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Autore: Cladzky    10/01/2021    4 recensioni
Storia nata per un piccolo gioco fra amici. Una donna con un futuro da notaio viene arruolata da uno scienziato peculiare per accompagnarlo in un viaggio nel tempo. A seguirli uno storico e linguista con mire espansionistiche più grandi di sé e un mucchio di casini legati con la società romana del primo secolo dopo Cristo. Nasceranno complicazioni sui dubbi morali che seguono con l'incasinare la storia.
Temo sia una delle cose più cazzare che abbia mai scritto.
Genere: Avventura, Comico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Marta era una persona normale, nel miglior senso del termine. Dopo la laurea in giurisprudenza stava terminando la sua pratica di diciotto mesi in uno studio notarile dove la pagavano il minimo sindacale e stava tornando a casa quel lunedì pomeriggio da lavoro quando, varcando la soglia del suo micro-appartamento in via Goffredo Mameli, si ritrovò il suo ragazzo steso sul divano come una diva.

―Cara, sei un fallimento― la accolse lui calorosamente senza neppure alzarsi e mettendosi il dorso della mano sulla fronte.

―Buongiorno anche a te Gladys. Come sei entrato qui?

―Mi sono reso conto che la nostra relazione non può continuare.

―Aspetta, cosa?

―Ho intenzione di sposare solo una donna di grandi imprese e insolite esperienze, che fosse capace di guardare la morte in faccia e non averne paura.

―Beh, perdonami se non sono Giovanna d’Arco o Amelia Earhart.

―Aspetterò vostre fantastiche notizie, signora notaio, ma fino ad allora, cara, mi vedrete solo con il binocolo. La mia verginità sarà conservata solo per la più meritevole delle creature.

―Non so dire se il tuo modo di pensare sia estremamente vittoriano o progressista, ma in entrambi i casi non mi piace affatto.

La discussione terminò lì, Gladys si congedò con estrema cortesia e uscì. Poco dopo uscì anche Marta per andare a prendere il pane.

―Bah, gli uomini, valli a capire― Mormorò nel chiudere la porta di casa.

Attraversò i piccioni di piazza Garibaldi e si infilò a sinistra per strada Cavour, diretta al panificio Castagnoli, giusto dietro l’orrendo edificio in cemento sovietico dell’intesa San Paolo. Ma proprio quando stava per entrare un uomo la chiamò da un tavolo della gelateria di fronte.

―Ehi, Marty!― La richiamò l’individuo dalla barba a riccioli, grigia, quasi azzurrina, con in mano due coni al limone, di cui uno era quasi sciolto ―Sono io, Doc!

Per Marta Doc poteva essere definito in molti modi, ma più brevemente come uno squilibrato. Provò a ignorarlo ma l’uomo si alzò, gli si parò davanti le porte in vetro di Castagnoli e gli offrì il cono al limone mezzo sciolto.

―Devo dirti una cosa importante ragazzo mio― Continuò lui.

―Per favore Doc― Alzò gli occhi al cielo lei. Era sicura che Doc avesse un nome, qualcosa come Girolamo Savonarola degli Usberghi d’Albania, ma a lui piaceva di più farsi chiamare Doc ―Prima di tutto mi chiamo Marta. Seconda di tutto non chiamarmi “ragazzo mio” se sono sprovvista di pene. Terza di tutto devo comprare due micche e una focaccia.

―Prima di tutto Marty suona molto meglio in vista di quello che stiamo per fare― Disse il Doc porgendole il cono mezzo sciolto ―Seconda di tutto, io sono completamente cieco quando si tratta di attribuire un sesso alle persone, a me voi umani sembrate tutti uguali― La prese per un polso slinguazzando il proprio cono e la trascinò via da Piazza Cesare Battisti e giù per il vicolo di Via Vincenzo Mistrali, verso il tunnel che sfociava in Borgo XX Marzo ―E terza di tutto, dove andremo, non avremo bisogno di micche e focacce.

―Doc, mi stai rapendo o cosa? Puoi mollarmi?

―Oh, sì, scusa, alle volte entro troppo nella parte.

―Sono abbastanza sicuro che il tizio di “Ritorno al futuro” non facesse sequestri di persona.

―Se è per questo non offriva neppure gelati al limone.

―Io sono allergica al limone.

―Certo che sei proprio una a cui piace lamentarsi. Comincio a pensare che Gladys avesse ragione.

―Aspetta, come sai tutta la mia storia con…?

―Ascoltami bene Marty― Le disse il Doc con occhi stralunati, guardandosi in giro e lisciandosi la barba con fare circospetto ―Credo di aver trovato un modo per viaggiare nel tempo.

―Bene e io me ne tiro fuori.

―ma non capisci che si tratta di un’occasione che non ti ricapiterà mai più in futuro? Non vuoi dare un brivido alla tua vita?

―Sono contenta con la mia esistenza, grazie tante― Disse Marta, buttando il cono dentro un cestino ―Ho appena finito il mio turno di lavoro e ho ancora il resto della settimana davanti a me. Ho voglia di mangiare schifezze, guardare un pessimo film e dormire.

―È così dunque― Si ritrasse il Doc, offeso da cotanta placidità ―Se non lo vuoi fare per te fallo per Gladys.

Marta ci pensò su. Gladys era un’idiota, ma un’amabile idiota e per di più era gnocco forte. E poi non poteva negare di essersi sentita offesa dalle sue parole di poco fa. E poi si sentiva annoiata quel giorno, come molti altri giorni, poteva essere l’occasione di fare qualcosa. E inoltre non capitava tutti i giorni di poter viaggiare nel tempo.

―D’accordo, ci sto Doc, portami dove vuoi.

Il Doc saltò letteralmente dalla gioia attorno a lei, provocando l’attenzione dei passanti e l’imbarazzo per Marta di essere in compagnia di un tipo simile ―Lo sapevo che potevo contare su di te ragazza mia!― e ingoiò per intero il cono al limone, mandandolo giù in un boccone, per raffreddarsi il cervello che si stava surriscaldando all’idea del viaggio che stavano per compiere. Indicò allora la piccola galleria che attraversava i caseggiati di fronte a loro ―La nostra prima tappa sarà oltre questo tunnel!

―Vuoi prenderti un caffè?

Il Doc si rese conto di star indicando il bar dall’altra parte della strada.

―Non essere così letterale. Hai mai visto Stargate?

―Preferivo Babylon 5.

―Beh, ad ogni modo il concetto è lo stesso, ma più complicato e non ho assolutamente voglia di spiegartelo perché so che non ci capiresti nulla― Trasse dal proprio camice bianco (l’ultimo grido della moda autunno inverno 2021) e tirò fuori un oggetto che si potrebbe descrivere solo come una copia più raffazzonata di un cacciavite sonico ―Questo aggeggio mi permette di creare dei portali temporali per le varie epoche del passato, ma solo dove esistono già dei portali fisici.

―Passato? Vuol dire niente futuro?

―No, il futuro non esiste, non ancora almeno. Possiamo viaggiare solo nel periodo che abbiamo vissuto e quello precedente a noi, sono queste le regole del gioco.

―Se tornassimo indietro di cinque minuti potrei picchiare la me del passato?

―Certo, ma non ci andremo per varie ragioni. Innanzitutto non conosciamo che effetti potrebbe avere farti interagire con una copia di te di un’altra epoca e poi, motivo più importante, sarebbe estremamente noioso vedere il mondo che già conosciamo― Il Doc si fece avanti, puntando l’aggeggio strano che aveva in mano, premendo un pulsante che lo fece aprire come un fiore dai petali di metallo. Purtroppo svariate persone stavano attraversando il loro portale in quel momento ―Maledetti imbecilli, fatevi da parte, non ho voglia di portare altri sempliciotti con me a spasso nel tempo!

Il Doc cominciò a dare ci matto per strada per far sì che la gente si levasse dalla scatole e quando realizzò che il massimo che otteneva era solo sguardi strani, e anzi, stava solo attirando più persone, adoperò un approcciò più fisico per liberare il passaggio.


***


―Bella mossa Doc.

―Oh, per l’amor della scienza, fai silenzio.

―Circa quattordici telefonate di una rissa in centro storico, sei denunce di aggressione e una di disturbo della quiete pubblica. Vi siete dati un bel daffare― Disse l’agente al di là delle sbarre.

―Questa è una pagliacciata. Non credo di aver colpito nessuno, non troppo forte intendo― Borbottò lo scienziato massaggiandosi il livido sotto l’occhio.

―Fra poco procederemo all’identificazione, poi sarete liberi di andare a casa. Fra qualche mese, probabilmente, dovrete prepararvi a sborsare un occhio della testa per le spese processuali che vi attendono e nel migliore dei casi sarà completamente inutile e finirete con qualche mese e una multa tremebonda come risarcimento, oltre che intestare una fedina penale a nome vostro.

―Vorrà dire che non sarò più incensurata? Ma non ho fatto niente! ― Protestò Marta.

―Essere senza documenti e in compagnia di quello svitato compromette abbastanza la tua situazione.

―Ho lasciato il portafogli a casa perché ero uscita solo a prendere il pane dietro l’angolo, come potevo sapere che sarei rimasta coinvolta in una rissa?― Continuò lei, ma il poliziotto si era già dileguato via per il corridoio. Marta si voltò verso il barbuto acciaccato livida di lividi e rabbia ―Complimenti Doc, proprio un bel lavoro, la mia giornata e possibilmente la mia vita è stata rovinata dal momento in cui mi hai offerto un cono al limone.

―Non è il momento Marty, devo capire come farci uscire da questa situazione.

―Te lo dico io come, non se ne esce, lo vuoi capire o no che il mondo non va come vuoi tu, razza di nevrotico?

―Corpo di mille elettroni, veramente vuoi fare il loro gioco? Tutta questa faccenda dell’arresto, dei processi, del potere della polizia, dei giudici, delle denunce, delle istituzioni, dei documenti e dello stato sono solo un gioco di società molto complicato e preso troppo sul serio da tutti quanti. Non fare come loro Marty, non cader anche tu preda di qualcosa che non è mai stato reale se non nella loro testa e nei loro fogli. Nessuno può arrestarti a meno che tu creda che possa farlo, non abbassarti a questi livelli, non sei più una bambina che crede alle favole.

―E dovrei credere che tu possa portarmi a spasso coi dinosauri invece? Ma ti ascolti quando parli?

―Ascoltati tu!― Il Doc saltò in piedi dalla sua branda ―Gladys, nel suo narcisismo, aveva ragione a definirti un codardo. Come pensi di affrontare la morte se tremi solo al pensiero di dare contro ad un sistema che ha la stessa consistenza di babbo Natale?

―Questo è folle, completamente folle― Disse marta prendendo a testate il muro di mattoni ―Stamattina lavoravo come mio solito in uno studio notarile e adesso sono in stato di fermo insieme a qualcuno che dice di poter viaggiare nel tempo.

―Maledetti animali, ve la faccio pagare!― Al sentire la voce Marta e Doc alzarono lo sguardo oltre la loro cella. Qualcuno aveva afferrato le sbarre come a volerle divellerle. Era un uomo particolarmente basso e arrabbiato, con delle gran sopracciglia calate sugli occhi in un’espressione contorta da rughe di furia ―Picchiare una dama come la mia signora, vergogna, non ci fossero queste sbarre ti colorerei di nero pure l’altro occhio.

―Dama? Quella belva mi stava mordendo il braccio, è più che naturale che io abbia reagito con un montante.

―Io questa la chiamo cafoneria.

―E io autodifesa.

―Silenzio adesso e voi due uscite― Disse il poliziotto di ritorno, aprendo la porta della cella ―Voi tre siete attesi per l’identificazione. Se avete bisogno di un pettine in vista della foto fatemelo sapere.

Marta proseguiva mogia per i corridoi della questura, Doc aveva uno sguardo pensoso e il signor Combe, la cui moglie aveva avuto un incontro ravvicinato con le nocche dello scienziato, digrignava i denti nel trattenersi dal prenderlo a calci.

Si trovarono d’improvviso davanti una porta in legno aperta, quando Doc ebbe un’ideale, una fantastica idea. L’agente che li accompagnava si era intanto fermato a prendersi un caffè e discutere con un altro. Si poteva dire che era la perfetta forzatura di trama per agire.

―Lo so che non hai intenzione di darmi ascolto Marty― Le bisbigliò nell’orecchio l’uomo dalla barba azzurrina ―Ma sarà meglio che tu faccia come ti dico se non vuoi finire nella cronaca nera di domani per una piccola sommossa in centro.

―Spara Doc, tanto non credo che tu possa peggiorare ancora la situazione ormai. O almeno spero.

―La vedi quella porta aperta davanti a noi?

―Credo sia uno sgabuzzino delle scope Doc.

