Film > Operazione U.N.C.L.E.
Ricorda la storia  |       
Autore: Fuuma    03/01/2021    8 recensioni
Una nuova missione per l’UNCLE. Volgograd, fantasmi e frammenti di un passato che si pensava fosse stato seppellito per sempre tra la neve e il sangue.
Napoleon è diviso tra la missione e quello che sta iniziando a provare per Illya, a cui si rifiuta di dare un nome. Illya è un agglomerato di confusione e rabbia e l’ultima cosa di cui ha bisogno è di scoprire di non essere immune come credeva al fascino dell’americano. Gaby cerca di aprire gli occhi ai due.
Ma, alle volte, i morti non ne vogliono sapere di rimanere tali.
{ napollya | scritta per il BBI 10° edizione }
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Gabriella Teller, Illya Kuryakin, Napoleon Solo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

warning: post-movie; slash; internalized homophobia; h/c;

I personaggi appartengono agli aventi diritto


 

 

Prizrak Volgograda

 

———————— 01. Red Blood, Red Peril ————————

 

Illya era uscito dall’ufficio di Waverly con lo stesso cipiglio marmoreo con cui era entrato: pugni serrati e rabbia scalpellata lungo muscoli d’acciaio, pronta a esplodere in faccia al primo temerario che avesse ignorato la nota in piccolo a fondo pagina – tenere fuori dalla portata dei cretini.

Perfino nei suoi momenti tranquilli (rari e che generalmente coincidevano con una vittoria personale o una pacca d’approvazione, più o meno figurata, da parte di Gaby) Illya era un cane addestrato a mordere – e mordeva, Dio se mordeva quel colosso biondo.

Ma, la rabbia, come qualsiasi altro sentimento, non era mai di un unico colore; possedeva sfumature che sul volto di Illya sbiadivano, sino a diventare visibili soltanto a un occhio attento. Per tutti Illya era un enorme semaforo rosso: il rosso della Madre Russia, il rosso del sangue, il rosso di una muleta[1] agitata davanti agli occhi di un toro collerico. Napoleon aveva, però, occhi per l’arte, per le donne e per i dettagli, e sebbene il russo non rientrasse nei primi due, aveva visto in lui nuove sfumature nella lieve contrazione della mascella e nel rigore più marcato delle spalle.

Nell’ufficio del Direttore, qualcosa lo aveva infastidito più del solito – il che, conoscendo la rinomata mancanza di joie de vivre di Kuryakin, poteva spaziare dagli insulti personali a una foto di gattini troppo sfocata esposta sulla parete della stanza.

Chiederlo al diretto interessato, non rientrava tra le scelte più sagge.

«Perché quel muso lungo, Peril? Waverly ha cercato di farti inginocchiare davanti al cammeo della Regina?» D’altra parte Napoleon poteva vantare una lunga lista di scelte discutibili.

Illya si fermò ruotando il capo verso di lui. Se avesse potuto uccidere con uno sguardo, l’uomo sarebbe crollato al suolo con un buco di ventilazione aperto tra gli occhi. Fortunatamente, i russi non avevano ancora sviluppato quel genere di tecnologia.

Solo sorrise, anche quando una gomitata di Gaby per poco non gli incrinò una costola. «Devo prenderlo per un no?»

Il gomito di Gaby si spinse più in profondità. Sentì la punta dell’osso premere con cattiveria, piccola e spigolosa – ovvio che andasse così d’accordo con Peril, erano entrambi straordinariamente portati per la violenza!

Illya ruotò anche il busto.

La tedesca si affrettò a riabbassare il gomito. Il contatto era cessato, ma Napoleon poteva sentire i nervi di lei fremere mentre lo fissava, all’erta. Gli passò per la mente la possibilità che si stesse preparando per difenderlo da un possibile assalto (gli era giunta voce di come Gaby fosse riuscita a mettere l’uomo al tappeto, ai tempi del loro soggiorno a Roma, e sarebbe stato disposto a pagare oro pur di assistere al rematch), ma era più probabile fosse preoccupata per la precarietà dell’incarico di Illya. Come sovietico del gruppo aveva già un piede fuori dalla porta, non serviva che una scusa qualsiasi per ricevere il benservito dall’U.N.C.L.E. e tornare a essere il lacchè di Oleg.

