– non sembrava granché in forma, ma non c’era dubbio che quell’ambiente gli infondesse una certa tranquillità. Caesar, da parte sua, avrebbe dato qualunque cosa per essere in casa. Tra la corrente fresca, la fame e l’inquietudine, si sentiva tutto meno che a suo agio. Lo stesso non si poteva dire per Octavius. Papà, accanto a lui, era troppo intento a guardare Numero Uno e far prendere appunti a una penna stregata nel suo quadernetto in pelle di drago per far caso a cose come il mondo sensibile.
Seppur crepata dalla fatica, la voce si fece più alta «Più forte, ho detto».
Caesar si voltò verso suo padre con uno sguardo dubbioso. Nel suo sguardo era chiarissima la paura. Come poteva non averne? Quello d’avanti a lui –nocche sbiancate, volto pallido e occhi selvaggi– non era un nemico, un delinquente o un avversario. Quello era suo fratello. Fino a dove era lecito spingersi, in quell’impresa folle che stavano compiendo sotto lo sguardo impassibile di loro padre? Quanto male ancora gli avrebbe fatto, prima di cadere a terra lui stesso e lasciarsi divorare dall’orrore?
Papà non conosceva nessuno di questi tormenti. Gli poggiò una mano sulla spalla in segno di muto conforto e lo invitò a procedere. Nei suoi occhi riconobbe, però, una compassione familiare e ruvida determinazione. Quel gesto diceva: “dobbiamo continuare”. Numero Tre continuò. Tese il braccio destro ancora di più verso suo fratello e si concentrò più di quanto avesse fatto fino ad allora. Pensò al museo di torture medievali babbane che la scorsa settimana aveva visitato con papà. Pensò al libro di storia con le documentazioni dell’olocausto nazista che stava leggendo. Pensò alla ricerca sui crimini di guerra della Seconda Rivolta dei Folletti. Pensò alla segregazione degli elfi domestici. Pensò agli ospedali di guerra. Pensò alla peste nera. Pensò al dolore. Pensò: “soffri”. E Rigel soffrì.
Se avesse dovuto spiegare a qualcuno come funzionava il suo dolos –già allora lo chiamava così– Numero Tre avrebbe detto che era come guardare il mondo da dietro una vetrina. Caesar era lì, ma non era lì affatto. Oltre i sottili occhi castani aperti e assenti, la sua testa traboccava di orrore. Certo che percepiva ciò che accadeva intorno. Forse troppo bene. Riusciva a vedere suo fratello battere un pugno sulla pietra nuda e poi prendersi la testa tra le mani nel giro di qualche secondo. Lo sentiva gemere e gridare e poi mordere la pezza che stringeva in una mano per soffocare ogni rumore. Inutile. Le urla di Numero Uno rimbombavano nelle cripte e nella sua mente. Ma Caesar continuava. Poteva vedere anche Octavius. Al lato del suo campo visivo. Lui era lì. Fissava, impassibile, quella scenetta dell’orrore. Eppure, all’occhio ormai allenato di Numero Tre, non sfuggiva un dettaglio essenziale: papà era tutto meno che impassibile. C’era una tensione aguzza ai bordi della sua figura. Dal modo in cui pressava le labbra in una linea sottile e sgranava leggermente gli occhi, dalla rigidità eccessiva nella sua postura e il respiro che stava trattenendo, Numero Tre seppe che provava qualcosa. Anzi, meglio. Provava ansia. Caesar lo capiva perché il nervosismo che annebbiava la mente sempre gelida di suo padre era lo stesso che a lui faceva tremare il braccio, come a bloccarlo dal fare qualcosa di contro natura.
Ma questi erano solo pensieri di sbieco. Rigel stesso era una figura sfocata di fronte alle immagini di uomini e donne in catene o nudi e sanguinanti su tavole da tortura, le eco delle sue urla oscurate da spari, pianti e colpi di cannone. Succedeva sempre, d’altronde. Era una diretta conseguenza del suo potere, quando ne abusava. La trance ipnotica in cui cadeva, il progressivo aumento del suo controllo mentale sulla vittima e il profondo piacere fisico che ne traeva erano sintomi già assestati negli anni precedenti.
Fu una stretta forte sulla spalla a trascinarlo via dal fiume in piena dei suoi pensieri. E una voce.
«Numero Tre» era papà a parlare «Fermati. Adesso»
Caesar chiuse gli occhi di scatto e si portò bruscamente il braccio destro al petto. Si prese qualche secondo per respirare a pieno l’aria pregna d’umidità delle cripte, per tornare del tutto alla realtà e rendersi consapevole di se stesso. Poi, mentre Octavius rivedeva gli appunti nel quaderno, si mosse. Riuscì a tirare un paio di passi tremuli in avanti, prima di inginocchiarsi accanto a Rigel e cingergli le spalle con un braccio. Numero Uno ricambiò di slancio quell’abbraccio improvvisato. Caddero a terra, l’uno sopra l’altro, stretti tra loro per tutto il tempo del mondo, a respirare forte l’uno il profumo dell’altro.
Solo quando papà si avvicinò, si separarono.
«Numero Uno,» la voce di Octavius era poco più di un sussurro «riposo. Va’ a dormire o a calmarti nel modo che più ti aggrada. Domani ripeteremo l’addestramento; fino ad allora, solo meditazione» nei suoi occhi c’era qualcosa di morbido e delicato, ma Rigel –occhi e labbra socchiusi– non era già più lì «Niente sforzi fisici o mentali, mi raccomando. Numero Tre» lo sguardo che gli rivolse era quasi colpevole «complimenti, stai migliorando molto. Aiuta il tuo capitano a rimettersi in piedi e poi sei congedato»
«Papà» gemette Caesar, stringendo il corpo incosciente di suo fratello «è davvero necessario continuare?»
«Per quanto sia sgradevole per tutti,» sulla sua fronte si disegnò una ruga di indecisione «è la soluzione ideale. Solo così tu puoi sviluppare il tuo potere e Numero Uno ha la preziosa opportunità di aumentare a dismisura la sua resistenza mentale»
«Ma Rigel–» tentò ancora Caesar, occhieggiando il profilo pallido tra le sue braccia.
«Numero Uno» lo interruppe Octavius, con una voce tutta schegge di metallo «si è offerto volontario per la sperimentazione e riconosce che è un’occasione d’oro per allontanare la sua soglia del dolore»
«Papà» il tono di Numero Tre era quello accorato delle preghiere sottovoce «Non vedi come si riduce ogni volta? So che stiamo migliorando, ma ne vale davvero la pena? Io–» soggiunse, scuotendo la testa «io non ce la faccio, io non posso più…»
«Certo che puoi» replicò prontamente suo padre «Puoi e devi. Questo addestramento è necessario e, per quanto non ci piaccia, la sofferenza di Numero Uno è il prezzo dell’accrescimento del tuo potere»
«E allora rinnego il mio potere!» le urla di Caesar –la voce sottile e crepata, grondante di angoscia– echeggiarono per le ampie sale sotterranee «Rinnego il mio cognome! Rinnego l’Umbrella Academy, se devo! Non voglio più far male alle persone che amo!»
«Stammi bene a sentire, Numero Tre» Octavius trasse un respiro profondo e si abbassò per poter essere al suo livello, puntellandosi appena sui talloni «Le persone che ami si faranno male a prescindere. Là fuori il mondo è buio e selvaggio e l’unico modo per contrastarlo è essere ancora più bui e selvaggi di esso. Vuoi che i tuoi fratelli non stiano male? Addestrati,» il suo tono non ammetteva repliche «controllati, sii spietato. Non fuggire dal combattimento e non reprimere il tuo potenziale in virtù di sciocchi ideali moralisti. Il tuo potere ti rende forte. Alimentalo. Curalo. Accrescilo a qualunque costo. I tuoi fratelli faranno lo stesso e arriverà il giorno, Numero Tre, in cui non ci sarà nulla in grado di farvi del male. Fino ad allora,» soggiunse, senza smettere di guardarlo negli occhi «questo è l’unico modo in cui puoi aiutarli»
«Promettimi» fu la risposta di Caesar, dopo qualche istante di riflessione «che non farai mai niente che vada contro il loro interesse»
Papà sembrò preso alla sprovvista per un momento, ma quando parlò lo fece con una voce morbida «Ti prometto che non ho mai agito né ho intenzione di agire contro l’interesse dell’Umbrella Academy»
E se quella non era la risposta a cui Numero Tre ambiva, non ne fece parola. Suo padre aveva ragione. Solo abbracciando interamente il suo potere sarebbe stato in grado di proteggere la sua famiglia dai pericoli del mondo esterno e dell’accademia. Checché ne dicessero gli altri, Caesar non era stupido. Impulsivo? Certo. Ingenuo? Spesso. Incosciente e irrazionale? A volte. Sciocco, mai. Numero Tre era lento nell’imparare, ma non dimenticava facilmente e già da tempo era sorto alla sua attenzione un dettaglio che agli altri pareva sfuggire. Il più grande pericolo per l’Umbrella Academy era il suo stesso patrono. Nulla, più di Octavius, aveva il potenziale di distruggere la sua famiglia.
I passi di papà riecheggiavano per le cripte, ma Caesar neanche li sentiva. L’unico suono che si concedeva di captare era il battito lento e stabile del cuore di Rigel, suo fratello, la sua famiglia. Nient’altro importava.
 