―Non quello che c’è dietro. Io parlo di quel portale. Come ti ho detto il nostro dispositivo può aprire portali temporali ovunque, fin dove ce ne sono di fisici. Io intendevo utilizzare quello della galleria di via Vincenzo perché faceva scena, ma in una situazione come questa posso anche farne a meno.

―Ma di che diavolo state parlando voi due?― Chiese in un misto di irritazione e curiosità il signor Combe alle loro spalle ―Portali temporali? Ma voi due siete matti a trecentosessanta gradi.

―Ora o mai più Marty, sei pronta?

―No, ma se è per questo non sono pronta neppure per farmi fare la foto segnaletica. Fai quel che devi.

Il Doc trasse fuori il suo rimescolatore dei flussi e lo puntò verso lo sgabuzzino. Premette il pulsante, il fiore metallico si aprì, vibrò e sparò un raggio arcobaleno di luce verso le scope. Il colpo si fermò prima, impattando su quella che pareva essere una superficie invisibile delimitata dagli infissi della porta aperta. Un lampo bianco ed ecco, davanti a loro si vedeva una parete di nero assoluto. Marta non era proprio sicura di attraversare quella massa simile ad un buco nero e lasciò che fu il Doc ad andare per primo, nel mentre che gli agenti si stavano strozzando con l’espresso che avevano mandato di traverso per lo spavento. Il barbuto compenetrò la parete nera, venendone inghiottito come fosse petrolio immobile. Il signor Combe, talmente voglioso di suonargliele che aveva messo da parte anche la paura, lo seguì agitando i pugni per aria. Le sue esclamazioni d’odio vennero troncate a metà non appena la sua bocca attraversò quello squarcio nella realtà. Marta si guardò indietro e si vide gli agenti correrle addosso. Tragugiò un groppo di saliva e saltò anche lei oltre.


***


Quando si ritrovò dall’altra parte fu molto meno scioccante di quanto pensasse. Si ritrovava in una sala ben illuminata e non pareva ci fossero grossi rettili da nessuna parte, eccezion fatta per delle tortore piuttosto grasse che tubavano fuori dalla finestra. C’era da dire però che quella non pareva per niente la questura di Parma in via della Posta e anzi, pareva più un condominio dal pessimo gusto in quanto ad interni. Le mura erano di un rosso sangue che pareva ottenuto dallo sgozzamento di svariati capretti, le finestre erano larghe e dai vetri bombati in complicati arzigogoli a forma di cerchio. Il pavimento era un mosaico raffigurante vari animali reali e fantastici, segni dello zodiaco e qualche croce uncinata qui e là. Doc e il signor Combe stavano dinnanzi a lei, intenti a guardarsi attorno.

―Ha funzionato, è meraviglioso! Siamo proprio dove eravamo prima, ma ancora prima di prima― Esclamava il barbuto, saltellando di nuovo di gioia.

―Forse dovrei chiedervi delle spiegazioni, ma le rimanderò a dopo― Avanzò minaccioso il signor Combe verso la figura zampettante del Doc. Ma quest’ultimo sminuì ogni conflitto, procedendo invece verso una finestra, togliendo il chiavistello in ferro ed aprendola, facendo volare via le tortore.

―Ammira, esimio signore, avete di fronte Parma, in tutta la sua bellezza.

Combe non capiva, si grattò il capo, ma avanzò verso il davanzale in marmo. Si tirò su, vista la sua bassezza e si appoggiò con la pancia sulla superficie fredda, stralunando gli occhi. Arrivò anche Marta dietro di loro. Si vedevano i tetti di tutto il quartiere da lassù, coperti da tegole in laterizio e terrazzi con giardini. Il che era assurdo, perché si trovavano al piano terra fino a qualche secondo fa. Non v’era poi traccia di antenne o parabole da nessuna parte. Nevicava leggero quel giorno e rumori di gente e animali affollava le strade. Più in là, un po’ sfumati dalla foschia, si vedeva piazza Garibaldi, ma dove doveva esserci il Palazzo del Governatore stava invece un edificio colonnato sopra una base scalinata. Al signor Combe sembrò girargli il capo e arretrò, andandosi a sedere stordito su una poltroncina in legno con cuscini, sotto una statua nuda di un’atleta in bronzo dagli occhi e i denti di perla e un giavellotto argentato.

―Io non ci credo. Non è possibile che noi ci troviamo…

―Ehi Doc, cos è questa roba?― Chiese abbastanza a disagio Marta indicando un quadro, come ve ne erano molti appesi in giro. Doc se la rise sotto i baffi, lisciandosi i riccioli della barba e avvicinandosi allo sgomento signor Combe, ancora infossato nella sedia ai piedi della statua.

―Credo proprio che a questa domanda potrà risponderti il nostro esimio compagno di viaggio. Non è vero signor Kata?― Esclamò lo scienziato dando una sonora pacca al basso individuo, tanto da rimetterlo in piedi.

―Ma quello è…― Balbettò l’uomo dalle folte sopracciglia, arrancando i passi dall’emozione e cadendo in ginocchio ―Un autentico quadro di pittura romana popolare. Mehercle, sembra fatto ieri!

Marta avrebbe definito l’immagine di un satiro che si ingroppava una capra a missionario in maniera ben diversa da “pittura popolare”, ma le altre espressioni che aveva usato e tutto quello che stava vedendo le avevano fatto venire un certo sospetto.

―Dove diavolo siamo Doc?

―Non dirmi che non l’hai ancora capito― Commentò lui ―Questa è la Parma che tu conosci, ma indietro nel 73 dopo Cristo, secondo il calendario Gregoriano, ma visto che qua Cristo non è molto popolare, potremmo dire che invece sia…

―L’825esimo anno dopo la fondazione di Roma!― Proruppe il signor Combe.

―Ma allora il tuo aggeggio funziona― Poi si voltò verso il paonazzo signore dalla statura non invidiabile, che contemplava la firma in basso a destra del quadro e la data. Era letteralmente stato fatto ieri ―E lei chi sarebbe invece, che sembra sapere un mucchio di cose sul posto?

―Io?― Chiese lui, sceso dalle nuvole. Poi riguadagnò il suo fuoco interiore e si alzò in piedi, pur non aumentando molto la sua altezza ―Io sono Combe, Kata Combe, linguista di lingue morte e storico rinomato.

―Se è così rinomato perché non l’ho mai sentita nominare?

―Perché agli uomini non interessa nulla di ciò che è morto, ma solo di quello che nascerà― Sbraitò Combe, punto nell’orgoglio.

―Avevo intenzione di portarlo con noi in viaggio sin dal principio― Spiegò il Doc ―Ma avevo paura che il suo spirito emotivo e nevrotico ci sarebbero stati di impiccio. Oltretutto non credo abbia i nervi di affrontare il nostro stesso viaggio.

―I nervi te li strappo se non la pianti di sminuirmi, razza di barbone in camicia da notte― E pareva sul punto di ricominciare a litigare, quando un’altra domanda di Marta li interruppe.

―E insomma, cosa dovremmo fare ora?

―Che dovremmo fare se non visitare questo meraviglioso passato, ragazza mia?― Ammise candidamente lo scienziato.

―Signor Girolamo― Gli strinse la mano con forza Combe ―Lei sarà anche un cafone e disadattato al vivere civile, ma la ringrazio per questa possibilità che mi ha concesso di poter ripercorrere uno dei miei periodi storici preferiti.

―Non c’è di che. Mi spiace aver dato un montante a sua moglie.

―Si figuri, direi che ne è valsa la pena se sono finito qui di conseguenza.

A Marta pareva di essere dentro una gabbia di matti. Da una parte il Doc con il suo nichilismo e completo alienamento da ogni essere umano e dall’altro uno storico borioso con complessi di inferiorità e i pugni nelle mani. E lei, una ancora fresca di tesi di laurea, che li stava accompagnando in quel folle viaggio attraverso il tempo. D’improvviso le pesanti porte di legno decorato dall’altra parte della sala si aprirono ed entrò una signora sui quarant’anni circa, dai capelli neri raccolti in una palla dietro la nuca, vestita di tunica azzurra, stola rossa e coperta di un mantello bianco, con appresso un seguito di vari individui altrettanto riccamente vestiti.

Quid agis, in domo mea?― Li minacciò la donna dai capelli neri, levando un indice accusatorio ―Tu conatur ad furtum pictura ex collectione?

―E adesso che vogliono questi tappeti ambulanti?― Chiese Marta, traendosi indietro, verso un angolo della stanza, insieme al Doc e Combe.

―Non capisco benissimo, devono avere un qualche accento regionale, ma sembra che abbiamo commesso una violazione di domicilio e quella è la matrona di casa. Accidenti, che meraviglia sentir parlare Latino da dei madrelingua.

Mea pulchra dolor! Fortuna nihil fuerit furto tamen. Ego sum iens ut vocant Vigiles Urbani et erit vobis in tribulatione!

―Ci hai preso ragazza mia, ci attendono tribolazioni― Confermò Combe, annuendo con la testa.

―Che ha detto ora Crudelia de Mon?― Insistette Marta.

―Crede che siamo dei ladri di pornografia o qualcosa di simile e chiameranno la polizia, o come diavolo la chiamano da queste parti.

―Ma chi la vuole la tua robaccia?― Marta scattò verso la sedia che giaceva sotto la statua, la sollevò sotto la propria testa e la lanciò verso il piccolo gruppo d’una mezza dozzina di parmigiani, centrando la matrona in fronte e facendola cascare per terra stramazzata, nel mentre che i presenti le prestavano soccorso.

―Ma allora è un vizio il vostro di picchiare le donne!― Protestò Combe, ma non ebbe il tempo di lamentarsi oltre che il Doc lo trasse per un braccio e, insieme a Marta, si arrampicarono sopra il largo davanzale della finestra che avevano precedentemente aperto. Sotto di loro un vicolo lastricato in ciottolato, stretto giusto un paio di metri. Dall’altra parte, poco più in basso, un terrazzo pieno di piante e alberi da frutto. Sembrava il tipico momento climatico di lanciarsi, ma Marta ebbe un colpo di vertigini.

―Salta Marty! Vuoi forse farti arrestare anche qui?― Le gridò il Doc dietro, dandole una spinta. Per un attimo corse il rischio di cadere, si aggrappò per bene agli infissi e, inspirando, saltò. Fece una parabola lenta e finì con l’impattare nelle fronde di un melo. Ne attraversò le fronde, che le rallentarono la caduta, e cadde di schiena sul pavimento in legno del terrazzo coperto di neve. I rami degli alberi erano molto più duri di quanto si ricordava e si era riempita di tagli ovunque. In più faceva un freddo dell’anima, molto più di quanto ne facesse nella Parma della sua epoca. Si alzò e si levò giusto in tempo per evitare che Doc e Combe le piombassero addosso.

―Fotoni ed elettroni, che razza di volo, ho la schiena a pezzi― Si autocommiserò Doc, pieno di foglie nella barba.

Euge! Il pericolo lo abbiamo scampato e l’atterraggio non è stato male― Intervenne Combe, biasimando il pessimismo del collega.

―Sfido io, mi sei cascato addosso, gnomo.

―Il qui presente gnomo ne ha abbastanza di essere preso in giro, barboncino d’uomo.

Marta diede un’occhiata alle sue spalle. Gli accompagnatori della matrona si erano sporti dalle finestre e gli lanciavano occhiate che parevano pugnalarli.

Qui fures sunt currit, prohibere eos!― Disse un uomo dai capelli castani e con una fascia rossa in testa del gruppo, gridando ai quattro venti.

―Ho come l’impressione che ci dicano di fermarci― Commentò Doc.

―Per la precisione vogliono che qualcuno fermi noi― Lo corresse Combe.

―Leviamo il disturbo― Agì Marta, infilandosi in una porta che dava giù per una rampa di scale buie. Presto gli altri due la seguirono. Scesero un paio di piano, prima di riprendere fiato su un pianerottolo del condominio e capire il punto della situazione.

―Non mi ricordavo che la questura fosse così in alto― Commentò Marta.

―Lo sarà fra qualche secolo, con l’innalzamento del terreno. La pianura padana, dopotutto, era coperta dal mare Adriatico fino a qualche migliaio di anni fa― Spiegò Combe.

―Il rimescolatore― Spiegò poi Doc ―Può spostarci nel tempo, ma non nello spazio.

―Se è come dici― Sollevò un’obiezione scettica Marta ―La terra ruota sul proprio asse e l’Italia in particolare a 1240 km/h. Senza contare inoltre che il pianeta stesso si muove attorno al Sole, compiendo un’elissi in quasi 30 chilometri al secondo. Senza contare poi che l’intero sistema solare si muove attorno al centro della Via Lattea, stando ai suoi bordi, e la galassia stessa si muove, facendo sì che la terra percorra circa 20 milioni di chilometri in un’ora. Come diavolo è possibile che noi possiamo apparire comunque a Parma nonostante tutto questo? Se fossimo tornati indietro di un’ora soltanto ci ritroveremmo venti e più milioni di chilometri lontani dal nostro pianeta a fluttuare nello spazio se così fosse, perché in quel preciso punto la Terra ci sarebbe passata soltanto tra sessanta minuti.