Illya, però, si limitò ad annientare quell’unico passo che li distanziava.

Tra le sue labbra, Napoleon vide le lente sfiatate che elettrificavano l’aria.

Si morse il labbro inferiore. Era in questi momenti che il proprio cervello iniziava a giocare brutti scherzi: quando gli capitava di fissarsi su particolari che, prima, avrebbe trovato insignificanti – il modo in cui le labbra di Illya si schiudevano e i denti si serravano, il suono che produceva il suo respiro appena prima di parlare, simile a quello di una spina cresciuta sullo stelo di una rosa, la piccola ruga che si accentuava tra le sopracciglia aggrottate, le ciglia bionde e straordinariamente lunghe...

Sarebbe tornato volentieri a quel prima, pur di cancellare i pensieri che venivano dopo.

Si impose di mantenere la posizione, ingoiando fiato e accento russo.

«Se hai finito di dire idiozie, cowboy, nuova missione ci attende.»

Il pensiero esplose assordante come una cartuccia calibro .40, lasciandosi dietro una strage di neuroni e coriandoli di buon senso: quanto forte lo avrebbe picchiato Peril, se in quel momento si fosse sporto a raccogliere le sue parole e il suo respiro direttamente dalla sua bocca? L’effetto sorpresa gli avrebbe dato il tempo di scappare, ma per quanto a lungo e fino a dove?

«Almeno per questa volta riuscirete a comportarvi come le spie che siete o farete fare tutto il lavoro a me?»

Oh, che Dio benedicesse Gaby e il suo meraviglioso tempismo.

Napoleon si tirò indietro, salvo e ancora tutto d’un pezzo, eccetto per quella (non così tanto) piccola parte di sé che si ancorò al broncetto (adorabilmente) offeso di Illya.

Gaby, di contro, ne uscì intaccata, all’apparenza immune. Si avviò lungo il corridoio sventolando la mano, e quando la sua spalla sfiorò il braccio di Illya, sembrò solo un caso fortuito.

Prima che Napoleon potesse imitarla – spallata a parte –, la porta dell’ufficio di Waverly si aprì sull’occhiata indecifrabile dell’inglese e sul cenno della mano con cui lo chiamava a sé. «Mister Solo, una parola se permette.»

Il se permette fu un’aggiunta cortese nel perfetto stile britannico del Direttore, che tuttavia non prevedeva rifiuto.

Napoleon si voltò a cercare lo sguardo di Illya. Non lo trovò, il russo aveva approfittato della sua distrazione per andarsene.

«Se proprio devo.»

«Sarebbe il caso, sì.»

 

Nulla di quanto Waverly ebbe da dirgli gli piacque.

 

 

Volgograd festeggiava.

Tra le strade ampollose del centro, la gente marciava agitando bandiere e intonando inni alla gorod-geroy[2].

Rodina Mat' Zovët! Vy slyshali tovarishcha Pavlova? Otvetit'. Bor'ba. Torzhestvuyet. Rodina Mat' Zovët.[3]

Il coro, come la folla, correva lungo l’intero Viale degli Eroi, rimbalzando tra le mura dei mastodontici stalinskie e sfiorando le acque gelide del Volga. Mucchi di neve erano ammassati ai lati della strada, ancora così bianca da far venire voglia di assaggiarla – e ogni bambino di Volgograd sarebbe stato pronto a giurare che, in Russia, la neve era più buona.

 

L’auto avanzava in lenti rimbalzi, mettendo a dura prova i nervi di Gaby: premeva il pedale dell’acceleratore, lo rilasciava, lo premeva, lo rilasciava e, di tanto in tanto, si sporgeva con un braccio fuori dal finestrino urlando in un russo che zoppicava molto meno di quanto non facesse la macchina.

Napoleon la guardò ammirato. «Ti sei portata avanti coi compiti.»

La donna sorrise, con la coda dell’occhio cercò Illya, e sulle labbra di lui, trovò con soddisfazione l’ombra di un minuscolo sorriso orgoglioso. Durò poco; quando un ragazzino avvolto nella bandiera rossa andò a sbattere contro la fiancata dell’auto, Illya piantò occhi incandescenti fuori dal finestrino, e il cupore che lo aveva accompagnato nelle ultime ore tornò con prepotenza.