 
 
 
 
23:12, 22 Dicembre 2020, Londra (UK), The Ned
«I piani sono cambiati»
Nasheeta saltò giù dal letto prima ancora di registrare consciamente cosa fosse successo. Non c’era bisogno di pensare. Non serviva ragionarci su. La voce dello Zar –liscia come velluto e calda come il tramonto ma profonda e scura come un abisso– lei l’avrebbe riconosciuta tra mille.
Non ricordava di avergli dato una copia delle chiavi, quindi doveva essersi smaterializzato nella camera d’albergo che lei condivideva con Gideon. Tipico di lui. Lo Zar non era mai stato –negli anni in cui si erano conosciuti– il tipo che chiede il permesso. Era abituato a essere al comando, in pieno controllo della situazione. Era lui a decidere. Se magari a Nasheeta fosse stata a cuore la propria privacy, non aveva alcun rilievo. Un’altra persona sarebbe stata oltraggiata dalla sua mancanza di buone maniere, ma alla Sfinge non importava. Anzi. In una sua qualche perversa percezione delle cose, le faceva piacere. Eccola lì, la prova. Lo Zar si era smaterializzato nella sua camera d’albergo senza dare uno straccio di preavviso o senza la benché minima aria di vergognarsene e lei –invece che indignarsi e pretendere rispetto– si pettinava i capelli con le dita in tutta fretta, tirava su l’elastico dei pantaloni del pigiama e arrossiva come un’adolescente al primo appuntamento. Se Gideon non fosse stato in bagno a farsi un altro trattamento di bellezza –il terzo quella settimana–, si sarebbe rotolato dal ridere e poi le avrebbe fatto un discorsetto sulla dignità personale.
Grazie al cielo, lui non era lì.
Lo Zar marciò nella suite dei suoi colleghi come un carro armato sul campo di battaglia. Sul suo volto era dipinta quell’espressione rigida e tesa che aveva ogni qual volta le cose non andavano secondo i suoi organizzatissimi piani. Oltre alla tensione, però, quella sera sembrava anche furioso. La Kitsune sfilava dietro di lui con un’aria più afflitta che arrabbiata.
Nessuno dei due fece particolarmente caso al pigiama di pile rosa pastello di Nasheeta, né alle trecce spettinate che cercava di districare con una nonchalance venata di ansia. Il ché era già di suo un problema. Lo Zar non mancava mai di farle notare le sue eventuali inadeguatezze fisiche con un sopracciglio alzato o, se di buon umore, un sorrisetto ironico. Era ormai una scena topica nel Decimo Reggimento. Nasheeta si presentava a riunione con qualcosa fuori posto –che fossero scarpe slacciate, trucco sbavato o un cappotto abbottonato male– e poi diventava tutta rossa quando Elijah glielo faceva notare.
«C-cosa?» ebbe il coraggio di balbettare.
Elijah si sedette sul letto di Gideon, d’avanti a lei, e sembrò del tutto indifferente allo stato in cui versava la sua collega. Nasheeta, invece, si chinò, con tutta la discrezione di cui era capace, a raccogliere il grosso libro in pelle di drago che stava leggendo prima dell’arrivo dei suoi compari. Kasumi si sedette accanto allo Zar, senza dire una parola. E di parole ce n’erano tante che dovevano esser dette. Ma non in quel momento perché, appena in tempo per l’entrata in scena dello Zar e della Kitsune, si spalancò la porta del bagno della suite e da lì giunse un’ondata di vapore, un’umidità profumata che, per chiunque in quella stanza, oramai significava soltanto una cosa. Apollo, bello come un dio greco e se possibile anche più arrogante, emerse dalla sua nebbia artificiale. Nudo. Totalmente nudo.
Non avanzò di un solo passo per qualche secondo, come se fosse un modello di brand fashion babbani o l’attrazione principale di una mostra d’arte moderna. Kasumi lo guardò senza vederlo neanche, già abituata da un pezzo a quel fare da megalomane. Nasheeta si diede una manata in fronte e si impose di non guardare. Lo Zar, da parte sua, lo squadrò per un momento da capo a piedi e poi gli rivolse un’occhiataccia: «Hai intenzione di vestirti o vuoi illuminarci con le tue grazie per un altro po’?»
«Dio solo sa da quanto voialtri non vi concedete ai piaceri della carne» il sorriso di Gideon riluceva di una malizia sfacciata «Vedetelo come uno sfoggio della mia generosità»
«Considerati fortunato» replicò lo Zar «Attualmente abbiamo problemi più grandi delle tue manie di nudismo. Ed è per questo che io e la Kitsune siamo qui senza preavviso, non» soggiunse, a mezza voce «per gli show a luci rosse di Apollo»
«Problemi?» Nasheeta incrociò le gambe sul letto e strinse il libro al petto «Non avete… non siete riusciti a parlare con il Generale?»
Kasumi ed Elijah si scambiarono un’occhiata traboccante di sottintesi. Nessuno dei due sapeva cosa rispondere. Gideon –le ante di ben due armadi spalancate– era troppo preso dalla scelta dell’outfit serale per ascoltare davvero i suoi colleghi. Non che Apollo fosse un uomo superficiale. Era in una situazione difficile, ecco. Il pezzo forte della sua collezione inverno –un maglione blu cupo a collo alto che faceva pendant con i suoi occhi ed esaltava il rosso dei suoi capelli– era andato perduto in quell’infernale marchingegno babbano che lo staff dell’hotel chiamava lavatrice e quella notte non si sentiva molto in vena di camicie. Il ché restringeva le sue opzioni a una fascia molto limitata di indumenti. Una vera emergenza, insomma.
«Tutto il contrario» la voce dello Zar era insolitamente vacillante «Abbiamo parlato con il Generale, di persona»
«E che ha detto?» insistette Nasheeta.
«Che siamo nella più scomoda delle situazioni» lo sguardo di Elijah era perso tra le venature del legno del parquet «Il Generale non ha gradito il nostro fallimento a Rosewood, ma è stato abbastanza caritatevole da non farci fuori sul momento e garantirci una seconda chance per completare la missione e proseguire con i nostri progetti individuali»
«E questa non è una buona cosa?» la Sfinge era sempre più confusa «Il Generale ha capito, non ci dà la colpa e ci dà la possibilità di correggere i nostri errori. Magari la missione sarà un po’ diversa da com’era all’inizio, ma è un passo verso di noi che lui sta facendo. Alla fine, avevo ragione io, no?»
«No» Gideon, che aveva optato per un paio di jeans e un lungo cardigan di lana rossa, si accasciò elegantemente sul pouf lì vicino «Avevo ragione io. Il Generale ci ha affidato questa missione pur sapendo che era un suicidio e alza progressivamente il livello di difficoltà per vedere fin dove arriviamo. Scommetto che ha detto che il rinnovamento della missione è un gesto di misericordia» quando nessuno gli rispose, il suo sorriso si fece più largo e predatorio «E sono anche pronto a scommettere che ha minacciato di ucciderci tutti se non la portiamo a termine questa volta»
«Non possiamo far altro che proseguire» disse lo Zar «C’è troppo da perdere»
«Zar,» Kasumi si voltò verso di lui, il volto illeggibile come al solito. Quella sera era più silenziosa del solito, ma il tono grave della sua voce la diceva lunga sul perché; qualcosa non andava. Anzi, qualcosa era andato tremendamente storto durante il colloquio con il Generale. E l’espressione della Kitsune valeva più di tutte le parole dello Zar. «non vorrai seriamente prendere in considerazione questa missione».
«Con quello che c’è in gioco?» ribatté prontamente lui.
«Perché? Cosa c’è in gioco?» la domanda suonò stupida persino alla Sfinge stessa.
«Vite» fu la risposta sibillina dello Zar.
«Invece che pensare alla posta in gioco» li interruppe Gideon «perché non parliamo dell’evoluzione effettiva della missione? Cosa dovremmo fare? Rapire l’elfo domestico e chiedere un riscatto?»
Kasumi –sguardo vagabondo e labbra serrate– non era mai sembrata più tormentata di così. Disse: «Vuole che li uccidiamo tutti».
Sulla stanza calò un silenzio di occhiate complici e pensieri orridi e parole non dette. Lo Zar si passò una mano tra i capelli e storse le labbra in una smorfia di impazienza. Se era arrivato al punto di non tentare neanche di nascondere la sua frustrazione, qualcosa doveva pur significare. Cosa era un dilemma da lasciare ai tempi morti della vita di Gideon. In fondo, lui era lì per osservare, per imparare, per emulare. Lo Zar, nel suo ferreo controllo delle cose, non era in grado di trattenere le sue emozioni ed era incapace di comprendere quelle altrui. Era comprensibile, dunque, che quella situazione gli fosse a dir poco scomoda. Il fallimento non lo concepiva affatto. Apollo, da parte sua, era tutt’altro che una new entry dell’Ordine e, nei suoi quasi-dieci-anni (come amava lui stesso dire) di servizio, non gli era mai giunta voce di un incarico che lo Zar avesse fallito. Uno, in effetti, c’era stato. Ma quella era più una sconfitta morale che oggettiva. D’altronde, anche la missione in cui la sua partner aveva perso la vita si era rivelata un successo. Questo era un fallimento su tutti i fronti.
Gideon invece era uno dei bassifondi, abituato a perdere e, anzi, abituato a trarre il meglio da ogni sconfitta. Era uno scommettitore, anche. Ciò che non andava a buon fine al primo colpo, poteva essere riottenuto a un secondo o un terzo. Nella sua personale visione, la sconfitta esisteva. Relativa, ovviamente. E sempre utile, a suo modo. Ma esisteva. E nel grande schema delle cose, ogni fallimento era al contempo una lezione e un mezzo per l’unico, grande fine. Vincere.
Quando fu chiaro che nessuno aveva intenzione di prendere la parola, fu proprio Apollo a raddrizzarsi dal suo pouf puntellandosi sui gomiti e intervenire.
«E noi» voce bassa e mento alto, quel suo bel sorriso felino a incurvargli le labbra «cosa vogliamo fare?»
 