Il Doc e il signor Combe la guardarono allibiti.

―Beh, diciamo che ho una piccola passione per l’astronomia― Si scusò lei imbarazzata.

―Marty, il tuo problema è assai onesto e meriterebbe una risposta― Le disse il Doc poggiandole le mani sulle spalle ―Ma onestamente non ne ho la ben più pallida idea e per me va bene anche così. Altre domande?

―Beh…― Tentò di dire, prima di essere interrotta da Combe.

―Presto voi due, quei ricconi feticisti staranno cercando il quartiere da cima a fondo per trovare noi presunti ladri.

―E cosa fanno ai ladri professore?

―Dipende. Se fossimo dei liberi cittadini romani probabilmente ci fustigherebbero, stando alle leggi delle dodici tavole.

―Beh, per fortuna non lo siamo. Dovremo stare tranquilli no?

―I barbari invece li si ammazzava direttamente― proseguì Combe―Oppure ci possono spedire ai lavori forzati.

―In poche parole ci dobbiamo levare di torno, chiaro.

Si udirono dei rumori dal fondo delle scale. Salì sul pianerottolo una signora umile di mezz’età con in mano una cesta di vinimi del bucato e li guardò con aria stranita.

―Sarebbe dura non dare nell’occhio con abiti così fuori luogo in effetti― Borbottò Marta, osservandosi il giaccone.

―E poi a Roma si fa come fanno i romani― Aggiunse sogghignante Doc lisciandosi la barba come faceva sempre prima di ogni smargiassata.

Pax! Non verberatus mulieribus!― Li supplicò Combe. A quelle parole la donna se la diede a gambe, ma non abbastanza in fretta.


***


Dopo aver picchiato nuovamente una donna ignara e lasciatola inconscia sul pavimento a mattonelle del pianerottolo, i tre si appropriarono dei suoi abiti appena lavati e si diedero alla macchia, scendendo al piano terra. Fortunatamente anche in epoca romana esistevano le uscite sul retro e ne approfittarono per uscirsene chissà dove in uno dei vicoli, infilandosi in un mercato all’aperto. Passarono davanti dei venditori di stoffe, rifiutarono delle prestazioni sessuali e si sedettero su delle stuoie insieme ad altri di fronte a dei bardi che narravano le gesta di un eroe in esametri imparati a memoria, sotto un telone montato a coprire loro e il pubblico.

―Meraviglioso, semplicemente meraviglioso. Prima ho potuto ammirare la pittura su tela romana, di cui nessuno esempio era mai stato conservato, e ora posso godermi un poema orale che non ho mai sentito nominare. Evidentemente non deve mai essere stato messo per iscritto o forse è andato a perdersi nel corso del tempo― Contemplava con occhi luccicanti di meraviglia il signor Combe. Tutto il nervosismo pareva essergli sparito dal corpo.

―Comincia a venirmi fame― Borbottò Marta.

―Nessuna delle monete che abbiamo ha valore qui, a meno che non abbiate dei denari con la faccia di Vespasiano sopra la vedo dura comprarci da mangiare.

―D’accordo, niente cibo insomma e se volessi, beh, andare di corpo?

―Ci dovrebbero essere dei bagni pubblici in giro. Pubblici nel senso che non c’è alcuna privacy.

―Capito, vorrà dire che mi tratterrò― Poi Marta si voltò verso il barbuto scienziato ―Doc, quest’epoca non mi piace affatto, possiamo andarcene?

―Che lagnosa che sei― Sospirò lui ―Abbiamo appena cominciato e già vuoi andartene. Anche se fosse, comunque,  dobbiamo aspettare che il nostro rimescolatore si ricarichi prima di ripartire. Ci vuole un’ora fra un salto e l’altro― Combe fece loro segno di tacere. Tutto il pubblico si era voltato verso di loro a guardarli storto e maldicendoli in dialetto stretto.

―In pratica ci dicono di toglierci dalle scatole, non sopportano chi parla durante le recite― Spiegò loro Combe.

―Bah, che razza di snob questi romani― Si lamentò Marta alzandosi dalla stuoia, seguita dal Doc e il professore. Si diressero verso via Repubblica, o meglio il cardo maximus, quando intravidero un drappello di gentaglia con tunica gialla, mantello rosato ben stretto nel freddo, pettorina di cuoio ed elmetto di bronzo venire verso di loro, facendo domande ai passanti circa un’aggressione ad una donna patrizia. I tre viaggiatori cambiarono immediatamente direzione e si buttarono dentro la prima porta aperta che trovarono. Sembrava essere una trattoria, dalle mura intonacate o scoperte in legno, con un bel caminetto a fondo sala, affreschi allegri e colorati e lingue di tutti i tipi e canti che riempivano l’aria da parte di bocche di persone sedute a grosse tavolate e un gruppo di suonatori in un angolo.

―Santa polenta, credevo di essere a Parma e invece sono finita in un bar di Caracas― Si sbalordì Marta.

―Se solo avessimo qualche sesterzio ci potremmo permettere un bel cinghiale― Si leccò la barba Doc.

―Forse ho un’idea. Signor Combe, mi chiami l’oste per favore.

Combe fece come gli fu detto e gli si palesò di fronte un giovane inserviente dall’accento gallico e un latino elementare che gli presentò il menù a voce.

―Le dica che vogliamo il pasto più economico per tre persone.

Combe ripetette nella sua pronuncia decisamente poco classica. L’uomo rispose.

―Chiede se la zuppa di legumi ci va bene― Tradusse il professore.

―Mi andrebbe bene anche un cane con la fame che ho― Annuì il Marta.

―C’è anche quello, ma costa troppo teme. Ma toglimi una curiosità Marta: Come acciderba intendi pagare le zuppe di fagioli?

―Tu lascia fare a me― Si levò un bracciale dorato da un polso e lo porse al giovanotto biondo.

―Non essere ridicola, credi davvero che in una società avanzata come l’impero Romano tu possa metterti a barattare come fossimo in mezzo a dei barbari?

Il ragazzo protese la mano come a chiedere qualcos’altro. Combe parve essere soddisfatto di vederla smentita. Marta porse anche l’altro bracciale che aveva all’altro polso e quello parve contento, indicando loro un tavolo libero. La dottoressa in giurisprudenza sorrise al professore linguista.

―A quanto pare il romano non la pensa come te.

―Bah― Fu tutto quello che poté dire Combe ―Come al solito le nostre conoscenze sugli usi e consumi del microcosmo romano del primo secolo non sono complete.

Si sedettero alla tavolata e attesero la zuppa, togliendosi le sopra-vesti invernali e pellicce che si erano avvolti addosso. Finalmente, con tutti quei corpi ed il camino lì accanto, aveva smesso di far freddo.

―Certo che si gela qui a Parma― Commentò Marta, rigirandosi i capelli fra le dita.

―Certo che si gela: Gli inverni erano più rigidi quando il riscaldamento globale non era alimentato dalle nostre industrie― Commentò il Doc, togliendosi le ultime foglie di melo che gli erano rimaste impigliate nella barba.

―Professore― Proseguì la donna ―Lo parlate davvero bene il latino vedo.

―Modestamente― Replicò lui ―Sono uno degli ultimi latinisti rimasti a Parma. Anche se ora non posso più dire lo stesso vedendo la nostra compagnia. In particolare mi sono dato allo studio di quello di quello classico, che differisce da quello ecclesiastico per…

―Bah, non mancate mai di fare l’egocentrico, ecco perché non volevo portarvi con me― Si espresse dolce come la candeggina il Doc, interrompendo una spiegazione che avrebbe fatto somigliare tutto questo ad una tesi sull’evoluzione delle lingue romanze. Prima che potessero mettersi nuovamente a litigare passò l’inserviente, con le loro ciotole in legno piene di zuppa fumante. Si congedò con un saluto incomprensibile e se ne andò a servire un altro tavolo.

―Bel culo― Ammise Marta seguendolo con lo sguardo.

―Ti ha dato della travestita― Disse senza pensarci Combe, infilandosi subito in bocca il cucchiaio colmo di ben di dio.

―Come scusa?

―Ha detto “Buon appetito a voi signori e la travestita”― Spiegò lui masticando.

―Come avrei dovuto capire che questi erano abiti maschili? A me sembrano tutti degli abiti da sera. Bah, in ogni modo mi donano― La mangiata proseguì in silenzio, dopo tutti gli eventi trascorsi. Poi Marta se ne ritornò con un’idea a fine pranzo―Sapete cosa mi ricorda tutto questo?

―No, dimmelo tu― Replicò il Doc.

―Insomma, siamo una squadra improbabile di tre persone in giro per le epoche. Non vi ricorda un po’ Chrono Trigger?

―Non vedo alcuna rana cavaliere o Lavos che minaccia il mondo― Precisò il Doc ―Non mi freghi su questi argomenti, lavoravo già quando è uscito sul Super Nintendo.

―Quello che intendo dire― Sospirò Marta ―È che tutto questo sembra un perfetto gioco di ruolo. Abbiamo solo bisogno di affibbiarci delle classi e un obiettivo.

―Ma di che diavolo stai parlando?― Chiese candidamente Combe che non ci stava capendo nulla.

―Quello che sta cercando di dirci la nostra amica crossdresser― Si esplicò meglio il Doc ―È che visto che ormai ci siamo messi in gioco tanto vale metterci a giocare. Vedo che cominci a capire la mia filosofia Marty. Io ci sto.

―Perfetto allora. Siamo nella Parma del 73 dopo Cristo, che cosa potremmo fare assolutamente già che ci troviamo qui?

―Beh, tanto per cominciare ―Illustrò Combe― quest’anno avvengono le rivolte dei gladiatori a Capua, guidati dal Trace Spartacus. In Palestina nel frattempo, la fortezza di Metzada degli Ebrei zeloti viene espugnata dalla decima legione Fretensis.

―Qualcosa di più vicino possibilmente?

―Vediamo, vediamo, vediamo― Ponderò il professore ―Oggi non mi viene in mente niente.

―Ricorda― Gli fece notare il Doc ―Che non devi seguire il calendario Gregoriano, ma quello Giuliano.

―Ma certo!― Sbatté i pugni sul tavolo il professore ―Come ho fatto a non pensare a una cosa tanto basilare? Oggi è il primo di Ianuarius!

―E quindi?― Chiese Marta.

―È l’Agnolia Iani, feste in onore del dio Giano. Si sacrificano arieti per l’inizio dell’anno e si partecipa a dei giochi in piazza. Dobbiamo assolutamente partecipare.

―Uh, capisco! Dopotutto anche Chrono Trigger cominciava con una festa in piazza. E cosa facevano i romani?

―Bah, non si sa di preciso. Goliardate non violente pare.

I tre si alzarono allegri e uscirono dalla locanda. Nel frattempo aveva smesso di nevicare, lasciando un soffice strato di neve da calpestare sotto i loro calzari in pelle si diressero verso il cardo maximus, risalendolo e giungendo di fronte al piccolo foro cittadino, dove una vasta folla cominciava ad accumularsi intorno ad un’ara posta sulla scalinata di un tempio cangiante di colori.

―Mi aspettavo le città romane più… bianche― Si espresse confusa Marta alla vista intorno a lei dei i palazzi e templi del foro che splendevano di blu cobalto, verde smeraldo e rosso pompeiano.

―Il tempo ha cancellato le vernici― Spiegò il professore ―E quando arrivò il neo-classico, nel 1800, si rifecero all’architettura che gli era rimasta: bianche rovine sparse qui e là.

―Siamo arrivati appena in tempo, stanno per sacrificare il capro pare― Doc alzò il dito verso un sacerdote con un bastone bianco e un lungo cappello conico in testa, che scendeva i gradini del tempio di Giano fino a giungere di fronte all’altare in pietra, decorato da rami di alloro e nastrini rossi. Sopra stava legato un ariete nero. Passò il bastone ad un aiutante e trasse fuori un coltello con cui fece quel che doveva. La folla esultò.

―È finita? ― Chiese Marta ancora con le mani sulla faccia ―Posso guardare?

―Mah, forse non adesso, gli stanno tirando fuori il fegato per la divinazione― La avvertì il professore.

―Venite― Li incitò il professore ―La folla si sta spostando da una parte, forse cominciano i giochi.

―Giusto una domanda professore― Chiese la donna ―Non andremo mica all’arena?

―Non quel genere di giochi, te l’ho detto, giochi non violenti, simpatici, divertimento per tutta la famiglia insomma.