Seduto accanto a Gaby, Napoleon alzò gli occhi allo specchietto retrovisore per la settima volta consecutiva, ma Illya non ne aveva mai ricambiato lo sguardo. Non che potesse biasimarlo, non questa volta.

L’ennesima frenata brusca lo riportò con l’attenzione sulla strada. «In compenso, le tue doti di autista stanno riuscendo nell’intento di farmi rimettere la colazione.»

Gaby non apprezzò la battuta.

«D’accordo» sibilò stizzita. Non aggiunse altro, ma Napoleon lo percepì comunque come la sirena prima di un bombardamento e dopo qualche istante, i freni gemettero sotto al tacco delle scarpe di Gaby, inchiodando l’auto con ferocia.

Il contraccolpo colse di sorpresa entrambi gli uomini: Illya aveva sbattuto appena in tempo i palmi al sedile davanti per reggersi ed evitare di sbattervi la faccia, mentre Napoleon, salvato dalla cintura di sicurezza, ciondolava col naso a pochi centimetri dal cruscotto.

Quando si voltarono a guardarla, Gaby stava già minacciando Solo con la punta dell’indice: «Innanzitutto un bicchiere di vodka e qualche boccata di sigaro non si possono definire colazione.»

Napoleon non osò ribattere (anche se, per dovere di cronaca, doversi mescolare alla fauna della prima classe gentilmente offerta dall’U.N.C.L.E. era una ragione più che valida per vodka e cubani).

«E ora fuori di qui, tutti e due! Non ne posso più di questa folla, andremo a piedi!»

Napoleon portò la mano alla fronte. «Sissignora.»

Illya gli tirò un’occhiata di sbieco. «Far sbottare autista, quando ancora manca strada a punto d'arrivo, è proprio colpo di genio, Cowboy.»

Quantomeno aveva ritrovato la parola.

 

 

«Ditemi che è solo un brutto sogno.»

Soprabito, giacca, gilè e camicia erano incollati alla schiena di Napoleon da una patina di sudore ghiacciato. La vista della piccola casetta in tronchi d’albero, che poteva benissimo passare per l’orrenda dimora di una strega slava, non migliorò la situazione.

Le decorazioni ostentatamente pompose e gli edifici dall’aspetto sciovinista erano rimasti nel centro città; mano a mano che si erano allontanati verso i margini di Volgograd, il panorama era cambiato. Abbandonati auto e Viale degli eroi, le strade si erano fatte più agibili ed era stato possibile trovare un taxi che li portasse fino al luogo di rendez-vous con il contatto sovietico che aveva trovato loro Waverly, direttamente in prestito dal KGB. Era stata solo questione di tempo prima che anche Oleg arrivasse a mettere becco in quella missione.

Ma la mèta era stata ben altra.

A piedi e con valigie a seguito (quella di Solo era la più grande), avevano seguito l’Agente Ivanov in quella che Napoleon giurò essere la camminata più lunga della sua vita. E quando la loro guida si era fermata davanti alla porta di un’izba, lui aveva avuto un tuffo al cuore.

«Benvenuti nella vostra nuova dimora» annunciò Ivanov. Da quando l’avevano incontrato, aveva parlato solo in russo, lanciando di quando in quando occhiate derisorie all’indirizzo dell’unico americano presente.

Illya accolse la notizia senza particolare enfasi.

«La strumentazione?» domandò in lingua.

«Troverete tutto dentro, armi comprese. Sempre che lo yankee pigdog[4] sia in grado di usare delle pistole vere.» La risatina che aveva colorato la battuta dell’agente si spense quando Gaby – mani ai fianchi e una quantità improbabile di insolenza contenuta in corpo tanto piccolo – gli si piazzò di fronte.

«Che cos’hai detto? Mhm?»

Dietro di lei, Illya le poggiò le mani sulle spalle, a volerla trattenere e, al contempo, pronto a proteggerla qualora ce ne fosse stato bisogno.

Non aveva distolto lo sguardo da Ivanov. «Pensala come vuoi, il cowboy è un pomposo idiota dalla lingua lunga, ma non fallisce un colpo. Sottovalutarlo non gioverà né a te, né alla missione.» Nell’inflessione russa danzò, molto poco velatamente, una minaccia.