 
 
 
 
23:14, 22 Dicembre 2020, periferie di Londra (UK)
«L'ultima volta che l'ho vista, abbiamo deciso che ci saremmo incontrati qui questa sera» il respiro di Rigel si condensava man mano che procedevano sulla strada sterrata dove si erano smaterializzati poco prima. Si trovavano ben lontani dal centro, in uno dei quartieri più esterni. Dove, di preciso, era un mistero. Inutile dire, infatti, che Numero Uno non si era scomodato nel dargli neanche uno straccio di informazione. Neanche il perché era chiaro. C'era la bellezza di altre sette persone tra cui scegliere. Qualcuno sarebbe stato anche felice di assaporare il freddo londinese. Oliver, per esempio, era troppo entusiasta per percepire i meno sette gradi del periodo natalizio e Artemis avrebbe seguito Rigel anche all'inferno. Caesar, con qualche lamentela, avrebbe accettato. Invece, sorpresa delle sorprese, l'onore di accompagnare Numero Uno nell'impresa non era toccato a nessuno degli allegri volontari ed era ricaduto su quello che forse più di tutti voleva starsene in pace a bere in salotto. I criteri di scelta rimanevano ignoti. D'altro canto, però, Alexis era sicuro che l'audace capitano dell'Umbrella Academy provasse una certa soddisfazione nell'infastidirlo in qualunque modo. Che fosse ordinargli di tornare a casa per le vacanze di Natale o trascinarlo via dalla poltrona per un'avventura dicembrina, Rigel sembrava trarre un qualche perverso piacere nell'imporgli la propria volontà e vederlo, anche se con malagrazia, sottomettersi ad essa. Tanto valeva rassegnarsene. Tra una settimana al massimo, si sarebbero detti addio in definitivo. «Considerato che noi siamo in ritardo» stava continuando, per l'appunto «lei dovrebbe essere qui a momenti».
«E dov'è andata, di grazia?» il tono di Numero Nove –infreddolito nel suo leggero cappotto blu e jeans attillati– si faceva suo malgrado sempre più irritato. Come biasimarlo? Per un capriccio irrazionale di Rigel, era stato sottratto al tepore del salotto orientale e al suo whiskey incendiario; e la calda contentezza all'idea di rivedere Bizzie veniva meno a ogni nuovo dettaglio sul perché se ne fosse andata in prima battuta. Per non parlare poi dell'atmosfera pesante in quel vicolo buio della Londra periferica, baciato da un vento gelido e pungente, che Numero Uno neanche si sforzava di alleggerire. «L'hai spedita fuori città?».
«Nelle campagne oltre Londra» rispose l'altro, accelerando e volgendo lo sguardo sull'asfalto rovinato. Pochi bui edifici –casermoni senza finestre o palazzine inanimate di appena un paio di piani– incorniciavano la via; delle vecchie auto si addossavano a marciapiedi malandati, ma non avevano ancora incrociato alcun passante. L'unica forma di vita era rappresentata dallo sporadico abbaiare lontano dei cani randagi. In quello scenario da film horror, eccezion fatta per i passi sicuri di Rigel e la sua voce ferma, non c'era proprio nulla di rassicurante. «Doveva fare delle commissioni per conto mio. Dopo la morte di papà, io non potevo muovermi da casa perché il Ministero mi aveva imposto una traccia temporanea e c'era bisogno di liberarsi di alcune... cose, nel modo più discreto possibile. Quindi senza magia» si curò di puntualizzare «visto che ormai anche la magia elfica è rintracciabile. Bizzie ha capito che era una questione importante e si è offerta di farla per me»
«Fammi capire» Alexis alzò il passo per stargli dietro, la fronte aggrottata e una smorfia sulle labbra «Hai mandato Bizzie nelle campagne inglesi a "liberarsi di alcune cose" senza magia, tutta sola?»
«Non era sola» nel tanto, Numero Uno si rifiutava ancora di guardarlo negli occhi e finalmente si fermava, la sua voce colorata di irritazione riflessa ma comunque solida e paziente. La strada giungeva a un bivio: da una parte, grossi lampioni illuminavano una via asfaltata e alcuni cartelli indicavano la prossimità della città di Maidstone, dall'altra un sentiero sterrato e buio si snodava tra i campi. Rigel guardava il secondo. «Sarebbe potuto accadere di tutto. Qualche babbano malintenzionato, un animale feroce, una tempesta... non l'avrei mai mandata da sola. Ci sono le mie ombre con lei»
«Le tue ombre, ovvio!» esclamò Alexis, con la voce che bruciava di sarcasmo «Questa sì che è una risposta rassicurante! E dimmi, è via da quanto, in compagnia delle tue amabili ombre?»
«Le ho dato dieci giorni per inoltrarsi nelle campagne e trovare un posto abbastanza remoto da non essere trovato almeno nel giro dei prossimi quattro anni. Le mie ombre si sarebbero occupate di portare i pesi eccessivi e proteggerla, ma lei avrebbe dovuto svolgere il compito più importante: scavare» si bloccò un attimo, forse chiedendosi se non stesse rivelando troppo o forse per riprendere fiato. Gli rivolse un'occhiata di sfuggita, prima di continuare: «Avevo bisogno che occultasse i cadaveri dei cavalieri che–»
«Occultare cadaveri!?» Numero Nove lo afferrò bruscamente per un braccio, costringendolo a voltarsi verso di lui, a incontrare il suo sguardo incredulo e oltraggiato «Rigel» ad Alexis prudevano le mani «guardami in faccia e dimmi che non hai ordinato alla creatura che ci ha cresciuto ed amato di seppellire le tue vittime nelle campagne londinesi senza magia»
«Io non potevo abbandonare casa» replicò Numero Uno, a denti stretti «e Bizzie è l'unica di cui possa fidarmi per certe cose»
«Ti rendi almeno conto di cosa l'hai costretta a fare?» la sua voce traboccava di orrore «Lei è parte della famiglia!»
«E tu sì che sei un esperto di famiglia!» ribatté Rigel di scatto, senza però accennare a muoversi e calando nel tono di almeno un'ottava. Ciò che stava per dire, gli alberi e l’asfalto e i pipistrelli non potevano sentirlo.  Era un segreto. Una frana inaspettata. Quasi che lui stesso non potesse mangiarsi quelle parole e fosse costretto a sputarle via. «Te ne sei andato di casa appena preso il diploma e da allora non ti sei più fatto vedere né sentire. L'ultimo ricordo» disse, con estenuante lentezza «che nostro padre ha di te sono le tue urla, prima che tu abbandonassi tutti noi senza un saluto. Non hai idea di quanto sia stato in pena per te, di quante volte abbia pensato...» la frase si perse nel silenzio, prima che Rigel si sottraesse alla sua presa e lo guardasse con occhi sottili e minacciosi «Per com'è andata la storia, tu non sei nella posizione di farmi ramanzine su come si tratta una famiglia o sull'amore in generale. Non ho ordinato niente a Bizzie» ripeté, con una convinzione spaventosa «Lei sapeva che era la cosa giusta da fare, che era per proteggere la nostra famiglia e non ha esitato a farla. Questo è amore: non porre domande, non nutrire dubbi, avere fede. Ma che ne puoi sapere» gli scappò dalle labbra una risata amara «tu dell'amore?»
«Almeno io» fu la risposta pronta di Alexis, rovente laddove l'altro era gelido «non mi illudo di essere stato amato da nostro padre»
Rigel era sul punto di controbattere ancora, quando qualcosa costrinse entrambi a voltarsi. Dal buio del sentiero sterrato si andò delineando una figura bassa e sottile, con grosse orecchie animalesche e giganteschi occhi verdi. Si accorsero del suo arrivo dal rumore dei suoi passetti sul selciato, dal suo respiro pesante. Lei era a due metri di distanza. Sotto il vestitino color menta lacero e sporco, la sua pelle era così tesa da sembrare carta e i suoi movimenti erano impacciati da un tremare insistente. Attorno a lei, decadenti nel loro fascino oscuro, fluttuavano le ombre.
Bizzie.
«Padrone» mormorò, una mano tesa verso di Numero Uno «Sono tornata, padrone»
Rigel non aspettò che dicesse altro. Dimenticò del tutto Alexis e ciò che stava per dire. Le andò incontro a grandi falcate e la sollevò senza fatica, stringendola tra le braccia come si fa con i bambini, con una delicatezza ferma che sa di protezione. L'elfa aspettò di affondare il musetto nell'incavo del suo collo per scoppiare in lacrime. Ad Alexis si spezzò il cuore. Nei suoi ricordi, Bizzie era sorridente ed infinitamente dolce, adorabile nei suoi abitini pastello e lunghe calze colorate e sempre pronta a curare qualsiasi male dei suoi bambini con tè caldo e biscotti appena sfornati. Vederla piangere di tristezza e di terrore era uno spettacolo del tutto nuovo. Sentì l'impulso di unirsi a quella riunione, di abbracciarla e farsi carico, in parte, del bagaglio di dolore che si portava addosso. Ma, in fondo, quale diritto aveva lui, lui che se n'era andato otto anni prima e non si era mai preso la briga di spedire una lettera o una foto? Quale bene poteva farle la sua presenza? La tenerezza con cui Rigel la stringeva tra le braccia e le sussurrava parole dolci all'orecchio, ecco, Alexis non era sicuro di poterle dare un conforto del genere. D'altronde suo fratello aveva ragione. Lui non aveva mai conosciuto quel tipo di amore. La dolcezza cauta con cui ora la poggiava a terra e si sfilava la giacca di pelle per metterla sulle spalle gracili e tremanti dell'elfa domestica, Numero Nove non la conosceva. Da una vita, si limitava a guardarla, a cercare invano di afferrarla.
«Padrone, padrone» continuava a mormorare Bizzie, tra i singhiozzi «Faceva così freddo, padrone, e com'era buio, com'era buio...»
«Ci sono io, non aver paura. Sono qui» le rispondeva paziente Rigel, ora inginocchiato alla sua altezza per poterle accarezzare le gote con dita gentili «Anzi, ti ho portato qualcuno. Niente ombre, stavolta» le assicurò, quando l'elfa scosse la testa con veemenza «Ti ho portato qualcuno di carne e sangue, con un cuore che batte. Va tutto bene, Bizzie, ci sono io» le prese il volto tra le mani e le rivolse un sorriso d'incoraggiamento «Te lo ricordi Alexis? Era uno dei tuoi bambini, tanto tempo fa. Quando cantava sotto la doccia, lo si sentiva per tutto il primo piano e profumava sempre di quel suo shampoo alla cannella. Non smettevi mai di dire a me e papà che era un angelo, non un soldato» all'annuire timido dell'elfa, il suo sorriso si allargò «Alle feste di famiglia, si slegava la cravatta e metteva la matita intorno agli occhi e tu gli dicevi che sembrava una rock star, ti ricordi?» non disse che Octavius lo guardava con disapprovazione e si risparmiava una scenata per amor della sua immagine pubblica, ma lei sembrò tranquillizzarsi a quel ricordo «E a Natale i suoi regali erano quelli che ti piacevano di più, anche se fingevi di non avere favoritismi. Quando avevamo quindici anni» continuava a raccontare «ti regalò un vestitino di paillettes e tu promettesti che l'avresti messo nelle occasioni più importanti. Allora, te lo ricordi Alexis?»
Bizzie –il volto affondato nelle mani di Rigel e gli occhi verdissimi fissi nei suoi– annuì con più sicurezza.
Numero Uno non si risparmiò un altro sorriso e, mentre la mano destra scendeva sulle spalle dell'elfa, con la sinistra le accarezzava gli zigomi alti. Scoccò ad Alexis un'occhiata di traverso e lui colse il sottinteso. Si avvicinò a loro con l'incertezza di chi crede di essere in un sogno, perché quella scena traboccava d'assurdo. Fino alla settimana precedente, Numero Nove era convinto che non avrebbe mai più visto nessuno dei suoi fratelli; ora invece assisteva a un momento epocale, nel quale la sua presenza era al contempo scomoda e calzante. Numero Uno, che per anni era stato piatto e grigio, si faceva sempre più sfaccettato e sfumato. E Bizzie, rovina sacra di una scorsa vita, era lì d'avanti a lui. Inginocchiarsi accanto a lei fu un'esperienza irreale.
All'immagine delle sue memorie, si sovrappose la realtà dei fatti. Bizzie era la stessa di sempre, sì, ma anche dieci anni fa aveva quelle occhiaie? E già le sporgevano così tanto, prima che andasse via, le clavicole? Quei pensieri gli passarono per la mente soltanto per qualche secondo, perché subito l'elfa –sottilissima nell'abitino lacero e nella pesante giacca di Rigel– gli rivolse tutte le proprie attenzioni, puntandogli addosso uno sguardo ineludibile, di quelli che scavano dentro. Alzò una manina fino a toccargli la guancia, sfiorandogliela appena con i polpastrelli. Quando gli sorrise, Alexis ricambiò di riflesso. Impossibile non farlo. E quando gli occhi di Bizzie iniziarono a riempirsi di lacrime e lei prese a tirare su con il naso, Numero Nove si sporse verso l'elfa e si lasciò abbracciare del tutto, mentre lei ricominciava a piangere. Si concesse di stringerla a sua volta, almeno per un po'. Di affetto, negli ultimi anni, non ne aveva ricevuto granché.
«Alexis» la voce di Numero Uno era bassa e accorata «Si sta facendo tardi e Bizzie è già stata troppo tempo fuori casa; è meglio se andiamo»
Alexis rinsaldò la presa sotto le braccia dell'elfa e si alzò, stringendola forte contro il petto. Bizzie era anche più leggera di quanto ricordasse. Rigel gli rivolse per qualche secondo uno sguardo di cauta misurazione, come se si chiedesse fino a che punto fosse opportuno fidarsi, prima di sospirare. Se aveva freddo, non lo disse. Attese, senza fiatare, che l'altro sistemasse meglio l'elfa tra le braccia e, anzi, si avvicinò anche per sistemarle meglio la giacca sulle spalle. Una volta finito, gli porse il braccio. Alexis vi si aggrappò, sentendo sotto il palmo la morbidezza della lana grezza del maglione, ancora calda per miracolo. In un attimo, si smaterializzarono.
 