Si immersero nella folla. Non del tutto però, perché l’altezza media, da quelle parti, si aggirava intorno al metro e sessantacinque pare. Combe si sentì molto più a suo agio tutto d’un tratto, mentre Marta e Doc potevano vedere oltre il capo di buona parte dei passanti. Arrivarono a quello che pareva un recinto di legno montato per l’occasione e cosparso di sale per far sciogliere il mantello di neve. Su un piccolo palco di fianco il recinto un annunciatore andava a pronunciare con voce entusiasta e facendo gran vortici con le braccia. A quanto pare la tradizione italica del gesticolare aveva radici ben più profonde di quanto si credesse.

―Dice― Tradusse il professore ―Che cercano volontari per le “corse di Giano”. Mai sentito parlare.

―Corsa eh?― Sorrise Marta ―Ero brava nell’atletica leggera alle superiori, penso di potercela fare. Cosa devo fare per propormi?

―Alzi la mano sciocchina― Alzò le sopracciglia il Doc, nel mentre che tutt’intorno si alzavano un gran numero di braccia. Quello di Marta però sporgeva giusto un po’ di più, sia per la statura che per la sua carnagione. L’annunciatore indicò man mano tutti quelli che gli parevano idonei e con larghi gesti incitò anche lei a farsi avanti. Timidamente si mosse e entrò dal cancello della recinzione che era stato aperto da degli addetti e i partecipanti furono divisi, le parve, in base all’altezza similare, in cinque coppie. Colui che gli accoppiarono era un biondo che conosceva bene, il gallo dal culo interessante. Dovevano essere la più alta delle coppie scelte. Per un attimo gli parve che l’universo le avesse dato una gioia e seppure non si capivano per nulla presero a parlarsi per il solo gusto di sentire quanto dolce fosse la voce dell’altro e a toccarsi per tastarne la pelle calda e morbida.

―Dici che dovremmo dirglielo?― Chiese il professore a Doc di fianco a lui.

―Dirle cosa?

―Che a questa gara partecipano solo maschi.

―Oh beh, solo quel gallo sa che Marty è sprovvista di pene in ogni caso e la sua voce è decisamente molto poco da signora. E poi l’omosessualità era accettata nell’Impero Romano, no?

―Beh, sì, ma non così in pubblico.

―Via, via, lasciamo lo scandalo ai giornali di domani. Piuttosto, come avevi detti che sarà questa gara?

―Bah, di preciso non lo so, nessun testo ne parla nello specifico, ma sembra che sarà qualcosa di adatto per tutta la famiglia, come ho detto alla tua Marty.

***


―E questo tu lo chiami “divertimento adatto a tutta la famiglia”, sottospecie di latinista di second’ordine? ― Sbraitò la povera Marta mentre veniva legata con una spessa corda al suo stesso compagno, premendoli schiena contro schiena, di modo che i loro torsi fossero incapaci di muoversi senza trascinare l’altro e restringendo le loro braccia ai fianchi. Il professore sudava freddo mentre cercava di rincuorarla, sporgendosi verso l’interno del recinto.

―È troppo tardi per tirarsi indietro Marty!

―Non chiamarmi Marty anche tu… mff!―Fu tutto quello che riuscì a dire prima che lo staff della gara le mise una mela matura in bocca, per poi fare lo stesso con il suo compagno di sventura. Lui però appariva del tutto tranquillo, probabilmente perché conosceva già le regole del gioco.

―Ascoltami bene― Iniziò il professore prima dell’inizio della gara ―Questa è una celebrazione in onore di Giano bicefalo e come lui dovrete correre guardando in due direzioni diverse. Dovete compiere prima un giro di fronte a voi e il tuo bel ragazzone, che guarda di fronte, dovrà mollare la mela che ha in bocca in un cesto a fine tragitto. Poi dovrete correre all’indietro e sarai tu a condurre stavolta e dovrai fare la stessa cosa con il cesto che hai davanti. Mi sono spiegato bene?

Anche se non fosse non avrebbe certo potuto dire di no. Frattanto le cinque coppie erano state allineate ad una linea di partenza tracciata con un gesso rosso sopra la strada. Da sopra il palco partì una preghiera riferita a Giano e infine partì quello che pareva un anacronistico conto alla rovescia. Marta non ebbe bisogno di alcuna traduzione per capirlo.

Sex… Qvinqve… Qvattvor… tres… Duo… Unvs… Heia!― Al grido dell’annunciatore venne fatto suonare un corno. Decisamente non ci si poteva sbagliare.

La corsa partì ed era molto più complicato di quanto pareva. Lo spazio per muovere le gambe era letteralmente dimezzato e correre senza potersi bilanciare muovendo liberamente il resto del corpo era decisamente terribile. La coppia al centro cadde quasi subito, fra le risate generali. Marta non pareva assolutamente avere voglia di ridere in quel momento. Come se non bastasse, quel gentilissimo gallo non prestava alcuna attenzione allo scalciarle i piedi nel modo in cui si muoveva e anzi, non c’era alcun lavoro di squadra, praticamente se la trascinava dietro con ben poco riserbo. Non riusciva quasi a mettere le suole a terra. All’improvviso avvenne un gesto che lei trovò ben poco sportivo, ma che evidentemente doveva essere esilarante per la cultura romana. I due partecipanti a fianco diedero loro una sonora spallata che li costrinse contro il recinto in legno. Per un attimo i due furono costretti a fermarsi e furono smontati dalla prima posizione che tenevano fino a metà percorso. Era l’occasione idonea per agire, cercando di ignorare il dolore al costato che gli avevano procurato. Marta non ne sapeva quasi niente di latino, ma una cosa gli balenò in mente.

Eqvvs! Eqvvs, maledetto imbecille!― Esclamò lei traendo la testa all’indietro e cercando di non farsi scappare la mela dalla bocca,  per poi prendere a saltellare all’indietro, costringendolo in avanti. La folla attorno a loro rise, come a prenderla per pazza, ma il biondone, dopo un attimo di smarrimento capì e prese a saltare anche lui. In maniera coordinata presero a zompare in avanti più come una rana che un cavallo in verità, ma funzionava comunque, riuscendo a coordinarsi meglio degli altri partecipanti. Recuperarono in fretta la loro posizione e già che c’era Marta ne approfittò per rifilare un calcio al fianco di uno della coppia che li aveva spintonati prima, facendo riversare entrambi in terra sulla pavimentazione stradale gelida. Due coppie erano state eliminate, ma ciononostante si ritrovarono ad essere gli ultimi a depositare la prima mela, sputata in fretta e furia dal gallo, seppure non di troppo rispetto alle altre due coppie. Ora era il suo momento di condurre la gara e si ritrovò disorientata dall’avere il peso del biondo dietro di lei spingerla in avanti tutto d’un tratto. Evitando di cascare in avanti a fare compagnia agli altri quattro che lo avevano già fatto, e che non lo facevano sembrare chissà quanto divertente, riuscì a coordinarsi infine per saltellare anche nel verso opposto. Ma adesso la prima e la seconda posizione era mantenuta da gente che ormai non aveva eccessivi problemi a coordinarsi. La loro strategia da cavallo/ranocchia poteva funzionare per tenersi in testa rispetto a quelli che faticavano a farlo, pur andando più lentamente rispetto ad una locomozione più tradizionale. Certo, avrebbero potuto ad imitare il passo di quelle due coppie, ma non c’era il tempo di imparare sul momento i loro movimenti. Era di nuovo il momento di prendere in mano la situazione.

Marta si piegò in avanti tutto d’un tratto, approfittando del salto del suo compagno, caricandoselo tutto sulla schiena. Quelle ebbe un gridolino a sentirsi trasportato all’improvviso come uno zaino ma non c’era il tempo né il modo per lei di spiegare la sua strategia. Ora, piegata quasi parallela al terreno, senza il bisogno di coordinarsi con le gambe del compagno, Marta si mise a correre per controbilanciare il peso che la spingeva a farsi sfracellare in avanti. Vero, ora doveva trasportare il peso di due persone da sola, ma ormai si trovavano a meno della metà del tragitto di ritorno e quelle condizioni le permettevano di correre in maniera più libera rispetto agli altri quattro, costretti a rispettare i ritmi del compagno. E poi, di fatto, stava facendo la stessa cosa che il bel ragazzo biondo aveva fatto a inizio gara, tirandoselo dietro come una bambola. Corse come non correva da anni, quasi la sua vita dipendesse da quella maledetta celebrazione romana. Superò la prima coppia, in mezzo alle esclamazioni di sorpresa del pubblico plaudente e le proteste del compagno incomprensibili. Rimaneva la coppia in testa. Non c’era più spazio per superarli, seppure andasse più veloci di loro quei due ormai erano quasi al traguardo, ma ci provò comunque raddoppiando i suoi sforzi. Quando si rese conto che, a soli cinque metri dal traguardo, si trovavano in un testa a testa, Marta tirò l’ultima carta che gli rimaneva. Piegò le gambe più del solito e spiccò un balzo in avanti, sputò la mela verso il cesto e ricadde dolorosamente a terra con addosso il peso del compagno. Ecco, aveva dato il tutto per tutto e forse anche di più. Rimase a terra più di quanto gli servisse per riprendersi perché non aveva proprio voglia di vedere il risultato.

―Apri gli occhi e tirati su Marty― Le gridò eccitato il Doc ―Gli hai fatto il culo a quei romanacci!

Marta non ebbe neppure bisogno di alzarsi che ci pensarono gli organizzatori della gara slegare loro due e portarli letteralmente in trionfo. Come se non fosse già stordita abbastanza dalla corsa ora un branco di parmigiani li stavano gettando in aria per celebrare apparentemente la sua vittoria, in un misto di celebrazioni e risa. A fianco a lei, e sfinito quanto lei, il gallo le prese la mano e le sorrise. Non ne era sicura, ma doveva essere un momento felice, per quanto non ne fosse convinta del tutto. In mezzo alle mani che la tenevano per aria si rese conto che ci stavano anche quelle del Doc e del professore. Li portarono e depositarono di fronte al palchetto in legno, dove l’annunciatore era sceso diede loro un paio di coroncine d’alloro e un sacchetto di monete ciascuno, tante strette di mano e pacche sulla schiena, per poi procedere con un altro turno e altri volontari, lasciandoli da soli, lei, i due svitati e il bel fusto del gallo.

―Cinquanta assi― Studiò il contenuto della sacca Combe, estraendone dei pezzi di bronzo lucenti. Sopra vi stava, da un verso, il faccione paffuto di Vespasiano e, di rovescio, la Pace seduta con in mano il caduceo. Il professore si leccò i baffi ―Con questi ci potremmo organizzare un lauto pasto, altro che zuppa di legumi.

―Avete intenzione di restare ancora a lungo professore?― Chiese il Doc alle sue spalle.

―Ma certo, chi ha voglia di ritornare a casa, questo è un paradiso― Esclamò tutto contento allargando le braccia e guardandosi attorno ―E poi dopo mi dovete assolutamente portare in altri posti e in altri luoghi. Per esempio, sarebbe meraviglioso attendere all’incoronazione di Carlo Magno nel 800 o, nello stesso anno, assistere alla prima eruzione del monte Fuji.

―E tu che mi dici Marty?

―Io?― Replico lei, mentre si cingeva con quel bel faccino abbronzato ―Io non mi muovo da qui. Che mi frega di Gladys, guardate che meraviglia che ho qui.

Allora il gallo mormorò qualcosa di mellifluo, sempre con la sua voce dolcissima. Marta annuì sempre sorridendo, stringendosi sempre più a lui, mentre invece Combe se la rise.

―Dice che si scusa― Spiegò fra un riso e l’altro.

―Scusarsi per cosa?― Chiese lei.

―Per aver fatto faticare tanto una cosa nobile donna e che d’ora in poi ci penserà lui a te.

Marta se lo studiò per bene, dal suo sorriso perfetto ai suoi polpacci scolpiti.

―Bah, sarai anche più gnocco di Gladys, ma almeno lui si aspetta troppo da me, non troppo poco― E detto questo lo scansò da sé, dirigendosi verso gli altri due viaggiatori ―Andiamocene da un’altra parte, non ho tempo per la misoginia latina.

Il gallo, disperato le corse dietro e fece per fermarla, stringendole il braccio. Lei provò a scuoterlo, ma quello continuava ad implorarla in una lingua che lei non capiva, senza mollarla. Senza aspettare alcuna traduzione del signor Combe lei replicò con un cazzotto allo zigomo che lo stese al suolo mezzo morto e mezzo vivo. Marta si sbatté le mani e riprese ad allontanarsi.

―Non avrai esagerato?― Chiese il professore.

―Stiamo già intromettendoci troppo con la storia, forse dovremmo darci una calmata― Rimuginò il barbuto scienziato.