L’espressione di Ivanov si incattivì, ma lasciò che il discorso si chiudesse. 

In una diversa circostanza, Napoleon avrebbe apprezzato (sottolineato, registrato e ricordato negli anni a venire) il modo in cui Gaby e Illya avevano preso le sue difese, ma in quel momento ogni sudatissima cellula del suo corpo gli urlava di fare dietro-front e tornare in patria, alla civiltà, dove avrebbe potuto prendere personalmente a calci il culo di Waverly.

Ciondolò con il capo in avanti, sospirando pesantemente. «Vediamo se ho capito bene…» Al contrario di Ivanov, lui aveva continuato a parlare in americano «In questi giorni il progetto di una non meglio specificata arma segreta, per di più rubato dai vostri archivi, verrà venduto a qualche criminale che ha deciso di fare il turista nientemeno che nell’ex Stalingrád. La nostra missione è quella di trovarlo, impedire lo scambio, evitare ove possibile di ucciderlo e farci uccidere e, presumibilmente, consegnare quei gentiluomini a qualsiasi giustizia i nostri nuovi amici del KGB abbiano in serbo per loro. Il tutto, usando la tana di Baba Yaga[5] come quartier generale. Ho dimenticato qualcosa?»

Il monologo non ottenne gli effetti sperati.

«Sì, dimenticato che questa è Russia, Cowboy.» Illya si fece consegnare le chiavi, caricò sulle spalle il piccolo borsone con cui era arrivato e recuperò l’elegante valigia bianca a pois di Gaby. Quando aprì la porticina dell’izba, in un cigolare sinistro (che Napoleon contrassegnò mentalmente come “prova numero uno” a supporto della teoria della strega), il concetto di apparenza ingannevole assunse tutto un nuovo significato.

Le dita piccole e sottili di Gaby colpirono la spalla di Napoleon con una pacca che raccoglieva nel palmo beffa e sollievo. «Adesso puoi smettere di lagnarti, Solo. Pericolo scampato.»

«Preferisco avvalermi della facoltà di rimandare ogni nuovo commento alla fine del giro panoramico.»

La tedesca sollevò gli occhi al cielo serale di Volgograd, ma un sorriso divertito si stemperò sulle labbra rosse.

«Fai pure strada, Peril» riprese lui. Picchiettò la schiena di Illya alla base, appena sopra la curva dei glutei, percependo sotto i polpastrelli il sussulto che attraversò l’intera colonna vertebrale.

Non l’aveva programmato; senza pensarci la sua mano aveva puntato il sedere dell’altro, riaggiustando la mira all’ultimo secondo, quando quel minimo di istinto di sopravvivenza che ancora gli rimaneva aveva dato l’allarme, appena in tempo per evitare un incidente diplomatico e di vedersi amputate mani, braccia e testa a mani nude.

Illya si voltò a guardarlo con un’occhiata torva che lo inchiodò sul posto. Non aprì bocca: proseguì ed entrò, precedendolo.

Napoleon non fu sicuro di come interpretare il suo silenzio; lo seguì osservando per qualche istante di troppo la sua schiena ancora tesa e il capo biondo che si reclinava in avanti per non battere la testa contro lo stipite.

L’interno non era nulla di ciò che ci si sarebbe aspettato e tutto quello che si poteva desiderare.

Del legno che rivestiva l’esterno, non vi era praticamente traccia: muri verniciati di bianco perimetravano l’intera izba, il fuoco di un camino rimasto acceso aveva scaldato l’ambiente e, se non fosse bastato quello, l’impianto di riscaldamento era istallato e funzionante. Lo spazio non era molto e l’arredamento spartano, ma dopo qualche tentativo fallito, Illya riuscì a trovare l’interruttore che dava accesso a quella che, per qualche giorno, sarebbe stata la loro base operativa: una rete sotterranea di stanze perfettamente ammobiliate, dotate di tutti i comfort possibili

«Addio Baba Yaga, benvenuto chardonnay.»

e perfino di un’ottima cantina.

 

 

Il cuore della base operativa era formato da un’elegante salone a pianta circolare con tre ingressi ad arco, diviso a metà dal lungo divano dal rivestimento bordeaux su cui Gaby aveva preso posto.

Attaccata alla cornetta di un telefono a dischi, aveva preso contatto con Waverly per informarlo del loro arrivo sani e salvi in Russia.