 
 
 
 
23:41, 22 Dicembre 2020, Londra (UK), The Ned
«Non se ne parla» fu la risposta netta e inflessibile dello Zar «Tradire il Generale è un suicidio»
«Questa missione lo è» replicò Apollo. La sua voce non ammetteva contradizioni.
«E cosa intendi fare?» il tono di Elijah era apertamente derisorio «Obliviarlo? Mandargli una lettera di scuse e un cestino di muffin per il disturbo?» il suo sguardo trovò gli occhi prima di Nasheeta e poi di Kasumi «Ci farebbe a pezzi»
«Beh, con questo atteggiamento» considerò Apollo a sopracciglia inarcate «non vedo altro esito. Kitsune, ti va di sostenermi un po’?»
«Ribellarsi è la peggiore idea che ti sia venuta da quando ti conosco,» Kasumi accavallò le gambe con eleganza «ma è un’alternativa migliore al progetto del Generale, almeno. E no, no Zar» aggiunse, rivolta al suo collega «Non ci pensare neanche. Se riuscissimo nel nostro intento, cosa improbabile ma non impossibile, sarebbe comunque un massacro. Non ho intenzione di aiutarti ad ammazzare nove persone. È fuori discussione»
«Lo è anche una ribellione» insistette lo Zar «L’Ordine conta novantaquattro Cavalieri e tutti e novanta ci starebbero addosso. I Cleremont invece sono dei ragazzini. Pensateci bene» il suo tono si fece basso e cospiratorio, il suo sorriso obliquo «Presi singolarmente, sono bersagli mediamente semplici; per non parlare del fatto che li abbiamo già combattuti, quindi sappiamo i loro punti deboli»
«Punti deboli?» nessuno si aspettava un’obiezione proprio da Nasheeta «Perdonami, forse ero troppo impegnata a farmi torturare mentalmente per accorgermi di questi suddetti punti deboli»
«Questa fa male» mormorò Apollo in un sorriso.
Lo Zar gli scoccò un’occhiataccia di sfuggita, prima di iniziare a elencare: «Numero Quattro, Numero Cinque e Numero Sette non usano più i loro poteri. Numero Sei e Numero Nove, anche volendo, hanno capacità inoffensive. Numero Due è un pericolo solo se associato a uno dei suoi fratelli. La rigenerazione di Numero Otto non è più veloce come un tempo. Numero Tre ha la guardia abbassata e manca di iniziativa, mentre Numero Uno non può affrontare quattro avversari alla volta»
«Ma ti senti mentre parli?» Kasumi aggrottò la fronte «Stai progettando una serie di assassinii a sangue freddo, di persone che non hanno fatto nulla di male. Sono innocenti»
«E io» ribatté Elijah «sono un sicario. È il mio lavoro. Mi pagano per questo. E dalle mie prestazioni» ignorò volutamente la mezza risata di Gideon «dipendono l’istruzione di mia figlia, le mie vacanze al lago e attualmente anche la mia pelle. È un impiego come un altro, una professione salariata al pari di qualsiasi. Se il mio capo mi impone di eseguire un certo compito, io lo porto a termine e non progetto una ribellione armata per evitarlo»
La Kitsune scosse la testa «Non è così semplice. L’Ordine ha sempre seguito un codice morale»
«E invece ha ragione lo Zar» intervenne Gideon, scoccando un sorriso al suo collega «Tu magari non ti occupi degli assassinii di per sé, ma sono parte integrante degli affari dell’Ordine e il codice morale del Generale è stato messo in discussione ben più di una volta. Il problema» soggiunse, sbuffando «non è questo. Far fuori l’intera Umbrella Academy non sarebbe una passeggiata. Fattibile? Sì. Facile e veloce? Affatto. Non abbiamo abbastanza tempo per portare a termine una missione del genere con la cura necessaria e uscirne tutti interi. E il Generale lo sa. Ci ha attirati in una trappola»
«Il Generale non lo farebbe mai» Nasheeta mise su un’espressione ostinata «Siamo i suoi Cavalieri, Apollo! È contro il suo stesso interesse farci del male o spingerci ad andar via. Sono sicura che ci sia stato un malinteso, che non abbia compreso fino in fondo la situazione»
«E invece sei tu che non capisci» Elijah le rivolse uno sguardo severo «Il Generale ha capito anche troppo. Si è accorto che abbiamo iniziato a farci domande e che non avremmo accettato l’incarico per come lui lo intendeva sin dall’inizio. Credi che gli servissero davvero i documenti di Cleremont?» quella che gli scappò dalle labbra fu una risata roca e amareggiata «Povera sciocca»
«Siete tutti fuori di testa!» la Sfinge li guardava come se i suoi compari fossero ammattiti all’improvviso «Dalle mani ci si può lavar via tutto, ma non il sangue innocente» recitò, con una certa meccanicità nel tono «Sono del Generale queste parole, prima ancora che mie, e dovrebbero essere anche vostre! Questa discussione… ecco, questa discussione non ha alcun senso. Il Generale non vorrebbe che versassimo sangue invano e se credete il contrario, allora state sbagliando tutto!»
«Sfinge, sii ragionevole» la voce di Gideon era accorata, il suo sguardo morbido. Fece leva sui gomiti per alzarsi dal pouf, con l’ombra di un’intenzione sul volto, ma lo bloccarono i movimenti nervosi di Nasheeta, il percorso sconnesso che i suoi occhi tracciavano per la stanza. Si arrestò. In quel momento, più che una spia internazionale, pareva un cervo spaventato in mezzo alla strada, passi felpati nel cuore della notte e sguardo folle tra l’asfalto e il selciato. Spalle rigide e labbra serrate, Gideon tornò a stendersi sul pouf.
«Hanno ragione loro, Sfinge» soggiunse Kasumi, con un’aria rassegnata che non le si addiceva «Il Generale deve mantenere certe apparenze. Non poteva chiederci di uccidere nove innocenti per un suo personale capriccio, per una vendetta che desidera contro Octavius Cleremont. I documenti erano un pretesto plausibile e ora vuole spacciare questa evoluzione della missione come una diretta conseguenza del nostro fallimento»
«Devi ammettere che era ben architettato» la supportò Apollo, con una cautela che non gli si addiceva.
«Io non…» la presa di Nasheeta sul libro si fece spasmodica, la sua espressione a metà tra l’incredulità e la disperazione «il Generale non lo farebbe mai. Voi non sapete– lui non sa, ma se solo sapesse…» i suoi occhi color cioccolato corsero a cercare quelli dei suoi colleghi «Artemis e Oliver Cleremont hanno fatto, nel tempo all’Umbrella Academy, seimila ore di volontariato in rifugi per animali. Esmeralda Cleremont passava i suoi finesettimana estivi ad aiutare i magichirurghi in operazioni che duravano anche intere nottate. Caesar Cleremont–»
«Nulla di tutto ciò ha importanza» l’interruzione dello Zar arrivò di scatto, inaspettata e dolorosa come un colpo di frusta «E tu non avresti mai dovuto leggere quel libro»
«Questo libro» ricalcò lei a voce bassa «mi ha aperto gli occhi su quello che tu vuoi fare». Non guardava più nessuno in particolare e a chi si stesse rivolgendo divenne un mistero «Loro non meritano di morire. Sono… sono soltanto dei ragazzi»