―Beh, cosa avrei dovuto fare? Lasciare che mi strappasse i vestiti di dosso?― Replicò lei irritata. Quasi l’avesse udita  l’ironia del destino stesso, all’improvviso si sentirono chiamare alle spalle e si voltarono giusto in tempo per ritrovarsi davanti il bel biondo venirgli incontro con gli organizzatori della corsa di Giano. L’annunciatore, avendo perso la sua maschera raggiante, alzò il braccio con fare rigoroso e si piazzò di fronte loro.

Haec dicit, qui civis non sit mentula― Si espresse freddo l’annunciatore con la barba a punta ―Gallus habet veritatem?

―E ora che vogliono, un autografo?― Rimase perplessa Marta.

―Credo che il nostro bel signorino abbia spifferato la tua mancanza di genitali adeguati― Le andò spiegando il professore.

Ostende nobis teipsum vestes tuas. Omnia nuda in veritate― Concluse il latino sogghignando e leccandosi letteralmente i baffi.

―E ora vogliono che tu ti tolga i vestiti per verificare la veridicità di tali affermazioni― Proseguì Combe.

―Ma siamo matti? Quanto devi essere morto di figa per vendicarti in questo modo?― Inveì lei pur sapendo che non poteva farsi capire dal gallo. Ciononostante il tono era chiaro.

―Beh direi che siamo di nuovo nei guai― Sentenziò Doc, lisciandosi la barba azzurrina ―Se solo uno di noi avesse un dispositivo apposito che ci possa permettere di uscire da questa spiacevole situazione.

―Smettila di fare sarcasmo e facci tornare a casa― Lo implorò Marta ―Non mi piacciono i loro sguardi.

―Lo farei volentieri, ma, vedi, anche se ora la carica è sufficiente, non abbiamo a disposizione un portale sottomano da attraversare.

―Allora― Comprese lei, serrando i pugni e assumendo una posizione da difesa come un pugile ―Non ci rimane che aprirci la via a cazzotti.

―Per quanto l’idea di una rissa sembri divertente temo che ci troviamo in una situazione di svantaggio.

―E allora che si fa?

―Restituiscigli la somma e forse andrà tutto bene.

―Fossi matta. Secondo me questo vogliono ben altro oltre quello.

―Che maliziosa che sei, neanche fossi chissà che bel vedere.

―Sempre in vena di complimenti ed empatia umana Doc, non c’è che dire― Sospirò l’altra, preparandosi al peggio. Frattanto si era radunata, attorno loro, una folla di curiosi e indignati. Sopraggiunsero sul posto anche una mezza dozzina di vigli, allertati dal chiasso, pronti a risolvere la situazione a randellate. Marta e Doc sapevano che ormai non sarebbero riusciti a tenersi lontani gli scandalizzati parmigiani ancora a lungo a furia di guardarli male. E quel che era peggio era che, proprio come nel loro tempo, non avevano alcuna documentazione da esibire e di certo, coloro privi di cittadinanza romana, non parevano gran diritti civili da vantare per evitare il linciaggio da parte di una folla insultata dalla rottura delle loro tradizioni. D’improvviso una voce loro familiare si propagò nell’aria. Combe era riuscito a sgusciare nella confusione e salire sul palchetto in legno dove sostava precedentemente l’annunciatore e teneva alzate le mani per attirare su di sé l’attenzione, lanciando un richiamo nell’aria. Avuti su di sé gli occhi del foro si lanciò in un magnifico discorso in latino classico, che per favorire la narrazione riproponiamo fedelmente qui, tradotto nell’Italiano del ventunesimo secolo.

―Cittadini, fratelli, calmate i vostri spiriti! Avete forse dimenticato che oggi si festeggia il padre di tutti gli dei, Giano bifronte? Egli è l’inizio e la fine di ogni cosa, egli è il verso e rovescio in un’unica persona, egli è simbolo di nascita e morte. Oggi è morto il vecchio anno ed è iniziato il nuovo e il tempo non scorre che in avanti, per Roma come per tutto il resto del globo conosciuto e il tempo porta con sé rinnovamento e novità. Questa donna, che voi avete dinnanzi i vostri occhi e che volete schiacciare sotto le vostre mani, è quella novità che ci viene incontro. In questo giorno di festa Giano ci ha dato dimostrazione del suo spirito, sovvertendo le regole naturali. Codesta signora ha gareggiato in mise maschile e capelli corti, ha superato i suoi avversari del sesso opposto con piede Achilleo e nell’ultimo tratto è stata lei a condurre da sola il compagno in spalla come un bambino. Davanti a una tale prova di gagliardezza amazzone come può salirvi la bile piuttosto che la meraviglia di fronte a uno spettacolo di tanta prodezza atletica? Ammirate le virtuose capacità di questa dama, così come ammirate gli eroi di Vergilius Maro o Valerius Flaccus, e non imbellite scuse per sminuirla. Chi può, fra di voi, negare la validità e il coraggio del dittatore perpetuo Iulius Caesar quando attraversò il Rubico con il suo esercito, pur contravvenendo alle norme di Roma, sovvertendo dunque l’ordine come lei fece oggi? Fratelli, io non vi imploro di risparmiarla, bensì vi biasimo con furia per la vostra ipocrisia. Ella ha sconfitto senza frodi gli altri partecipanti e merita ogni nostra lode. Chiunque osasse alzarle una mano contro lo farebbe solo per la vergogna di essere stato superato da una donna e io provo pietà per tali uomini, che invidiano le capacità altrui piuttosto che sforzarsi di far risaltare le proprie. Non v’è stata alcuna offesa agli dei quest’oggi, bensì una dimostrazione del volere rivoluzionario di Giano. Pace e serenità fratelli miei, celebrate la virtù, non schernitela dietro morali sterili! 

Ci fu un silenzio strano, composto da un amalgama di esitazione, sorpresa, indecisione e stordimento. Poi si sentì la voce solitaria di un uomo. Stava a cavallo di una montatura marroncina e applaudiva, muovendo le labbra incorniciate dalle rughe.

Vere bene dixit― Esclamò l’uomo vestito per bene in un abito porpora, quasi divertito ―Sicut tonitrua oris tui!

All’applauso solitario si unì presto quello di tutta la piazza, come a seguirne l’esempio, incantati. L’annunciatore che fino a un attimo fa minacciava Marta e il Doc sembrò scusarsi imbarazzato e se ne andò, come tutti gli altri, ad acclamare il discorso del professor Combe. Lo trassero giù dal palco e lo spintonarono allegri verso l’uomo a cavallo e la sua scorta. I due si guardarono perplessi, mentre lui se ne stava a discutere amabilmente con il suo nuovo compare ben vestito.

―Ma che diavolo ha detto?― Chiese lei sconcertata.

―Non ne ho idea― Se ne uscì il Doc scrollando le spalle e asciugandosi la fronte ―Ma di sicuro ci ha risparmiato un bel po’ di grane e forse pure la vita.


***


―E insomma, dicci, chi sarebbe questo tuo nuovo amico?― Chiese il Doc, rivolto a Combe, sfilandosi i calzari e seduto sopra il ceppo tagliato di un noce lungo la sponda del Parma, ghiacciato. Marta non aveva mai visto il fiume in queste condizioni. Il Doc aveva ragione, certe cose capitava di vederle solo una volta nella vita. Ormai cominciava a farsi buio. L’atmosfera s’era tinta di viola e la temperatura dell’aria andava calando.

―Un avvocato molto in vista pare. Era in viaggio di ritorno da Aquileia verso Roma e si era fermato a Parma per festeggiare il Capodanno. A quanto pare le mie capacità oratorie lo hanno colpito e mi ha detto che potrei fare strada nei tribunali romani se facessi pratica e ottenessi la cittadinanza in un qualche modo. Abbiamo parlato a lungo, ma è inutile che ti dica tutto.

―Certo che è proprio un peccato― Affermò Marta, passando loro davanti, scivolando sul ghiaccio coi suoi pattini in legno ―Avere l’opportunità di fare carriera da queste parti solo per tornare alla propria linea temporale.

―Veramente pensavo di stabilirmi qui― Disse sovrappensiero Combe. Doc si era appena messo in piedi sul ghiaccio che scivolò cadendo in avanti per la sorpresa.

―Ma che diavolo stai dicendo? La nostra doveva solo essere una visita turistica. Non possiamo metterci a giocare con la storia umana.

―Senti chi parla― Borbottò lui, avvolgendosi stretto nella cappa d’animale ―Voi siete i primi a prendere sotto gamba il flusso degli eventi. Se proprio dobbiamo intervenire, cosa che voi avete già fatto mettendovi a fare gli idioti in giro per la città, tanto vale intervenire sul serio. Voi sapete che l’umanità ha compiuto molti sbagli, estinguendo specie e cancellando culture. La maggior parte degli uomini è dominata dai più bassi istinti di avidità e fame perpetua e c’è bisogno di una figura che guidi l’umanità verso un cammino migliore, più razionale e puntato al progresso.

―E vorreste essere voi, non è vero?― Chiese il Doc, mettendosi le mani non nei capelli ma nella barba da quanto nervosismo gli saliva in corpo ―Sarete voi a mostrare la verità all’uomo, la via giusta?

―Sicuro dottore. Con la mia conoscenza degli avvenimenti futuri e delle scienze moderne potrei mostrarmi come una figura messianica e portare, con il mio pensiero illuminato dalla storia, l’umanità verso una via più pacifica e prosperosa, sopprimendo i comportamenti che la portarono all’errore nella nostra linea temporale, anticipandoli. Pensate ad un mondo senza alcuna guerra mondiale, razzismo, religione o povertà.

―Bah, è questa la filosofia che hanno seguito tutti i tiranni della storia. Al contrario di quanto pensiate nessuna atrocità viene commessa pensando di far del male. Credete forse che Adolf Hitler o Pol Pot si considerassero dei birbantelli professore? Gente come voi crede sempre di saperla più degli altri e di poter decidere per tutti. Siete quanto di più io odio nel mondo: Fautori di istituzioni sempre più strette e incanalate nella vostra visione schematica delle cose, ecco cosa siete. Era questa la ragione per cui non avevo in programma di portarvi con me.

―Doc!― Lo richiamò dietro di sé Marta, che continuava a piroettare in giro, senza seguire la discussione ―Un po’ di rispetto, dopotutto ci ha salvato la vita, lo hai detto tu, no?― E tornò a scivolare via sotto le arcate in mattoni del ponte di Mezzo.

―I fatti stessi ti danno torto Girolamo― Sorrise trionfante il professore ―Io sono riuscito a condizionare il pensiero di questi latini con il mio solo parlare e vi ho salvato la vita. Erano pronti a linciarvi per aver fatto partecipare una donna ad una competizione atletica come insulto a Giano, te ne rendi conto? Eppure, nonostante il loro sessismo e fanatismo religioso, io sono riuscito a dominarli, conoscendo la loro cultura e la loro storia e portandoli a prendere la decisione che ai loro occhi appariva coerente e che invece cozzava contro ogni cosa in cui credevano. Io ho manipolato loro e posso manipolare il resto del mondo antico per ottenere un mondo nuovo.

―E credi che io te lo lascerò fare?― Digrignò i denti il dottore, stringendosi la tasca nella quale teneva il rimescolatore.

―Certo. Devi solo darmi quell’affare ed insegnarmi a usarlo e, allora, compirò il mio pellegrinaggio attraverso le epoche come un profeta. Guiderò tutti i popoli, in qualunque luogo e momento, dalle palafitte del Neolitico alle civiltà dell’Indo dell’età del bronzo, finanche al castello di Osaka del Sengoku, la Machu Picchu di Pachacútec o la Berlino di Friedrich der Große.

―Non hai neppure assaggiato un’oncia di potere e già esso ti ha dato alla testa. Non lascerò cadere il mondo nella mani di qualcuno che non ha alcuna fiducia nella libertà dell’individuo e anzi vuole isolare le menti in muri da lui progettati. Non ti lascerò incanalare la storia come meglio desideri.

―Perché vuoi negare all’umanità il suo vero messia? La storia è fatta di uomini che hanno dominato altri uomini, perché non vuoi darmi la stessa opportunità?

―Perché nessuno dovrebbe avere tale opportunità! Napoleone, Stalin, Mao Tsetung, Gengis Khan, Mussolini, Francisco Franco, l’odierno al-Sīsī, certo, hanno dominato e dominano le persone, hanno avuto una influito nel corso del tempo, ma lo hanno fatto con mezzi leciti per quanto crudeli, agendo nel contesto storico e non hanno mai avuto la possibilità di assoggettare anche persone al di fuori del proprio tempo, come invece intendi fare tu. È già terribile esistere in un mondo dove tali realtà di governo esistono per natura umana e non permetterò mai che tu proponga un modello ancora peggiore ed esteso a tutta la storia conosciuta. Se i dittatori vedevano gli uomini come criceti tu invece li vedresti come formiche in un terrario trasparente, privo di segreti.