Fresco di doccia, Napoleon le era passato accanto.

«Sì, Solo è riuscito ad allietarci tutti con una delle sue scene madri» l’aveva sentita dire, ridacchiando mentre arricciava il filo della cornetta sulla punta dell’indice. «Ivanov è già andato, verrà a prenderci domani, come previsto.»

Non si era preso la briga di ascoltare il resto. Prendere d’assalto la cucina e convincere Illya a fargli compagnia, gli era sembrato un passatempo più fruttuoso.

Nonostante le prime ritrosie, il russo era rimasto seduto al bancone dalla superficie di marmo, immerso nello studio di file top secret che riguardavano la missione; una fotografia nello specifico aveva conquistato ogni stilla della sua attenzione.

Napoleon si sporse a guardarla. Era uno scatto rubato al profilo sfocato di un uomo biondo: taglio militare, mascella pronunciata e corporatura massiccia; reggeva una ventiquattrore, quasi sicuramente con i progetti rubati al KGB. La foto, comunque, non aveva l’aria di essere recente; Napoleon riuscì a riconoscere sullo sfondo uno degli edifici della città, di cui nel pomeriggio era sicuro di aver visto solo lo scheletro sventrato a metà, mentre la foto lo mostrava ancora intero, prima dell’assedio del ‘42.

Dai fornelli, un pentolino di sugo borbottò pretendendo attenzione. Lo ignorò, catturato dall’espressione assorta con cui Illya accarezzava i contorni della foto, ripassando con lo sguardo più e più volte il profilo dell’uomo immortalato.

Napoleon sapeva di chi si trattasse, Waverly l’aveva informato. Quanto potesse essere importante per Illya, invece, era qualcosa che aveva sottovalutato.

Si aspettava un ribollire di rabbia mal trattenuta (forse perfino lo stesso russo se l’aspettava), invece i suoi tratti, di solito spigolosi, si erano ammorbiditi. Lo aveva perfino sentito sussurrare qualcosa in lingua e sebbene il russo di Solo fosse un po’ arrugginito, non aveva avuto dubbi sulla traduzione: con una malinconia che gli aveva aperto un buco nel petto, aveva chiesto “Cos’hai fatto?”

Gli occhi di Illya si erano tinti di tristezza, quelli di Napoleon di stizza.

Avrebbe voluto saperlo anche lui cos’avesse fatto quel tale: cos’avesse fatto per ferire così in profondità Peril, tanto da lasciarlo disarmato perfino della sua rabbia; cos’avesse fatto per essersi meritato l’affetto del russo e trovare comunque il coraggio di tradirlo; cos’avesse fatto per essere riuscito a rendere lui, Napoleon, geloso.

La parola fu uno schiaffo all’orgoglio – non era pronto ad accettarlo.

«Dmitriy Kiselyov» si costrinse a pronunciare.

Illya sollevò immediatamente il capo, gli occhi così limpidi – lo stesso azzurro delle acque ghiacciate del Volga – che Napoleon vi lesse senza problemi lo smarrimento, come se il russo si fosse dimenticato di essere in quel bunker sotterraneo insieme a lui.

«Era un tuo diretto superiore nonché tuo mentore, durante i primi anni al KGB, dico bene? E dopo quanti anni di amicizia ha deciso di tradire te e la “Madre Russia”?»

Illya era un’insieme di ferite invisibili rimarginate al contrario, dietro la pelle e Napoleon non provò alcuna pena ad affondare il coltello in quella che portava il nome di Dmitriy; se avesse potuto gliel’avrebbe grattata via, tutto pur di non sentire più la propria testa definirlo geloso.

Poteva sopportare l’idea di, cosa?, avere una cotta per il proprio partner? Aveva un aspetto più che gradevole, un corpo che di certo si poteva dire desiderabile e, Dio!, se amava stuzzicare quel gigante, ma questo era solo perché Napoleon aveva occhi per guardare e buon gusto per apprezzare. La gelosia non era contemplata, significava qualcosa di più. Significava guai, di quel tipo che nemmeno Solo sarebbe stato in grado di gestire.

Illya scattò in piedi, rovesciando lo sgabello su cui sedeva.