«Sono carne da macello» sentenziò lo Zar, occhi freddi quanto la sua pelle, schegge di vetro per parole «Non dovresti sapere neanche i loro nomi. Figurarsi le loro attività estive. Il nostro lavoro richiede una lucidità mentale che non stai dimostrando, Sfinge. Ti pagano per uccidere. Profumatamente» soggiunse, in un sorriso tutto denti e sarcasmo ugualmente affilati «se posso dire la mia. Il minimo che puoi fare per la tua sanità mentale e per l’integrità dell’Ordine è essere professionale. Io ti ho proposta al Generale» e la Sfinge incassò la testa nelle spalle «perché mi fidavo del tuo giudizio e credevo avessi ciò che serve, ma ora non ti riconosco più. Sto iniziando seriamente a pentirmi di averti messa in mezzo e sai anche tu qual è il motivo» si fermò per qualche momento, quasi a incoccare altri dardi; cos’era quella, d’altronde, se non una battaglia? «Ormai non puoi tirarti indietro, certo, però è ovvio che tu sia ancora troppo giovane per prendere una decisione del genere»
«E questo–» Nasheeta cercò in sé la forza di guardarlo negli occhi, di apparire sicura «questo cosa vorrebbe significare?»
«Significa esattamente quello che ho detto» rispose lo Zar, inflessibile «Sei troppo giovane ed è stato un mio errore affidarti il fardello di questa decisione. È ovvio che il tuo concetto di giusto e di sbagliato è ancora troppo netto. Io e la Kitsune» si voltò verso di lei «ci occuperemo di trovare una scappatoia a questa faccenda» la discussione era chiusa «Vi contatteremo quando lo riterremo opportuno».
«Io non sono troppo giovane!» la Sfinge, contro l’aspettativa di tutti, scattò in piedi. Il pesante volume di cuoio cadde a terra con un tonfo, ma nessuno ci fece caso. Stringeva il pugno della mano destra spasmodicamente, quello sinistro si apriva e chiudeva in movimenti secchi e impazienti. La chiamava l’istinto di impugnare la bacchetta. «E sono perfettamente capace di dare giudizi assennati! Ho preso parte a questa missione perché io me la sono meritata, perché io ho dimostrato il giusto talento, perché io ero la persona giusta. Questo merito che ti accaparri da quando lavoriamo insieme è una bugia. E lo sai! Io ho tanto diritto quanto te di decidere!»
«Tu» allo Zar bastò alzarsi per sovrastarla con il suo metro e novanta di altezza e le sue spalle larghe e il suo sguardo di seccata sufficienza, ennesima mossa di un gioco troppo sporco. Di veleno ce n’era ancora in abbondanza. «non hai esperienza dell’Ordine. Tre anni di tirocinio sotto la mia ala evidentemente non sono stati abbastanza per insegnarti gli attributi essenziali di ogni Cavaliere»
«Obbedire ciecamente–» provò a ribattere lei.
Lo Zar non la fece neanche finire «È parte fondamentale dell’Ordine. Non hai studiato a scuola il rapporto tra feudatario e cavalieri? Devi imparare a rispettare i tuoi superiori e seguire gli ordini che ti vengono dati. Al momento» questa volta prese bene la mira «sono io il tuo superiore e ti dico che questa decisione non ti riguarda»
Nasheeta riuscì a reggere il suo sguardo per qualche secondo, prima che –a mascella e pugni serrati, labbra pressate e occhi lucidi– lo abbassasse e girasse i tacchi. Per poco, mentre si rintanava in bagno, non inciampò nelle gambe distese di Gideon. Sbatté la pesante porta di legno dietro di sé e con ogni probabilità applicò rapidamente un incantesimo di privacy perché non se ne sentì provenire alcun rumore. Non era difficile indovinare che stesse piangendo.
«Direi che era inevitabile» commentò Gideon, quando fu chiaro che non sarebbe tornata.
«E io direi che siete due bastardi» Kasumi si lasciò cadere all’indietro sul materasso con un lungo sospiro «e che questa situazione non potrebbe andare peggio»
«Meglio non dirlo ad alta voce» la ammonì Elijah, passandosi una mano tra i capelli «Non c’è mai fine al peggio. Ma è anche vero che ora non possiamo fare molto. La cosa più ragionevole è andare a dormire e lasciare che la notte– no, che l’insonnia ci porti consiglio. Domani io e te» accennò alla Kitsune «inizieremo a fare ricerche. Voglio sapere come il Generale è salito al potere, chi c’era prima di lui e quanti uomini sono al suo diretto comando»
Alla Kitsune, stesa sul letto di Apollo a guardare il soffitto con un’espressione pensosa, bastarono un paio di secondi per decidere di sorprendere tutti e rispondere con un secco: «Scordatelo».
Elijah aggrottò la fronte «Come, prego?»
«Hai sentito la signora» Apollo non cercò neanche di nascondere il suo stupore.
«Il viaggio in Germania mi ha spossato psico-fisicamente» spiegò Kasumi, con il tono più serio che potesse permettersi a quell’ora di notte e in quella situazione. Non che non fosse a pezzi. È solo che si era resa conto, a differenza della Sfinge, che ai suoi egregi colleghi le minacce esplicite non piacevano granché. Specialmente allo Zar. «Ho bisogno di un po’ di tempo per riposarmi in un hotel di lusso babbano e caso vuole che abbiate appena reso la Sfinge molto, molto irritata. Fossi in voi» nella sua voce si fece forte una vena di divertimento «non vorrei essere qui quando uscirà da quel bagno».
«E io che centro?» obiettò Gideon «È colpa mia se lo Zar è delicato come un platano picchiatore?»
«Ti prego, Apollo, non esagerare con questi complimenti» fu il commento a mezza voce di Elijah.
Per tutta risposta, Gideon gli ammiccò, sfoggiando il suo sorriso più obliquo.
«Apollo,» Kasumi non si sforzò neanche di alzarsi dal letto e, anzi, si tolse gli stivali con un movimento preciso della bacchetta e si mise ancora più comoda «tu sei suo amico e sei rimasto lì a guardare mentre lo Zar, che in teoria dovrebbe essere il suo mentore e guida nell’Ordine, la umiliava. Quindi sì, ora vi odia entrambi» concluse, mentre si prendeva il giusto tempo per sprimacciare adeguatamente il cuscino «e vi odierò anch’io se proverete a scollarmi da questo letto per i prossimi tre giorni»
«Kitsune» il tono di Elijah era passato dal sorpreso al disperato nel giro di una parola «vuoi davvero farmi lavorare con Apollo?»
«Te lo meriti» rispose la Kitsune «Vi meritate entrambi di lavorare insieme. E ora, sparite dalla mia suite prima che sia io a cacciarvi».
Lo Zar pensò di obiettare un’altra volta, ma si rese conto, ancor prima di aprire bocca, che era una pessima idea. Conosceva relativamente da poco la Kitsune, ma nell’Ordine aveva una reputazione pressappoco spaventosa e chiunque la conoscesse gli aveva consigliato con calore di non provocarla più di tanto. Ognuno aveva un’impressione diversa di lei, è vero. Alcuni dicevano fosse fredda come il ghiaccio, altri insistevano dicendo che sapeva essere dolce a modo suo e in generale era molto rispettata. Ciò su cui tutti concordavano, però, era che la Kitsune prestava sempre fede alle sue minacce e lo Zar sapeva riconoscere una partita persa in partenza.
Dunque, tra i sospiri e i borbottii scontenti, i due uomini uscirono dalla suite.
L’uno in jeans scuri, piedi nudi e cardigan e l’altro in pantaloni stretti, stivali e camicia nera, rimasero per qualche minuto in silenzio fuori dalla porta.
Poi, come risvegliato da un’ipnosi, Apollo si girò verso il suo compagno e gli si rivolse con quell’aria smaliziata a cui non si sarebbe mai abituato «Scommetto» disse, a voce bassa e labbra appena sollevate «che non vedevi l’ora che rimanessimo soli»
Per tutta risposta, lo Zar alzò gli occhi al cielo e si smaterializzò.
 