―Ora basta. Tu non sei altro che l’unico ostacolo che separa il mondo dal proprio destino che io traccerò per esso. Dammi subito il rimescolatore o giuro che…

―Giuri cosa?

Combe si guardò attorno, arrossato. Certo, prendere il rimescolatore con la forza dal Doc era fattibile. Marta però era il vero problema: In tutta onestà era più che capace di suonargliele sode. Per ora se ne stava tranquilla a svolazzare come una farfalla sulla superficie ghiacciata del fiume, ma ci avrebbe messo poco a passare allo stato di offesa e stenderlo come aveva fatto con il gallo di bell’aspetto. Si guardò indietro. Poco più sopra, su per il bacino del fiume, sotto le mura della città e appoggiati a chiacchierare amabilmente sulla balaustra in legno del ponte, stava il suo recente conosciuto avvocato Servius Avidius Aebutia, con la sua scorta personale, insieme a ridere e scherzare con il prefetto della città.

―Giuro nulla. I giuramenti questi valgono. Vado a vedere la processione davanti il tempio. Credo di dovermi snervare un po’. Se hai bisogno di me sai dove trovarmi― E si allontanò, risalendo il bacino innevato del Parma. Il Doc lo seguì con lo sguardo. Lo richiamò un’ultima volta.

―Tua moglie ti starà aspettando Kata. Fallo per lei.

Combe non si voltò a rispondere. Il Doc girò il capo e vide Marta più in là, quasi nell’oltre torrente a giocare come una bambina. Aveva preso a rigare il ghiaccio con un pattino solo, tendendo l’altra gambe dietro di lei, le braccia allargate a mo’ di ali, il torso parallelo al terreno e un gran sorriso stampato in faccia. Provò a interrompere la sua esibizione di pattinaggio artistico improvvisato ma anche tenendosi le mani a megafono, oltre trenta metri e con il chiacchiericcio degli altri pattinatori, la sua voce si perse. Provò allora a dirigersi verso di lei, ma l’equilibrio non fu mai il suo forte. Avanzò lentamente sulla superficie ghiacciata, le ginocchia vicine l’una all’altra. Aveva quasi percorso metà del letto del fiume che fu speronato alla schiena da un paio di bambini che si rincorrevano. Comicamente provò a riportare il suo baricentro al suo posto ma finì solo per far partire le gambe in avanti e il resto del corpo all’indietro. In quel breve istante in cui si ritrovò a mezz’aria cominciò già a pensare quale esclamazione fosse la più adatta per il dolore che presto sarebbe conseguito, ma non ci fu bisogno di trovare una risposta.

―Per tutti i quasar…―Fu tutto quello che riuscì a mormorare quando si rese conto che la superficie morbida sopra cui era piombato fosse quella di Marta. Veloce come un lampo gli era venuto incontro e gli era scivolata dietro giusto in tempo per cercare di fermare la sua caduta. Ora giacevano entrambi a terra, sopra il pelo ghiacciato e crepato all’impatto dell’acqua ―La mia schiena ti è debitrice Marty.

―Ngh… Non c’è di che Doc― Si sforzò di sorridere Marta, nonostante avesse il peso di un corpo da settanta chili sullo stomaco. Il Doc si scostò senza rialzarsi, cosa che fece subito lei. Rifiutò inizialmente il suo aiuto per alzarsi ma fu costretto a rivedere la sua posizione dopo un altro paio di tentativi ―Ecco, così― Disse nel prendergli le mani gelate dal freddo. Poi si guardò attorno ―Dov’è finito il linguista? Non pattina con noi?

―No― Si rifece di nuovo cupo il Doc al suo menzionare e scuotendo la neve via dai suoi vestiti. Dopodiché si infilò le mani sotto il mantello ―Decisamente non ha intenzione di pattinare con noi. Si è sempre preso troppo sul serio per divertirsi.

―Sarà sicuro lasciarlo andare? Dalle nostre ultime interazioni con i parmigiani del primo secolo avanti Cristo non mi sembra sicuro girare da soli.

―Oh, fidati― Rabbrividì lui, non lisciandosi ma grattandosi la barba ―Si trova più che a suo agio da solo, lontano dal calore umano.

Marta sbuffò e incrociò le braccia.

―Ti ricordo che ci troviamo a quasi milleduecento anni prima che nasca Dante e l’unico che conosca la lingua e tradizioni del tempo è l’uomo che tu continui a maltrattare sin da quando siamo partiti.

―”Maltrattare”, che paroloni…

―Forse tu non te ne rendi conto perché hai la mente di un bambino, ma sei abbastanza carente per quanto riguarda il buon senso.

―Marty, non è il momento per discutere, o meglio, dobbiamo discutere di tutt’altro― La implorò annoiato mettendole una mano sulla spalla. Lei la scacciò via come una zanzara.

―No, invece dobbiamo discutere proprio di questo Doc. D’accordo, sei un genio, hai creato una micro-macchina del tempo, certo, ma dovresti pensare prima di dire o fare qualcosa. Come per esempio iniziare una rissa in centro per impedire la pubblica circolazione o portarci nel bel mezzo dell’impero romano nel mentre che andavo a prendere il pane. Ora che ci penso io devo ancora fare la spesa…

―Sì, hai perfettamente ragione, Marty― Proruppe lui con un tono molto meno rilassato di quanto credeva, cominciando a sudare e tremando sempre di più. Tirò la sua invenzione fuori dalla tasca ―Ho fatto cose terribili senza pensare, come per esempio creare questo maledetto rimescolatore.

―Beh, a me non sembrava così male.

―No Marty, io ho creato il più grande pericolo dell’umanità dopo lo scioglimento dei ghiacciai. Abbiamo discusso io e Combe e sì, abbiamo litigato. Combe ha proposto di essere più.. attivi nel nostro uso di questo affare.

―Attivi in che senso?― Marta assunse un’espressione perplessa.

―Dominare il mondo Marty, influenzare il tempo come gli pare e piace per cancellare dai libri di storia tutto quello che non gli va bene, dal genocidio degli Armeni a quello degli Americani, dal comunismo all’imperialismo giapponese. Una cancel culture totale, ecco in che senso.

―Beh― Marta ragionò un momento prima di rispondere ―In effetti non sembrerebbe poi così male.

―Marty, non essere anche tu così stupida da non capire cosa vorrebbe significare!― Il Doc alzò una mano per darle una sberla ma si trattenne. Forse perché Marta era più che capace di retribuire il gesto ―Una persona sola che, dall’alto della sua boria nata dall’essere nata in un’epoca futura, crede di poter purificare il mondo da ogni sbaglio commesso.

―Ma si potrebbe fare― Azzardò lei, dubbiosa ―Dopotutto Combe conosce la storia per filo e per segno. Le conquiste sociali che abbiamo guadagnato oggi potrebbero arrivare prima sotto la sua direzione, come l’abolizione della schiavitù o i diritti civili per le donne.

―La storia non funziona in maniera lineare, non è un’evoluzione intelligente, che dal peggio passa al meglio. È un caos continuo, una rimescolanza perenne di idee e filosofie, che seguono, sì, una logica di causa ed effetto, ma che non convergono verso alcuno scopo o destinazione finale di illuminazione. Noi, figli dell’era atomica, siamo tutto meno che superiori da un punto di vista morale o di principi rispetto ai cittadini di Vespasiano che ci circondano. Certo, le donne non possono accedere al senato, i prigionieri di guerra si sgozzano nelle arene, i criminali vengono crocifissi e ci troviamo in uno stato pesantemente militarizzato…

―A me sembrano delle ottime ragioni per cambiare le cose…

―Ma chi siamo noi per introdurci nel contesto storico e cambiare le cose, per distruggere la cultura di un popolo, determinare per loro cosa è giusto e sbagliato, applicare le nostre morali, i nostri costrutti mentali, nati da un contesto che li ha resi possibili, su delle popolazioni completamente diverse da noi? Non ti sembrerebbe ridicolmente assurdo che all’improvviso scendano degli alieni venuti da chissà dove e con degli schemi mentali incomprensibili, a dirti cosa fare, come comportarti, cosa pensare e con una tecnologia abbastanza superiore per costringerti a farlo? E invece è proprio quello che gente come Combe ha intenzione di mettere in pratica.

―Se questo servisse ad ottenere un mondo migliore…

―Non può esistere un mondo migliore di un altro, solo mondi diversi, lo vuoi capire? Io… Marty, tu credi nella libertà?

―Beh, come tutti credo.

―Ecco, Combe invece no, Combe crede che la gente sia troppo stupida per governare il proprio stesso pensiero e vuole imporre il suo. Ti basta come spiegazione?

Marta ebbe come un risveglio.

―Ah, se la metti così allora mi sembra tutto molto meno allettante.

―È per questo che dobbiamo distruggere questa abominazione che ho sciaguratamente creato Marty. Per anni mi sono definito un anarchico, e ora, ho invece fabbricato lo strumento ideale per il potere.

―Abominazione?― Rise una voce familiare ―Ma quale abominazione, è l’unica cosa buona che tu abbia mai fatto in vita tua.

Doc e Marty alzarono lo sguardo sopra di loro. Sul ponte di mezzo, in sella a un cavallo nero, stava Combe, affiancato dal prefetto e l’avvocato con cui aveva colloquiato prima, egualmente montati su due equini. Pareva veramente in una figura importante da quella posizione. Sentirono poi un schiamazzo ai loro lati e videro quasi una ventina di vigili e legionari scendere dai bacini del fiume e allontanare a forza di grida tutti gli altri pattinatori. In pochissimo rimasero solo loro e decisamente troppe paia di occhi a guardarli dall’alto in basso.

―Che cosa diavolo significa questo?― Gridò Marta al limite che le permettessero i polmoni, a metà fra la paura e la rabbia di sentirsi tradita dalla stessa persona che l’aveva salvata poco fa.

―Mi sembra ovvio― Spiegò limpido da ogni aura di minaccia Combe, con la stessa faccia con cui avrebbe offerto un caffè a qualcuno ―Questi gentili signori mi stanno aiutando a prendere possesso del vostro rimescolatore.

―Come hai fatto a convincerli?― La domanda del Doc non era furiosa, solo sgomenta. Effettivamente la più grande sorpresa era che quella gente non lo avesse preso per pazzo.

―Dicendo la verità si ottiene tutto― Replicò Combe, grattandosi annoiato il naso ―Gli ho solo detto chi siamo, da dove veniamo e che cosa ci ha permesso di viaggiare. E ora sembrano molto interessati a mettere le mani anche loro sul tuo bel strumento mio caro.

―Come hanno potuto credere a una storia così demenziale? Io stessa stento a credere a quello che è successo― Anche Marta pareva essersi completamente disinteressata alla situazione in cui si trovavano e piuttosto capire come ci si era arrivati. Combe si limitò a tirare fuori dalla tasca il suo telefono e orologio da polso.

―Quando porti con te delle prove materiali è dura trovare scettici. I romani sono sempre affamati di conquiste, anche tecnologiche― Passò entrambi gli articoli al prefetto dal capo calvo, che passò a ispezionarli come un bambino, per poi adocchiare con ben poca pazienza il Doc ―Questa è l’ultima occasione che ti offro per fare la scelta giusta da uomo cosciente. Consegna immediatamente il rimescolatore e dopodiché potrete tornare nel vostro tempo.

―Aspetta un momento― Protestò Marta, agitando una mano un pugno ―Il nostro tempo non esisterà più se ti metti a incasinare il futuro.

―Ti sbagli― La corresse alzando l’indice al cielo ―Esisterà ancora, solo molto migliore rispetto a come lo avrete lasciato.

―Mi piace benissimo il mio mondo, non voglio scambiarlo con il tuo, qualunque esso sia.

―Bah, è inutile discutere, non riuscite proprio a seguire gli obiettivi a lungo termine― Poi chinò la testa a lato, verso il prefetto ed esclamò con faccia rassegnata, scuotendo il capo―Sociis non videtur velle cooperari. Te cogitare de persuadent eos, sed non eis nocebit nimis, eas vivum.

Di risposta l’altro fece un segno di assenso e alzò la mano destra, per poi gridare ben scandito ai quattro venti, come a farsi sentire per tutta la pianura Padana con la sua voce da baritono.

Prensionem illi, necesse est eos vivere!