«Non guardarmi così, Peril. Avresti dovuto sapere che Waverly ha spie come noi e spie che controllano le sue spie.»

Il boccone si incastrò a metà gola e il russo dovette sforzarsi per mandarlo giù, dando tempo a Napoleon di rincarare la dose: «Perfino il tuo vecchio capo, si fida così tanto del suo miglior agente operativo, che si è sentito in dovere di inviarci un Peril 2.0.»

«Agente Ivanov non è qui per prendere mio posto.» Illya trovò a stento le parole.

«Forse, ma per quanto mi riguarda preferisco avere nel mio team il russo che sa riconoscere un nemico qualora se lo trovasse davanti.» Non stava grattando, stava scorticando brandelli interi di pelle.

Illya sbatté una mano al bancone, schiacciando sotto il palmo la fotografia di Dmitriy. «Io so benissimo quale è nemico e, se per portare a termine missione, devo ucciderlo, allora ucciderò! E se tu continua a insistere, pianterò un coltello anche in tua gola!»

Nonostante la minaccia – e lo sguardo corso al set di coltelli impilati accanto ai fornelli – Napoleon sospirò. Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma trovò confortante il fatto che l’istinto dell’assassino non avrebbe rischiato di incepparsi davanti all’ex mentore e che Peril non intendesse farsi uccidere tanto facilmente. Aveva ancora delle remore a riguardo, ma per ora decise di farselo bastare.

«Uff, non so perché Waverly si preoccupasse tanto» mentì.

Illya sbatté le ciglia; la confusione durò pochi istanti, poi arrivò l’indignazione. «Era un test?» la domanda tritata e sputata tra i denti.

«E lo hai superato a pieni voti, Peril. Bravo.» Non gli ci volle molto per capire che il russo stava contando i passi che servivano a raggiungere il set di coltelli. D’accordo, forse avrebbe potuto gestirla un po’ meglio.

Scivolando di lato, Napoleon si piazzò accanto al bancone per sbarrargli la strada, proprio poco prima che l’odore di bruciato iniziasse ad aleggiare nella cucina. «Maledizione, il mio sugo!»

Troppo tardi. Si affrettò ad abbassare la fiamma del fornello, ma nel pentolino non era rimasto altro che una poltiglia informe e bruciacchiata.

Illya sorrise – il cervello di Napoleon non mancò di registrarlo, stampando una foto mentale. «Ottimo lavoro, cowboy.»

 

 

«Non mi piace questo Ivanov. Non abbiamo bisogno di un secondo Illya, uno è più che sufficiente.» Gaby non si era fatta pregare per condividere con i due agenti la propria indignazione.

Napoleon soppresse una risata a quel discorso così familiare. Tossì, portando il dorso della mano su labbra già involontariamente incurvate.

Illya lo fulminò con gli occhi. «Agente Ivanov è necessario per missione. Dmitriy Kiselyov conosce ubicazione di molte safe house russe, tra cui le due a Volgograd: una questa, l’altra controllata da Ivanov. Inoltre, Agente Ivanov è collegamento tra noi e compratore di progetto di arma rubato.»

Gaby fece spallucce, in quel suo modo di schiacciare i “no” altrui sotto il tacco della sua logica affilata. «Non c’è comunque un modo per levarcelo di torno? Avete entrambi una pistola: usatela.»

Ah, se solo fosse stato così semplice. Napoleon si sfilò dal colletto della camicia un tovagliolo rimasto immacolato. Lo poggiò sul tavolino di cristallo, accanto al piatto vuoto che aveva ospitato la sua porzione di “testaroli alla Napoleon”. «Per quanto ammiri la tua intraprendenza, hun[6], temo che non sia così semplice. Sai come si dice: perfino Dio è all’oscuro di quel che accade nel KGB. Quella non è gente che ami condividere, a meno che un’altra agenzia non si accorga dei loro casini e non mandi i suoi tre agenti... beh, i suoi due agenti più carismatici e Peril –»

«Potrei strappare tuo carisma insieme a tua lingua, se solo volessi.»

«Per l’appunto: i due agenti più carismatici e Peril a controllare che la situazione non sfugga di mano.»

«Questo non significa che fosse necessario aggiungere altro testosterone russo» riprese Gaby.

Illya inarcò un sopracciglio, curioso. «Avresti preferito donna russa?»