 
 
 
 
23:47, 23 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
Il ritorno a casa fu un delirio.
Quando si smaterializzarono in salotto –Alexis con Bizzie tra le braccia e Rigel con un’espressione quasi felice–, ci furono dieci minuti di caos generale, di esclamazioni sorprese e di gioia liquida, occhi che cercano occhi e braccia che si incastrano. Nessuno, tra chi sapeva, fece cenno alla ragione dell’assenza dell’elfa ed esso venne presto dimenticato in favore della contentezza ignorante del ritrovarsi. Quella, d’altronde, non era che un’altra lezione di casa Cleremont. Una delle prime. Mai fare domande di cui non si vuole sapere la risposta. Tutti, nel salotto orientale, percepivano che c’era qualcosa di losco sotto la lunga assenza di Bizzie, ma nessuno di loro voleva davvero conoscerne le dinamiche. A Rosewood, la gioia era da sempre un bene prezioso. Perché metterla in dubbio e rischiare di contaminarla?
D’altra parte, era difficile guardare il visetto a punta di Bizzie e non sentirsi coinvolti dalla sua allegria. L’elfa zampettava di qua e di là per la stanza, lasciandosi stringere da tutti i suoi bambini, uno per volta, troppo scossa per dire qualcosa che poi non si sciogliesse in un pianto. Nessuno, comunque, pretese di più da lei. Il salotto orientale –che era stato da sempre un luogo di conversazioni fitte e cospiratorie, di affari loschi e contrattazioni– conobbe finalmente qualcos’altro. Risate. Voci alte e chiare. La morbidezza di un’atmosfera familiare. Artemis era corsa a prendere una delle sue coperte ricamate, testimonianze di quel periodo in cui aveva deciso di imparare le arti casalinghe, nella quale aveva avvolto Bizzie, ora su uno dei divani tra Levi ed Ezra. Così, riprese le proprie postazioni in giro per la stanza, la serata aveva ritrovato il suo ritmo lento.
«Di certo questa casa è tutta un’altra senza Bizzie» commentò, a un certo punto, Esmeralda.
Accanto a lei sul divano, come a separare miracolosamente Numero Otto da Numero Tre, Oliver annuì «Sono sorpreso che la casa fosse ancora in piedi quando sono arrivato, l’altro giorno»
«Andiamo, è mancata per… quanto? Una settimana?» replicò Artemis, di nuovo appostata accanto a Numero Uno, con un sorrisetto affettuoso «Rigel se la caverebbe benissimo anche per un mese»
Alexis inarcò le sopracciglia in un modo così apertamente derisorio che Numero Sette si imbronciò ancor prima che aprisse bocca «Sei sicura che parliamo della stessa persona?».
«Se pensi che Rigel non sia capace di dar fuoco a tutta Rosewood in mezza settimana,» corse in suo supporto Tony «significa che ti sei dimenticata che è stato proprio Rigel ad appiccare l’incendio del 2008»
«Non di nuovo questa storia» li implorò Levi «Avevamo promesso di lasciarcela alle spalle»
«Soprattutto perché io non ho avuto niente a che fare con quell’incendio» grugnì Numero Uno, a voce talmente bassa che solo Artemis lo sentì.
«Io ho sempre pensato che in realtà il colpevole fosse Ezra» commentò Esmeralda, scoccando un’occhiata diffidente a Numero Due «Caso vuole che sia stato lui ad accorgersi del fuoco in prima battuta e nell’Umbrella Academy le coincidenze non esistono»
«Io? Di nuovo?» Ezra tirò un profondo sospiro «Non so quale sia il tuo problema, Esme, ma in qualche modo sono sempre coinvolto nelle tue teorie complottistiche. Io non ero neanche in palestra quando è scoppiato l’incendio!»
«Beh, sì» annuì lei, con fare accondiscendente e un sorriso furbo «Questo è quello che vorresti farci credere, non è così? Ma se c’è qualcosa che ho imparato da Agatha Christie è che–»
«Tutti in favore che Esmeralda non apra mai più un libro giallo babbano in vita sua?» la interruppe Oliver. Per i tre divani si diffuse un mormorio di approvazione e Numero Sei sorrise, soddisfatto «Allora possiamo andare avanti».
«Infatti, ci siamo già distratti dalla discussione principale» lo appoggiò Alexis «Ovvero il fatto che è un miracolo che Rigel non abbia fatto scoppiare la casa negli scorsi dieci giorni e che ci conviene sperare che Bizzie non se ne vada mai più»
«Eh, sì» il sorriso di Caesar si fece un po’ più idiota del solito «Menomale che c’era Joanna, no?»
Nessuno fece, come invece si aspettava, eco alle sue risate o replicò alla battuta, anzi. Rigel aggrottò la fronte. Esmeralda inarcò le sue belle sopracciglia arcuate. Persino Bizzie –infagottata nella copertina a fiori da cui spuntavano solo i suoi occhioni verdi, il musetto e le grandi orecchie– sembrò alquanto confusa.
«Menomale che c’era… chi?» ripeté Numero Uno.
«Jo…anna?» fu la risposta incerta di suo fratello «La domestica asiatica che si veste solo di nero e si porta dietro la maschera delle pulizie intelligenti e ha un’evidente cotta per me»
L’espressione di Esme si evolveva man mano dal divertito al preoccupato, mentre Rigel lo fissava.
«Andiamo, te la sei già scordata? È molto carina e ha un accento giapponese, se la mia gioventù bruciata in giro per l’Asia è stata utile in qualche modo» insistette Caesar «Oh, Rigel, com’è possibile che assumi personale e poi non ti ricordi neanche di come si chiama? Sei anni senza di me ti hanno reso un manichino!»
Numero Uno continuava a fissarlo con una crescente aria da sociopatico.
In un istante, Oliver seppe che non sarebbe finita bene.
«Aspettate un attimo» intervenne Artemis, poggiando una mano sul braccio di Rigel con il solo risultato di farlo irrigidire ulteriormente «Caesar, per favore, puoi ripeterci un attimo dove e come hai conosciuto questa donna?»
«“Donna” è un po’ un’esagerazione; non poteva essere più vecchia di noi» rifletté lui «Ma comunque l’ho conosciuta la scorsa sera, poco prima dell’attacco. Dev’esserne stata terrorizzata o doveva avere un paio di giorni liberi, perché non l’ho più vista da allora»
«E siamo davvero sicuri che non fosse un’allucinazione?» indagò Tony, con il solito scetticismo.
«Ma certo che no, non sono mica così fantasioso» replicò Caesar «Anche perché non avevo idea che la volpe fosse simbolo delle pulizie intelligenti o che ci fosse un’accademia di magizoologia qui a Londra»
«Mi sembra ovvio che non lo sapessi» Esmeralda era sempre più seria «Non c’è un’accademia di magizoologia qui a Londra; non ricordate» soggiunse, rivolta anche agli altri «che Elizabeth Wood, di Serpeverde, è dovuta andare a studiare magizoologia all’estero perché non c’era un’accademia nel Regno Unito? Mentre per quanto riguarda le “pulizie intelligenti” sono sicura che–»
«Concentriamoci sulle cose importanti» la interruppe Ezra «Dove hai visto questa donna e cosa le hai detto? Mi sembra di aver capito che non c’è una domestica incaricata di pulire casa al posto di Bizzie e con ogni probabilità sei entrato a contatto con uno degli aggressori»
«Aggressori?» Caesar mise su un’espressione di stupore devastato «Joanna non farebbe male a una mosca! È una magizoologa»
«Caesar, caro» il tono di Artemis era, ancora una volta, tutto zenzero e miele «non sono sicura che il suo nome sia Joanna, né che studi davvero magizoologia. Per quanto ne sappiamo, potrebbe averti mentito per evitare uno scontro frontale e continuare la sua missione. Abbiamo stabilito che c’era un mutaforma in giro, no?»
«Joanna ha detto che lei stava…» Numero Tre si fermò per qualche secondo, come se si fosse appena ricordato un dettaglio cruciale della storia, e poi il suo stupore sfumò in una fredda neutralità «Era diretta verso lo studio di papà. Dev’essere stata lei a metterlo del tutto a soqquadro e dio solo sa cos’abbia preso. Cazzo!» si prese la testa tra le mani e borbottò tra sé qualche altra imprecazione «Sono un tale deficiente»
«Andiamo, Che» Oliver gli diede una compassionevole pacca sulla spalla «Le belle ragazze sono sempre state il tuo punto debole»
«E, in fondo» soggiunse Esmeralda, cercando di rassicurare più Numero Uno che Numero Tre «in fondo non hai rivelato nessuna informazione segreta, no? L’hai solo… lasciata andare. Poteva andare molto, molto peggio. E, considerando che non ha neanche trovato ciò che cercava nello studio di papà, non è neanche una perdita immensa, no?»