A quell’ordine gli uomini sulle rive del fiume gelato gli si gettarono contro, battendo i loro calzari chiodati sul ghiaccio. Quei legionari erano decisamente lontani dalle figure austere e diligenti che Marta aveva studiato a scuola. Non avevano un’uniforme unica, né delle armi similari e avevano ben poco del tipico rosso acceso delle ricostruzioni. Tuttalpiù il loro colore di base sembrava essere un rosa leggero, a giudicare da come erano tinte le loro tuniche, verniciati i loro scudi e tessuti i loro mantelli. Parevano piuttosto adorabili onestamente, non fosse che avessero le facce di qualcuno che aveva passato tutta la vita a imparare come malmenare qualcuno per bene. Uno di loro, particolarmente baldanzoso, arrivò per primo a grossi passi di fronte a Marta. Il Doc si era già posizionato dietro di lei. Qualcuno avrebbe dovuto regolare il rimescolatore per scappare e un altro avrebbe dovuto fargli guadagnare il tempo necessario per farlo e, di certo, Marta il rimescolatore non sapeva neppure come prenderlo in mano, il che per esclusione lasciava a lei il compito di venire alle mani. Il vigile che li aveva approcciati prima non aveva estratto alcuna arma. Questo forse avrebbe reso le cose un poco più semplici. 

L’uomo si proiettò in avanti, con le mani protese, con l’intento di travolgerla con il suo peso e schiacciarla a terra. Lei lo attese, intercettò le sue mani, lo afferrò per i polsi e, sfruttando il suo slancio, lo fece girare intorno a lei, mentre quello incespicava a mantenere un contatto solido con il terreno. Quella versione grottesca di un duetto sul ghiaccio terminò quando Marta mollò la presa e si fermò piantando i pattini a terra. L’uomo invece finì poco decorosamente con il culo a terra, proprio sul punto precedentemente crepato dalla caduta del Doc pocanzi. Inutile dire che, al secondo impatto, la superficie andò in frantumi in un’esplosione di frammenti trasparenti e il vigile sprofondò nell’acqua gelata sottostante. Ma altri ora si stavano avvicinando.

―Doc― Biascicò Marta, continuando a cercare di tenere sott’occhio tutti gli avversari ―Dimmi che hai finito.

―Ce l’ho fatta Marty!― Esclamò lui giulivo. Poi si guardò oltre le spalle, verso il ponte ―Seguimi, ho trovato la nostra via d’uscita!― “Seguirlo” era un parolone. Come era già chiaro il Doc non aveva certo una preparazione olimpionica per il pattinaggio, ergo, Marta dovette trascinarselo dietro seguendo le sue indicazioni ―Le arcate del ponte! Possiamo usare quelle come portale!

Il Doc stava giusto per sollevare il dispositivo e puntarlo verso la volta più vicina, verso cui si stavano dirigendo, ma, d’improvviso, si videro sbucare da dietro uno dei pilastri due cavalli. Quello nero di Combe e, accanto, il prefetto, in veste azzurra e dorata, in sella con la spatha sguainata. Era decisamente troppo tardi per cambiare direzione, anche piantando i pattini a terra erano ormai in rotta di collisione per il più radicale taglio di capelli che avrebbero sperimentato.

Mulier est inutilis est nobis, occidere, ut amazon et senex erit patrioque― Diede istruzioni il professore, non incattivito, ma con frenesia di portare a termine il compito. Come fosse un suo subordinato il prefetto gli diede addosso, traendo indietro il braccio come una molla. Marta non avrebbe mai creduto di avere i riflessi abbastanza rapidi da poter evitare quella decapitazione, ma in un modo o nell’altro riuscì a farsi cadere all’indietro, mollando la mano del Doc e scivolando con la schiena sotto l’arco che descrisse la spada nell’aria. Quando provò a rialzarsi si rese conto di avere trattenuto il fiato per tutto il tempo senza volere e di ritrovarsi qualche metro più in là di quanto pensasse. Ancora confusa si era appena rimessa in piedi che uno scalpiccio di zoccoli alle sue spalle la fece girare. Ovviamente il prefetto aveva avuto tutto il tempo di raggiungerla a di portare avanti un secondo attacco. Il cuore le batteva come se stesse per esplodere. Ma il prefetto non portò mai a segno quel colpo. Due braccia di mezz’età lo cinsero per la vita ed ecco che, vivendo in un’epoca dove le staffe non erano ancora state introdotte, fu facilmente levato di sella e sbattuto sull’acqua solida come un sacco di patate. Marta non aveva neppure avuto il tempo di comprendere quanto fosse successo che il Doc sbucò da dietro la montatura trafelato e incespicando sulle sue calzature a lama.

―Non abbiamo il tempo di respirare, andiamocene!― Le ordinò lui col fiatone. Marta non se lo fece ripetere, ma non riprese a pattinare. Sotto lo sguardo allibito del Doc si issò con un balzo sul cavallo bianco, ora sgombro di cavallerizzo, e tese la mano al suo compagno. Nel mentre che anche lui andava a piazzarsi sulla groppa alle sue spalle, un legionario si fece avanti. Provò ad afferrarla per una gamba per tirarla a terra, ma si vide l’arto ritrarsi via prima che potesse chiudere la presa, per poi slanciarsi sul suo petto, colpendolo non proprio delicatamente con la lama in legno che sporgeva dalla suola. Il corpo andò a schiantarsi contro l’altro soldato che lo tallonava e finirono ambedue a gambe all’aria.

Altri legionari e vigiles gli sarebbero andati contro, ma a causa dei sì, ben stabili, ma lenti sul ghiaccio, calzari chiodati e dello stupore causato dalla caduta del prefetto, tardarono a rispondere con prontezza. Difatti, molti si erano radunati attorno alla figura dalla schiena a pezzi del loro ufficiale in azzurro e oro per fare a gara a chi si fosse prodigato maggiormente ad aiutarlo.

Vos amentibus!― Gridava quello rosso in viso dalla furia e la vergogna, agitando le braccia per allontanare i suoi uomini ―Non auxilium mihi, ire post eos terra marique pacata!

Doc e Marta erano partiti al galoppo, o almeno ci stavano provando. L’unica volta che Marta aveva cavalcato un cavallo era ad un Palio di qualche anno fa, quindi mise in pratica quanto gli avevano insegnato e quello che aveva visto nei film. La cosa fu molto meno emozionante di quanto sperasse: Il cavallo esitava, confuso dallo scambio di fantino, e frattanto, diversi uomini, avevano preso a corrergli addosso, ignorando il tipo di terreno su cui si trovavano. Marta provò a convincere il povero quadrupede con le dolci parole e agitando un poco le briglie, ma quello se ne rimaneva sul posto, nitrendo come se non capisse neppure dove si trovava. Il Doc, con la sua solita grazia, alzò e calò i talloni sulle reni dell’ippomorfo, stringendosi saldo ai fianchi della sua Marty, appena prima che le frenetiche forze dell’ordine gli fossero addosso. Finalmente il cavallo ebbe uno sbalzo in avanti e si rimosse dalla linea che i soldati e i vigili stavano percorrendo. Provarono a correggere la loro direzione, ma la corsa che avevano intrapreso fino a quel momento non gli aveva permesso di piantare le suole chiodate come avrebbero dovuto e quella curva di novanta gradi mandò molti di loro a perdere l’equilibrio e strisciare per terra.

Il duo attraversò l’arcata di fianco quella che avevano attraversato e tornarono dall’altra parte. Quando la donna si rese conto che non stavano attraversando alcuna parete nera si girò furiosa verso il Doc alle sue spalle.

―Ma cosa diavolo aspetti ad aprire il tuo maledetto portale? Non possiamo schivarli all’infinito!

―Credo che il rimescolatore…― Spiegò il dottore, non credendo alle sue stesse parole dall’orrore ―Si sia danneggiato nella caduta e ora non risponde…

―Mi stai prendendo per il cu…?

―Attenta!

Furono letteralmente speronati da un secondo cavallo. Su quella superficie, gli zoccoli, già non erano il tipo di zampa ideale da possedere per gli spostamenti, ma quando quella massa nera li investì non ci fu assolutamente alcun modo per entrambi gli animali di mantenere l’equilibrio. Avevamo già evidenziato la mancanza di staffe in precedenza e come questa assenza non giocò a favore del prefetto, essa non giocò a favore di nessuno dei tre uomini che furono riversati sul ghiaccio. Il cavallo bianco si piegò sfiancato in avanti sulle ginocchia delle gambe frontali, i suoi due montatori caddero oltre il collo dell’equino e appena esso si rizzò di nuovo in piedi decise immediatamente di tirarsi fuori da quel covo di matti e risalì il bacino dell’oltre-torrente e corse via per i prati innevati spaventato. Il nero invece, dopo il colpo, era stato sbalzato all’indietro senza fiato e aveva perso la rigidità delle zampe posteriori, cadendo seduto e lasciando il proprio cavaliere rotolare all’indietro, lungo la sua groppa, e atterrando con un mugugno di dolore sul fiume bloccato dal gelo. Combe era decisamente troppo vecchio per queste cose.

Marta provò a rialzarsi ma le sue braccia non gli ressero dal dolore e i suoi polsi gli scivolarono lungo il ghiaccio, finendo di nuovo con le guance premute sul terreno dolorosamente gelido. Rimase lì, senza aprire gli occhi ad autocommiserarsi di quanto gli facesse male tutto quanto, affondando il volto fra le braccia. Fece una breve ricapitolazione, nel buio della sua mente, di tutto quello che gli era successo durante la giornata. Dalla rissa in Via Vincenzo Mistrali, di cui rimpiangeva tutto quanto, dall’essersi lasciata coinvolgere fino ad aver ricevuto più cazzotti di quanti ne avesse dati. Poi si era ritrovata a doversi buttare giù da una finestra del terzo piano della villa di una riccona feticistica, solo per atterrare, nel peggior modo possibile, su un terrazzo cinque metri più in basso, attraversando molto dolorosamente le fronde di un albero indurite dal freddo. Tutto quello che aveva mangiato in quelle ore era una misera zuppa di fagioli, per poi offrirsi volontaria, ancora a stomaco mezzo vuoto, di correre come un’idiota in mezzo ad una piazza, letteralmente legata a un sessista dal culo scolpito. E ora era stata tradita da un Giuda dalle manie di grandezza uguali solo al suo senso di insicurezza sociale e dei legionari del I secolo avanti Cristo stavano per corcarla di mazzate. Forse avrebbe fatto meglio a rimanere a letto quel giorno. E invece del materasso era ora distesa all’ombra del ponte di Mezzo, sopra la superficie ghiacciata, come una miserabile stella marina umanoide, incapace di muoversi. Aveva fame, era stanca, aveva freddo, era piena di tagli, lividi e sbucciature. Fino ad all’ora la peculiarità della giornata l’aveva distratta da quanto il suo corpo la pregasse di smettere, ma, ora che quella botta le aveva come resettato il cervello, le era impossibile pensare ad altro. Non era decisamente questo il modo in cui voleva che tutto finisse. Aveva dovuto avere a che fare con il marcio del sistema scolastico Italiano per anni, erano mesi che lavorava in un periodo di pratica in uno studio notarile pagata come una badante, non aveva idea se la carriera che aveva scelto facesse per lei e il suo ragazzo la considerava un fallimento, così come buona parte della gente con cui era entrata in contatto nella sua vita. In tutta onestà non ci stava più capendo nulla. Quale percorso logico l’aveva portata lì? Le faceva male la testa. I passi si facevano più vicini. Fra poco sarebbe tutto finito.

―Marty!― Il grido di Doc l’aveva ridestata. Non era uno dei suoi gridi soliti, di quelli spazientiti, no, era sinceramente preoccupato per qualcuno, forse per sé stesso, ma preferiva pensare che si trattasse di un’ansia dedicata a lei ―Il rimescolatore ha ripreso a funzionare! Corri, per dio, abbiamo una via d’uscita!

Marta alzò il capo e aprì gli occhi annebbiati, il vento le sferzava il volto. Di fronte a lei, appena a due metri forse, il Doc si era trascinato a gattoni fino ad una spaccatura nel ghiaccio, la stessa spaccatura che lei aveva creato durante la colluttazione con uno dei soldati. Puntò il suo dispositivo verso il centro del perimetro e premette il pulsante. Ci fu un lampo, più intenso dell’altro che li aveva portati lì, a causa del contrasto di quel bianco in mezzo all’atmosfera ormai quasi notturna che li circondava. Dove prima stava un foro sopra l’acqua quasi piatta, ora stava una superficie nera, immobile, solida come un muro a vedersi. Il Doc ci si tuffò come se fosse privo di gambe, trascinandosi avanti con le braccia ed entrando di testa. Lui era passato, ora restava solo lei.

Guardò dietro le proprie spalle. I legionari e i vigiles non si facevano avanti. Subito dopo un fulmine a ciel sereno, un uomo era scomparso di fronte ai propri occhi in un pozzo nero apparso dal nulla. Era passato troppo poco tempo perché si riprendessero. Marta riuscì a rimettere un piede al suolo, sotto il proprio ventre, piantò le mani a terra, si sollevò e assunse una posizione da maratoneta, più per necessità che per altro. Stava per scattare in avanti quando sentì il corpo di un uomo di bassa statura schiantarsi contro di lei. Tutta l’aria che aveva in corpo le fu tolta tutta d’un tratto e ora si ritrovava a volare in avanti, con il corpo di Combe stretto attorno al petto, che urlava frasi incomprensibili, in nessuna lingua specifica. Insulti forse. Sparirono entrambi nell’abisso. Il portale si richiuse dopo pochi secondi. Nessuno tentò di avvicinarlo.