«Perché, tu no?» Illya ebbe il buon senso di non rispondere e lei continuò «Sarebbe stata più sveglia di quell’Ivanov. Quell’idiota non si è nemmeno accorto che Solo conosce il russo.»

«O forse sapeva benissimo.»

Ci fu una pausa, in cui Gaby stropicciò l’orecchio con cui aveva torturato il quotidiano russo, spiegazzandolo per riuscire ad inquadrare i due uomini. «Illya, non difenderlo.»

Napoleon riportò la mano alla bocca, ricacciando in gola l’ennesima risata. Chiunque altro, al posto della tedesca, avrebbe pagato cara l’insolenza – solo un russo può dare ordini a un altro russo! –, ma davanti alla smorfietta seccata di lei, Illya borbottò qualcosa nella sua lingua natia e fece spallucce, nella perfetta imitazione di un bambino troppo cresciuto beccato dalla madre a imprecare in chiesa.

Soddisfatta, Gaby tornò al quotidiano.

Il divano era diventato una sua proprietà; aveva lasciato spazio sufficiente affinché Illya potesse prendere posto accanto a lei e aveva usato le sue cosce come poggiapiedi.

Il russo non si era lamentato, accolta la cosa come normale amministrazione, le mani callose si muovevano lungo i suoi piedi in un massaggio distratto.

Napoleon ne studiò per un attimo le dita lunghe che risalivano la caviglia sottile, il pollice accoccolato sotto l’incavo dell’osso tibiale che disegnava piccoli cerchi sulla pelle, per poi scivolare di nuovo con entrambe le mani sulla curva sinuosa del dorso del piede in un su e giù che sarebbe potuto rientrare perfettamente nella definizione di erotico. Se quel genere di massaggi aveva fatto parte dell’addestramento di Peril, avrebbe quasi potuto rivalutare quei suoi famosi metodi russi.

«I nostri occhi sono più su, Solo.» Gaby lo colse in fragrante.

Le labbra rosse e carnose erano nascoste dal bordo del quotidiano poggiato alla bocca, ma il sorriso furbo si era esteso agli occhi, come se già non fosse bastato il tono allusivo con cui si era pronunciata.

«Mia cara Gaby, io sto solo godendo dello spettacolo che voi due state offrendo. D’altronde il mio unico difetto…»

Illya tossì.

Napoleon lo ignorò. «È la debolezza alla carne.»

«E non, invece, le mani di Illya?»

Arrivò a tradimento, come un colpo sotto la cintola, e la faccia da poker di Napoleon (il ghignetto seduttore, il sopracciglio ammiccante, il volto piegato di appena qualche grado verso la spalla destra) rischiò di sgretolarsi. Oh piccola adorabile saputella – Waverly sapeva sceglierseli davvero bene i suoi agenti, anche troppo.

Illya allontanò le mani dai piedi di Gaby e li guardò con occhi spalancati, ogni sottinteso sfuggito.

L’americano fu grato dell’ottusità che l’altro riusciva a dimostrare in certe momenti, rasentando un’ingenuità quasi tenera.

Si schiarì la gola e reclinò il capo dal verso opposto. «In effetti, ora che ci penso, avrei anche io bisogno di un massaggio.» Batté la punta dell’indice sulla bocca, scivolando in una carezza leggera sul labbro inferiore. «Ma per quanto mi stuzzichi l’idea di proporvi una cosa a tre e passare la serata a insegnare al nostro Red Peril come dare piacere a una donna, direi di tornare a focalizzarci sulla nostra missione. Inoltre, per esperienza so che i baci russi sono alquanto pericolosi.»

Schioccò un occhiolino a Illya, ammirandone il rossore del volto e lo sbuffo infastidito.

Gaby scrollò le spalle, inflessibile come una roccia. «A me non hanno dato quell’impressione.»

«Questo è perché miei baci e the kiss non sono stessa cosa. Tu, quindi, non sai proprio niente, cowboy.» Il rossore sul volto del russo già svanito.

Napoleon li guardò stupito. In qualche modo l’aveva intuito, se l’era aspettato – gli indizi erano ovunque, a partire dalla naturalezza con cui si incastravano perfettamente l’uno al fianco dell’altra - ma Peril aveva ragione: non sapeva niente. E una parte di sé avrebbe preferito continuare a ignorare, così da non dover venire a patti con la scarica di gelosia che gli aveva appena attraversato il petto all’idea di un bacio tra loro, all’idea di essere stato escluso da Illya.