Tutti gli occhi erano, ancora una volta, puntati su Rigel. Tutti tranne quelli di Caesar. Numero Uno, invece, guardava Bizzie; e fu proprio senza staccarle gli occhi di dosso, tenendo bene a mente la situazione in cui si trovava, che scelse le sue parole. «Comunque stiano le cose, ciò che è stato è stato. Esmeralda ha ragione» a tutti era chiaro che quanto quella pacatezza gli stesse costando «Da ora in poi, però, è meglio che nessuno trascuri questi dettagli. In casa non c’è nessuno eccetto noi e non siete autorizzati a invitare gente a Rosewood senza prima avvisare tutti gli altri. Chiaro?»
«Non penso che qualcuno avesse in programma dei party a tua insaputa,» commentò Ezra «ma lo terremo a mente»
«Andiamo» tentò Oliver, stampandosi in faccia quel sorriso allegro che stonava con le espressioni meditabonde dei suoi fratelli «Poteva andare decisamente peggio! E poi venticinque anni non è la peggiore delle età per imparare a non fidarsi degli sconosciuti. Abbiamo poco tempo insieme, tra le vacanze di Natale e i sicari che a quanto pare ci danno la caccia; proviamo a godercelo»
Hillevi fu la prima a raccogliere, seppur a tentoni, il tentativo di rallegrare la situazione «Oliver ha ragione. Da ora avremo più accortezza, ma non vale la pena rimuginare. Tra l’altro, Bizzie è qui da mezz’ora e già la stiamo trascurando: questo dimostra che non sappiamo goderci le belle cose neanche quando le abbiamo d’avanti agli occhi»
«Magari» propose Artemis, occhieggiando vagamente Bizzie –al momento addormentata sulla spalla di Ezra– «è ora di andare a dormire, sia per Bizzie che per noialtri» suggerì «Anche perché domani affronteremo la questione del testamento, visto che siamo al completo.»
«Mi sembra un’ottima idea» borbottò Rigel, mentre si tirava su dal divano con un sospiro «Bizzie ha bisogno di riposo. E anche noi»
«Io ho bisogno di tre o quattro sigarette» Esmeralda ignorò volutamente l’occhiataccia di Numero Sette «quindi penso che rimarrò qui per un altro po’. Sentitevi liberi di trattenervi per il mio salotto immorale»
Artemis pressò le labbra in una linea sottile di impazienza «Esme–»
«Vi prego, non ricominciamo» le implorò Levi. In quanto terza donna della famiglia, era l’unica ad avere il diritto di mettersi in mezzo ai litigi delle sue sorelle senza rischiare di essere fatta a pezzi da entrambe «Artemis, nessuno ti costringe a fare niente. Esme, non essere sarcastica»
«E poi sono io quello che avrebbe appiccato l’incendio» borbottò Numero Uno tra sé e sé, prima di schiarirsi la voce e chinarsi per sollevare l’elfa dalla sua comoda postazione «Porto Bizzie a letto. Voi siete liberi di fare quello che volete, fintanto che non fate rumore»
«Credo che siamo più che stanchi a questo punto» intervenne Artemis, con un sorriso tutto labbra e parole non dette «Sarà meglio se andiamo tutti a dormire»
«Allora magari noi ci incamminiamo» Caesar si districò da quell’intricato disegno di gambe e braccia che erano Numero Sei e Numero Otto per rivolgersi ad Artemis, porgendole una mano con cavalleria «Ti va se ti accompagno?»
Lei appoggiò appena la mano su quella di Numero Tre e si alzò in un frusciare di seta e boccoli biondi. Mentre si faceva scortare da Caesar attraverso la stanza, diretta con ogni probabilità verso la sua camera da letto, Ezra pensò a come certe cose non cambiassero mai. Artemis era sempre stata così. Bellissima e cordiale ma inarrivabile, persino per i suoi stessi fratelli –anzi, compagni di squadra–. I suoi rari slanci di generosità filantropa –dimostrazioni non tanto di umana solidarietà quanto di pietà divina– mitigavano appena quel solito atteggiamento di eterea superiorità, quegli sguardi indignati che lanciava loro quando si parlava di infrangere le regole, pur che fossero mere convenzioni sociali. Negli scorsi anni, passati per conto suo, Numero Due si era spesso chiesto come stessero i suoi fratelli. Più di una volta, aveva provato a immaginarseli. Più grandi. Più maturi. Cambiati, in qualche modo. E invece tornare a casa era stato come perdere otto anni, un salto nel tempo fino alle vacanze di Natale del loro settimo anno accademico. Rigel era forse più cupo e freddo di quanto ricordasse. Artemis si faceva ancora distrarre dal primo complimento, dalla prima galanteria che le si rivolgeva. Persino Caesar ed Esmeralda non sembravano granché diversi, entrambi audaci e sprezzanti delle regole fin dove l’approvazione di Numero Uno permetteva. Forse valeva così per tutti. Magari anche lui era lo stesso Ezra di sempre agli occhi della decaduta Umbrella Academy.
«E rimasero in quattro» la voce gioviale di Esmeralda lo ripescò dalle sue meditazioni.
In effetti, il salotto orientale si era svuotato. Rigel, Caesar, Hillevi, Oliver e Artemis dovevano essersi congedati in tutta fretta. Non che Ezra li biasimasse. Se c’era una cosa meno di tutto il resto gli era mancata dopo aver abbandonato la sua famiglia, quella era il perpetuo, ineludibile dramma dell’Umbrella Academy. Ritagliarsi del tempo per stare da soli, lontano da liti mondane ed etiche, era il premio più ambito della guerra familiare.
Alexis abbandonò il capo sullo schienale del divano e si concesse una risata liberatoria «Sono un mostro se dico che non vedevo l’ora che se ne andasse?»
«Artemis?» indovinò Tony, combattendo il sorriso che cercava di incurvargli le labbra.
«Chi altro?» fu la risposta stanca di Esmeralda, più che sollevata di versarsi una generosa porzione di whiskey incendiario senza giudizi esterni «Mi ero dimenticata di quanto fosse borghese. Non fraintendetemi, lei è mia sorella e la adoro, davvero, ma certe volte…»
«Certe volte ti chiedi se non si comporti un po’ troppo come una dama vittoriana» completò per lei Tony.
«Io avrei usato un’espressione un po’ meno delicata,» considerò Alexis, mentre sfilava finalmente –finalmente– dalla tasca il pacchetto di Marlboro che lo chiamava da inizio serata «ma il concetto è quello. Volete favorire?» soggiunse, certo di sapere già la risposta di tutti.
La distribuzione delle sigarette, il cenno di lieve dissenso di Tony, il passaggio dell’accendino, anche quello non era che un altro rituale dell’Umbrella Academy, nato tra Rigel ed Esmeralda una decade prima e poi evolutosi nel tempo, restando sempre uguale in tutto meno che nei suoi partecipanti. Quando Numero Uno aveva iniziato a fumare da solo –o, anche meglio, con Octavius–, a lui si era sostituito Ezra. Dopo ancora, per un breve periodo, Caesar. Numero Otto non era poi tanto sorpresa che Alexis avesse raccolto il vizio, da qualche parte lungo la strada. D’altra parte, era difficile che non accadesse durante l’immersione nel mondo babbano, o anche solo nella transizione dall’universo dell’Umbrella Academy –plasmato dalle regole rigidissime e spesso ipocrite di loro padre– alla dimensione libera dell’indipendenza adulta. Ezra rifletté che probabilmente tutti loro, che lo ammettessero o meno, si erano dati alla pazza vita mondana nello stesso secondo in cui erano andati via di casa e, mentre al completo erano costretti a mantenere la facciata e fingere di essere gli stessi di sempre, era piacevole poter abbandonare le ipocrisie per un po’, pur che si trattasse di un quarto d’ora nel salotto orientale a notte fonda. E quel silenzio tra loro –non assenza di rumore, ma suoni morbidi di fiato caldo e cenere che cade– non aveva nulla di ostile. Incredibile a dirsi. Nell’Umbrella Academy, di silenzi morbidi ce n’erano ben pochi. In genere urlavano, si tendevano fino a stracciarsi oppure erano duri come diamante e quando finalmente si rompevano rischiavi di ferirti sulle schegge. In quel momento, invece, il silenzio aveva un ché di confortevole. Se fosse per la mancanza di Octavius o perché erano cresciuti, non importava poi tanto.
«Se penso che ho promesso di rimanere qui fino alla fine delle vacanze natalizie» Alexis fissava, meditabondo, il fumo che iniziava ad annebbiare vagamente la stanza «all’improvviso ho bisogno di qualcosa di più forte del tabacco»