Servius Avidius Aebutia guardò tutta la scena dall’inizio alla fine, da sopra il ponte. Rise per tutto il tempo, per varie ragioni, a osservare cosa diavolo stesse succedendo nel letto del fiume. Quando tutto ebbe finito, sudato e con la tempia pulsante, guardò alla sua sinistra. Il prefetto si era messo ad inseguire il suo bel cavallo bianco in mezzo alla neve, perdendosi tutta la scena. Dalla sua posizione, e dal manto dell’equino, sembrava quasi che quell’uomo ben vestito stesse inseguendo con foga il nulla. In un certo qual senso era assolutamente così. Tirò fuori dalla tasca quegli strani oggetti che l’uomo dal latino maccheronico aveva dimenticato indietro. Aveva aggiunto, durante il loro dialogo, che avevano una carica limitata, o qualcosa di simile. Avrebbe dovuto rimettersi in cammino in fretta allora e arrivare a Roma prima del previsto. Doveva assolutamente raccontare il tutto a Tacitus, forse anche lui ci avrebbe riso su.


***


Marta si risvegliò con un forte bruciore negli occhi. L’acqua salata gli era entrata negli occhi. Doveva essere arrivata l’alta marea o qualcosa di simile. Provò ad alzarsi mentre le onde gli rimuovevano la sabbia da sotto i palmi. Gli bruciava la schiena e il retro degli arti. Doveva essersi scottata al sole. Da quanto tempo si trovava su quella spiaggia? Forse un’ora o un giorno intero. Era tutta indolenzita, voleva tornare a dormire, o meglio, ad essere priva di conoscenza. Alzò gli occhi al cielo. Era azzurro, privo di nuvole. Il rumore del mare riempiva l’aria, un rumore leggero, come le spiagge di Cesenatico a luglio. Sentì un pigolio di qualche animale, ma non abbassò la testa subito. Si sentiva stordita, molto più di quanto avrebbe dovuto, come se il suo cervello fosse pieno d’aria, elio più precisamente, si sentiva il cranio galleggiare, per scoppiare. Chiuse gli occhi, fece un gran respiro e abbassò il mento. Quando aprì gli occhi si trovò davanti un uccello strano, grosso come una gazza, bianco a chiazze azzurre, con delle zampe posteriori estremamente spesse e una lunga coda, come quella di un pavone, ma non si trattava di semplici penne. No, era una coda vera e propria, rigida, poco elastica, ben sollevata dal terreno e che terminava in un grosso ciuffo a semicerchio sulla punta, come no spolverino. L’animale la guardò con i suoi occhi a palla frontali, inclinando la testa.

Marta si guardò attorno. Era circondata da quegli animali, come un intero stormo di almeno una ventina che pattugliava la spiaggia. Le si muovevano vicino, come a ispezionarla. Un altro di loro, più lontano, si grattava le penne dell’ala come un piccione. Un altro prendeva la sabbia nel becco e la lanciava per aria, facendosela ricadere addosso. Ebbe solo un momento per ammirare quella fauna tropicale che sentì qualcosa morderle la coscia. Lanciò un gridolino dalla bocca asciutta e si rigirò sulla schiena. Ci fu un fischiare spaventato da parte di tutto lo stormo e vari salti all’indietro. Uno di loro, quello responsabile, non scappò, arretrò di un passo e alzò le penne come un gatto, riprendendo a camminare verso di lei, testa china, ali aperte ai lati del corpo per intimidirla e sibilando. Di tutta risposta Marta si sfilò uno dei pattini e glielo lanciò addosso. Fu tutto quello che bastò a far allontanare lui e i suoi fratelli, che presero a correre lontano, lungo la costa sabbiosa, ali premute ai lati del corpo.

―Ahia, ma che diavolo fai?― Si lamentò una voce più avanti. Il pattino non era impattato contro l’uccello, era stato troppo rapido a schivarlo. Marta guardò più in là. Combe, seduto sulla sabbia come lei, si massaggiava la testa. Cercò il Doc e lo trovò riverso di schiena anche lui, in un punto diverso. Non era svenuto, guardava il cielo impassibile, a grandi occhi aperti.

―Doc?― Chiese lei debole ―Dove diavolo siamo finiti ora?

―Questo…― Mormorò lui, con la gola secca, immobile ―Questo io non te lo so dire. Certo siamo sempre dove Parma sarà fondata ma… siamo andati molto più indietro di prima. Il rimescolatore non funziona più molto bene. Non so dirti in che epoca siamo, ma temo che l’uomo, anche l’Italia stessa, non esista ancora.

Marta si guardò attorno. Il mare pareva uguale a quello del suo tempo, così come la spiaggia e la foresta di pinete e felci dietro di lei. Faceva caldo, ma non era soffocante, anzi, era piacevole. Ciononostante non poté fare a meno che avere un brivido lungo la schiena, come se si fosse resa conto di essere morta da viva. Sentiva che non doveva trovarsi lì, che aveva nuotato troppo in là e l’acqua era troppo profonda per lei. Sentì de versi e vide dei volatili chiudere cerchio dopo cerchio sopra le onde, occasionalmente tuffandosi a pescare qualcosa. Sarebbero potuti sembrare degli albatros o dei gabbiani, ma avevano testa smisuratamente lunga e ali non di penne ma membrana che spuntava da sotto la pelliccia. Una grossa cresta rossa solcava la loro nuca. 

Era tutto così simile al suo mondo, ma non lo era. Avrebbe voluto tornare a casa, ma il pensiero che casa sua letteralmente non sarebbe esistita se non in qualche milione di anni in quell’universo la atterriva. Si strinse il cuore. Non importava dove avrebbe corso, non sarebbe mai tornata da Gladys, né avrebbe vissuto abbastanza a lungo per rivederlo. E l’unico mezzo che poteva riportarla indietro poteva essere rotto.

―Doc― Disse con un tono supplichevole di buone notizie ―Puoi riportarci a casa?

―Lo scopriremo fra mezz’ora cara Marty― Sussurrò lui, alzandosi e sedendosi contro la cima di una palma nana sul limitare del bosco ―La ricarica non è ancora finita. Direi di goderci la nostra permanenza finché possiamo.

Marta si mise in piedi. Ebbe difficoltà a tenersi in equilibrio, ma ci riuscì. Aveva la testa così pesante e non capiva perché. Arrancò verso l’uomo verso cui aveva intenzione di sfogarsi. Afferrò lo sbigottito Combe per il colletto della tunica e lo issò al suo livello degli occhi. L’uomo ebbe difficoltà a respirare per lo stupore e scalciava l’aria.

―Spero tu ti sia divertito gran figlio di puttana. Peccato che nessuno di quegli sbirri in minigonna ti abbia seguito fin qui a darti una mano, perché sappi che se non riuscirò più a rivedere la mia famiglia, il mio Gladys, la mia città entro mezz’ora, giuro che ti strappo la spina dorsale dalla gola e te la rimetto a posto passando dal culo, mi sono spiegata?― E per rimarcare il concetto non poté fare a meno che rimetterlo a terra e schiaffeggiarlo come un bambino, diritto e rovescio, fino a che la mano le faceva male. Quando ebbe finito due persone stavano piangendo su quella spiaggia. Il Doc guardò quelle due figure patetiche battere i pugni sulla sabbia e prendersi la faccia fra le mani. Certo, l’idea di rimanere bloccati in un mondo alieno come quello doveva essere davvero spaventoso, ma lui non riusciva a sentire nulla. Era un apatia curiosa. Guardò il sole, accecante, caldo e poi un coleottero mai visto prima girare attorno a lui, con un corno bio-illuminato. Gli si appoggiò, ronzando, sulla guancia, a leccarsi le zampe. Al Doc non disturbò affatto. Portò la sua attenzione, in seguito, su una massa enorme, il lungo collo di un animale dalla testa piccola sollevarsi sul ciglio dell’acqua, minuscolo all’orizzonte, rilasciare uno spruzzo d’acqua dalla bocca, per poi inabissarsi di nuovo. Dunque era questa la terra priva di ogni intervento dell’uomo.

―Suvvia― Disse ai due di fronte a lui. Quelli gli si voltarono con i volti rigati dalle lacrime e pieni di sabbia ―L’unico motivo per cui voi amici miei piangete è perché non avete più alcun punto di riferimento mentale. Tutte le vostre abitudini sono state cancellate, o meglio, non esistono in questo mondo preistorico. Non avete un lavoro, non avete una famiglia, una casa, un governo, una patria, una razza. Tutto il vostro vivere quotidiano qui è inutile. Non esistono stipendi, contratti, proprietà privata, leggi, diritti, doveri, legami. Questa è una terra pura dagli schemi umani di pensare dell’uomo post-moderno, che li vede necessari alla sua sopravvivenza. Ma guardatevi attorno. I ranforinchi solcano i cieli, i plesiosauri nuotano nel mare e sulla terra dominano i dinosauri. A nessuno importa dei vostri complessi. Sono tutti troppo impegnati a vivere la propria esistenza, da esseri liberi e autonomi, caro il mio professor Combe. Una terra vergine, priva di istituzioni. Ah, che sogno.

Doc pareva decisamente troppo allegro per gli altri due. Non lo avrebbero mai capito del tutto, ma un frammento di quel che aveva detto lo avevano afferrato forse. Combe era troppo orgoglioso per dargli ragione e Marta non aveva più la forza di parlare. 

Un mollusco simile a un paguro, e dalle lunghe antenne, passò davanti loro, con l’unica preoccupazione di trasportare la propria conchiglia verso l’acqua. Entrambi lo seguirono con un interesse particolare.


***


―E alla fine siamo riusciti a ritornare. Il rimescolatore funzionava dopotutto. Certo abbiamo dovuto fare tappa alla battaglia di Legnano una volta lasciato il Kimmeridgiano, ma è andata bene tutto sommato…― Concluse Marta terminando il suo piatto di seppie e vongole. Gladys ascoltava perplesso all’altro capo del tavolo.

―D’accordo…― Disse distrattamente lui facendo la scarpetta ―E poi cosa è successo con il matto e il doppio matto?

―Beh― Scrollò lei le spalle, a bocca piena ―Kata Combe è tornato alla sua vita di tutti i giorni. Ha perso ogni voglia di conquistare il mondo o roba simile. Dopotutto non avrebbe funzionato. Il Doc ha detto che evitare gli errori del passato ne avrebbe solo generato di nuovi. “La storia non è una speedrun che puoi fare perfettamente” ha detto o qualcosa di simile prima di lasciarci.

―Lasciarvi?― Chiese alzando il sopracciglio Gladys, prima di bere un sorso di lambrusco.

―Sì, uhm…― Marta cambiò improvviso espressione, giocherellando con il coltello ―Il Doc non è rimasto qui. Ha detto che ha trovato il suo paradiso alla fine. È tornato indietro, molto indietro.

―Non si annoierà senza qualcuno con cui parlare?

―Credo di no― La donna guardò fuori dalla finestra. Pioveva ―Ha tutta la storia del pianeta a sua disposizione e dubito che gli basterà tutta la vita per viverla tutta. Ma se c’è un periodo che non vuole visitare sono gli ultimi tre milioni di anni e gli Homo sapiens in generale.

―Non tornerà più?

―Forse. Ha detto che passerà a farmi una visita di tanto in tanto, per chiedermi se voglio unirmi al suo safari temporale.

―E questa è la fine della storia?― Chiese lui pulendosi la bocca con il tovagliolo.

―No, non credo. Di storia ce n’è una sola ed essa non avrà mai fine, questo l’ho imparato per certo. Ma sì, questa avventura per ora si è conclusa qui. Domani tornerò a lavoro come mio solito.

―Beh, che dire allora…― Rise Gladys ―Con le frottole ci sai fare.

―Immaginavo non mi credessi. Quindi niente sesso nel futuro prossimo?

―Diciamo che dovrai far qualcosa di più di così per meritarti il mio pene.

―Capisco. Stasera pago io, ti basta?

―È un inizio. Non abbastanza, ma apprezzo questo gesto da gentildonna.

―D’accordo. Cominciamo con la mancia allora― E detto questo tirò fuori una manciata di monete e la poggiò sul tavolo. Gladys si sporse in avanti a vederle meglio. Ci stava un bel faccione paffuto stampato sopra, con una corona d’alloro.

―Sai― Commentò lui ―Temo che siano fuori corso.

   
 
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