Si mosse nervosamente sulla seduta della poltrona.

Preferiva ignorare. Ma più la partnership forzata andava avanti, più il resto di lui sentiva di volere tutto. E l’ultima volta che aveva avuto quel genere di impulso non era finita bene: aveva dovuto scegliere tra quindici anni in una prigione federale o farsi mettere al collo il guinzaglio della CIA.

Questa volta, temeva, non ne sarebbe uscito vivo.

Sorrise con una leggerezza misurata al millimetro e sollevò le mani in segno di resa.

 

[ 4.262w ]



Prizrak Volgograda = Il fantasma di Volgograd

[1] Drappo di stoffa rossa che il torero agita durante la corrida per provocare il toro

[2] Città eroina. Nel 1945, a Stalingrado (ora Volgograd) viene assegnato il titolo di Città Eroina per il coraggio che i cittadini dimostrarono durante la Battaglia di Stalingrado.

[3] La madre patria chiama! Hai sentito compagno Pavlov? Rispondi. Combatti. Trionfa. La madre patria chiama. (Jakov Fedotovič Pavlov è stato insignito del titolo di Eroe dell'Unione Sovietica per il suo ruolo nella difesa in quella che da lui ha preso il nome di Casa di Pavlov durante la battaglia di Stalingrado.)

[4] E' un insulto (duh), non l’ho tradotto perché non so quale sia l’equivalente corretto in italiano e comunque mi sembrava più sensato in lingua

[5] Personaggio della mitologia slava, in particolare di quella russa, descritta come una vecchia strega alta, magra e orribile, con i capelli scompigliati, il naso di ferro e i denti e il seno di pietra.

[6] Letteralmente “unna”. È un gioco di parole, in inglese “hon” è un petname, abbreviativo di “honey” che potremmo tradurre come “dolcezza”. Ma per chi ha per caso letto la mia fic She was their hun, not their hon saprà già che è il nomignolo con cui Napoleon chiama affettuosamente Gaby.


 

Preciso già da subito che non conosco il russo, potrei quindi aver scazzato alla grande le traduzioni ho fatto del mio meglio nell'incrociarle con tutti i traduttori che conosco e nel controllare su internet.

Io e questa minilong abbiamo una lunghissima storia d'amore e odio (soprattutto odio); me la trascino dietro ormai da due anni, da quando ho iniziato a scriverla per un contest indetto da _Akimi, di cui mi era perfino capitato il pacchetto definitivo (Canzone: Gloria in Excelsis deo; Luogo: Volgograd, Russia; Genere: Introspettivo; Prompt: Saudade). Poi, però, è arrivato Illya a scombinarmi tutti i piani e addio. Iniziata come semplice oneshot i tre vanno, incasinano, salvano il mondo e fine della fic a un'idea se ne è aggiunta un'altra e un'altra ancora, l'introspezione di Napoleon ha preso il là e ovviamente il contest si è concluso mentre io ero ancora nel bel mezzo della stesura del primo capitolo.

Ho rinunciato al contest, ma nonostante tutto alla fic c'ero affezionata e quando quest'anno ho partecipato al BBI, ho deciso che ne avrei approfittato per portarla finalmente a compimento.

Missione compiuta, la fic è terminata, il risultato in realtà ancora per certi versi mi fa cringiare, ma dopo averla rimaneggiata perfino a fine BBI, ho deciso che non ci posso fare niente e posso volerle bene anche così. Anche perché l'alternativa è riscriverla da capo e so che non avverrà mai, inoltre ho altri progetti a cui dedicarmi e aver finito questo, dopo tutto questo tempo, mi rende comunque felice.

 

E sapete un'altra cosa che mi rende felice di questa fic? La splendida fanart che Miryel ha disegnato apposta per Prizrak Volgograda, claimandola al BigBang. E se non l'avete ancora vista, vi invito tutti ad amarla e kudarla qui

 

Scritta per il BBI10 @LandediFandom

 

   
 
Leggi le 8 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Operazione U.N.C.L.E. / Vai alla pagina dell'autore: Fuuma