«Dimentichi che domani c’è la lettura del testamento» soggiunse Ezra a mezza voce. Per quanto tutti fossero in teoria tornati a casa proprio per quello, per la fantomatica eredità del loro carissimo patrigno, la questione era sfuggita alle loro menti per parecchio tempo. Non che ci fosse da sorprendersi. Numero Due avrebbe scommesso l’interezza del suo conto in banca sul fatto che nessuno di loro era lì per amor del loro patrigno. A eccezione, forse, di Artemis.
«Conoscendo Octavius,» replicò Numero Nove «mi ha tagliato fuori anche prima che andassi via di casa»
«Di sicuro» intervenne Tony, pensoso come al solito «non ci dobbiamo aspettare lettere strappalacrime di amore e pentimento»
«Come se Octavius» fu il commento amareggiato di Ezra «fosse capace di amore e pentimento»
«Forse sì» Esmeralda si spense distrattamente la cicca della sigaretta sul palmo della mano, senza neanche degnare di un’occhiata la bruciatura che si riparava all’istante «ma non con tutti, non facilmente. Papà era un uomo difficile, ma se ha amato qualcuno, quelli siamo stati noi»
«Ah beh» Antoine le rivolse un sorriso triste «Se siamo noi il suo metro di amore, allora direi che il suo concetto di amore in genere era piuttosto distorto. Esme,» la sua voce si fece bassa e sottile «Octavius non ha battuto ciglio quando me ne sono andato, né ha mai più chiesto di me. E sono sicuro che non abbia versato alcuna lacrima solitaria pensando al suo soldato disertore»
«Forse…» incominciò lei, prima di fermarsi e scuotere la testa «No, direi di no»
«Ed ecco che abbiamo rovinato l’atmosfera» Alexis sbuffò, lasciando cadere il cadavere della sua Marlboro sul pavimento mentre si versava da bere «Possiamo tornare a sparlare dei nostri compagni di squadra
Ezra si lasciò scappare un sorriso divertito «Stai facendo la caricatura al caro patrigno o al nostro audace capitano?»
«Al nostro adorato caposquadra, ovviamente» fu la risposta, egualmente ironica.
«Andiamo, Rigel non è così noioso» obiettò Esmeralda «È solo molto preso dalle sue responsabilità. Sapete, non è facile essere il fratello divertente quando nostro padre si aspetta che tu sia al contempo il principe di Machiavelli e un carro armato con le gambe. Lui ha fatto quel che poteva. Credo che a un certo punto si sia scordato di essere Rigel, prima di Numero Uno»
«Non usare questa scusa, Esme» ribatté Ezra, con un po’ troppi spigoli nel tono di voce «Ricorda che stai parlando con Numero Due. La vita nell’Umbrella Academy non è stata facile per nessuno e Rigel è tanto innocente quanto colpevole»
«Io penso che–» Esmeralda si bloccò ancor prima di iniziare. Trasse un sospiro profondo e scosse la testa «Rispariamoci questa discussione, okay? Parliamo di cose su cui andiamo d’accordo. Per esempio…» le ci volle un secondo per trovare l’argomento adatto «Per esempio quanto sappia essere irritante Artemis»
Tony alzò gli occhi al cielo per mascherare un’espressione divertita «Allora resteremo a parlare fino a domani mattina»
«Ma l’avete vista» Alexis stava accendendo in quel momento un’altra sigaretta «come faceva gli occhi dolci a Rigel stasera? Se si fossero avvicinati di un altro solo centimetro, penso che si sarebbero fusi»
«Solo stasera?» Ezra gli porse l’accendino con un mezzo sorriso «È da quando siamo arrivati che non fa altro che stargli intorno e rimarci male quando lui la allontana. Vorrei dire di essere sorpreso, ma è esattamente come tanti anni fa»
«Se non sapessi per certo che se n’è andata con me,» meditò Numero Otto «direi che non ha mai abbandonato Rosewood. E invece, se non sbaglio, per qualche tempo l’ho anche vista su delle riviste a fare la modella per delle case di moda magica»
«In fondo Artemis ha sempre amato i begli abiti e stare al centro dell’attenzione» rifletté Tony.
«Io spero solo di trovarmi in compagnia del suo galateo vittoriano il meno possibile» replicò Alexis «Octavius fumava sempre e ovunque quei suoi maledetti sigari cubani. Eppure a lui non ha mai detto nulla, quindi che problema c’è se io voglio fumare?»
«Scommetto» Numero Otto tirò fuori, di nuovo, quel suo sorriso scaltro «che se fosse stato Rigel al posto tuo, non avrebbe battuto ciglio»
«Io dico» soggiunse Ezra, con lo stesso sorriso come di riflesso «che si sarebbe messa a fumare»
«Ma poi come avrebbe fatto a giudicare tutti noi plebei?» ribatté Numero Nove, con un tono e un’espressione di tale shock teatrale da far ridere persino Antoine «Non c’è niente da ridere, ragazzi. Quello è chiaramente il suo unico obiettivo di vita: farci sentire inferiori e indegni della sua divina presenza»
Ad Esmeralda cadde via tutto il divertimento dal viso, sostituito da un’amarezza rassegnata «Lasciatemi dire che, dannazione, ci riesce»
«Parla per te» il tono di Ezra era, tutto sommato, rincuorante «L’ultima cosa che voglio essere è l’incrocio tra la borghesia del primo Novecento e il perbenismo ambientalista»
«Brinderò a questo» borbottò Alexis, portandosi il bicchiere alle labbra.
«Io invece direi che abbiamo fatto la nostra parte di polemica familiare per oggi. Magari è il momento di andare a dormire,» propose Tony, ormai gettato scompostamente sulla poltrona «sempre a patto che riusciamo a trascinarci fino al secondo piano»
Ezra, a sua volta disteso del tutto su uno dei divani, diede per tutta risposta un mugugno poco convinto e non fece segno di volersi alzare. Alexis preferì continuare a bere piuttosto che rispondere.
«Immaginate la faccia di Artemis» meditò Esmeralda, trattenendo a stento un sorriso cospiratorio ma a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti i suoi compagni di brigata «quando domani mattina si alzerà alle cinque e ci troverà qui, addormentati e sbronzi»
Alla sola idea, nessuno ebbe da obiettare e decisero, più in un tacito patto che esplicitamente, di restare lì dov’erano.
La mattina dopo, li svegliarono le urla di Numero Sette.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autore
Eh no, non sono morto.
Ciao lettori e grazie di essere arrivati a fine capitolo o di ricordarvi ancora di questa storia! Credo che a questo punto le scuse non siano tanto doverose quanto, perlomeno, le spiegazioni. Ammetto che questo è il ritardo più clamoroso che abbia mai fatto fino ad ora e onestamente me ne dispiaccio moltissimo, ma in questo caso era necessario. Dovete sapere che il vostro Smaug è quel tipo di studente universitario che rifà gli esami finché non ottiene il risultato che voleva e questo mi ha rallentato un po’ nella stesura del capitolo, ma la motivazione più grande di questo ritardo della storia è che, oggettivamente, avevo bisogno di un po’ di tempo per capire come strutturarla e continuarla, darmi almeno un filo rosso di trama da seguire ed evitare di inventare tutto lungo la via. Questo ha comportato un bel po’ di ulteriore studio dei personaggi e di una narrativa che mi soddisfacesse.
Detto ciò, per questo 2021 posso promettervi nient’altro che almeno due stabili aggiornamenti mensili e tanta disponibilità. Mi piacerebbe sapere che ne pensate della storia fino a questo punto e se c’è qualcosa che non vi soddisfa per quanto riguarda i vostri personaggi.

Inoltre, ho una domanda per quanto riguarda i ragazzi dell'Umbrella Academy. Ho aspettato il più possibile per affrontare questo argomento affinché poteste farvi un'idea precisa sui componenti dell'accademia e ora la questione non è più rimandabile; dunque, avendo conosciuto più o meno bene tutti i Cleremont, sapreste darmi una breve descrizione sul rapporto del vostro OC con ciascuno di loro? Di certo non mi aspetto risposte molto specifiche, però vorrei la vostra opinione, magari anche solo di conferma, sui compagni con i quali il vostro OC va d'accordo e su quelli dai quali si tiene alla larga.

Aspetto i vostri commenti sul capitolo ed eventuali risposte per messaggio privato.
Tra le altre cose, buon anno e speriamo di evitare invasioni aliene o disastri nucleari.
 
 
 
il drago della montagna accanto
Smaug
   
 
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